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Autore: Ellies    13/05/2012    1 recensioni
C'è Lui, James. E manca lei, Elizabeth.
E poi ci sono delle storie che sembrano tutte diverse tra di loro, ma che alla fine fanno tutte parte della stessa vita.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Uno.

Sono passati quattro anni, e ancora non c’è giorno che io non pensi a lei. Ogni cosa mi ricorda lei.
Il profumo dei biscotti al cioccolato che invade la casa, e ci rimane anche per tutto il giorno, fino alla sera, la notte, e penetra nei cuscini, quelli bianchi della camera da letto, con il ricamo in alto a destra, gli angoli leggermente sgualciti, che lei non era mai stata in grado di cucire.
Lei non era una casalinga. Era distratta, in un mondo tutto suo, costantemente. Non sarebbe cambiata mai, e non voleva cambiare. Non mi costringerai mai tra queste quattro mura, James, diceva. Non l’avrei fatto comunque. La sua felicità era ciò che volevo. Volevo che fosse felice anche quando era in terapia, quando scoppiava e non riusciva a calmarsi. Sapevo che era impossibile, ma lo volevo. Sapevo che non ci sarebbe riuscita, ma lo volevo. Ero egoista, perché la mia felicità dipendeva dalla sua, e quando lei non poteva esserlo io stavo male, e cercavo di imporle quel tipo di felicità che solo gli uomini follemente innamorati possono cercare di imporre. Una felicità falsa, senza amore. Solo un bisogno impellente di non dover dar conto ai problemi. Ma era lei il problema. Quando c’era lei c’erano i problemi. Dovevo calmarla quando aveva i suoi scatti d’ira; dovevo proteggerla quando aveva paura; dovevo amarla quando me lo chiedeva lei.
Ma lei non capiva che l’amore glielo davo tutti i giorni, ricordandole le pillole da prendere, così tante e diverse, e terribilmente utili; spazzolandole i capelli, la sera, raccogliendo quelli che cadevano a terra, sul parquet scheggiato che lei aveva tanto voluto tenere. Io l’amavo ogni singolo giorno. Lei invece mi amava solo in rare occasioni di lucidità, quando stava abbastanza bene da alzarsi prima di me per prepararmi la colazione, o uscire al parco, camminando all’ombra degli alberi scossi dal vento. In quei momento ero dannatamente felice, perché sapevo che lei era mia, era quella che conoscevo, che avevo sposato.
Non era il risultato di decenni di maltrattamenti e terapie, psichiatri e camere bianche d’ospedale, pillole e lavaggi di cervello. Lei era la fragile, dolce ragazza che mi aveva fatto innamorare al liceo.

Due.
L’alba stava avanzando e la camera era pervasa da un alone tenue, che dipingeva sui muri righe di luce che filtravano attraverso le persiane socchiuse. Il rumore del mare giungeva nitido anche a quella distanza, che alla fine non era poi così tanta. Un uomo era seduto su una sedia. Seduto, guardando l’orizzonte dalla porta-finestra aperta. Stava piangendo e scommetto che lui nemmeno sapeva il perché. Perché gli uomini non piangono, ricordatelo, James, diceva suo padre.
Ma lui non aveva mai ascoltato suo padre, con quell’uomo non aveva mai avuto nessun legame che non fosse di sangue, e in quel momento, gli sembrava davvero una cosa irrilevante.
Si alzò, senza nemmeno preoccuparsi di asciugarsi il volto, lasciando che la traccia umida delle ultime lacrime gli rigasse il volto, come un segno permanente di quello che stava provando.
Camminò lentamente, cullato dal vento che si era alzato, che muoveva lentamente il mare, piatto sotto le barche ferme al molo, che sussultavano dolcemente quando una nuova folata di vento increspava l’acqua.
Senza accorgersene si stava dirigendo proprio verso il mare. Lo chiamava, come aveva fatto da bambino, da adolescente e persino da adulto. Il mare conosceva lui e lui conosceva il mare. E non sapeva come, lo conosceva e basta.
Si tolse le scarpe che ancora era sull’asfalto. Sfilò anche le calze e le appallottolò, spingendole in fondo alle scarpe, per non rischiare di perderle. Posò poi un piede sulla sabbia. Era calda, e la sensazione dei granelli che si appiccicavano alla pianta sudata del piede gli diede un leggero fastidio. Ma continuò a camminare, poggiando anche l’altro piede sulla sabbia, e poi ancora il primo, e il secondo, e di nuovo il primo, fermandosi e chiudendo gli occhi ogni volta che i suoi sensi andavano in contatto con quella superficie instabile e calda.
Non l’aveva ancora capito, ma era arrivato al mare. Solo quando l’acqua, fredda, gelata in confronto al tepore della sabbia,  gli cominciò a bagnare i pantaloni si accorse di esserci entrato, e si rese conto di non poterne più uscire. E non si fermò, e quel giorno il mare lo prese, e da quel giorno non riuscì più a capire il mare.

Tre.
Era su una bella collina, verde, di quelle che sembrano addirittura irreali per quanto la sua erba riesce ad essere brillante, come dipinta ogni giorno di fresco. Dovevi camminare molto per arrivarci in cima, seguendo una lunga via di pietre piatte, bianche e grezze, ai lati una fila ininterrotta di alberi di pesco. E quando ci arrivavi, in cima, allora capivi di aver compiuto un viaggio, nel caso avessi notato anche i piccoli dettagli sul percorso. Un piccolo cigno di pietra nera, poggiato su un piedistallo di legno. Le casette per gli uccellini, sparse su ogni albero, così che non mancasse mai riparo. Le tavolette di legno, ognuna con un anno dipinto sopra, in bella calligrafia che poteva appartenere solo ad una donna.
Arrivavi in cima e spesso potevi trovare un uomo, inginocchiato sull’erba, con gli occhi chiusi, quasi stesse dormendo. Lo trovavi e lui trovava te, anche se non ti vedeva. Lui ti sentiva, ti percepiva.
Lo trovavi, intento a contemplare quello che a prima vista poteva sembrare un santuario, ma che scoprivi poi essere una tomba. Come un mausoleo.
Era fatto in legno, e la prima volta che lo vidi pensai che fosse bellissimo. Aveva ai lati due grandi alberi, anch’essi di pesco, come quelli sul percorso, che facevano cadere, di tanto in tanto, piccoli fiorellini rosa, e dopo qualche giorno, il prato verde brillante era coperto da un manto rosa, impenetrabile.
Ma ciò che ti colpiva era la foto, nel mezzo, una grande foto, nitida, perfetta. E se la osservavi attentamente scoprivi che in realtà era un ritratto, di una bella donna bionda, con gli occhi castani come il tronco degli alberi di pesco, quelli sul percorso e ai lati della tomba, che facevano cadere i fiorellini rosa sul prato.
E lui era lì, in silenzio. A pensare con lei.
Io conversavo con lui, gli parlavo e lui mi rispondeva con parole silenziose. Non conoscevo la sua voce e non mi aspettavo, né pretendevo, di conoscerla.

Quattro.
Sono passati quattro anni, e ancora non c’è giorno che io non pensi a lei.
La vado a trovare, qualche volta, la guardo da lontano e non dico nulla, osservandola solamente, come temessi di darle fastidio. Ma ora lei è felice. O almeno lo spero.
Ogni tanto mi capita di pensare più intensamente a lei quando sono nel letto, magari, sempre da solo. Ormai è da quattro anni che non vedo più nessun’altra donna che non sia lei.
La penso e immagino di accarezzarla, far scivolare i soffici capelli biondi tra le mie dita scure, chiudendo gli occhi per percepirne ancora meglio la consistenza. Mi sembra ancora di sentire il suo profumo, quel dannato profumo che comprava chissà dove, che ti entrava nelle narici e non se ne andava più.
Quando la accompagnavo in ospedale, ancora lo sentivo, tornavo a casa, e lo sentivo. Era come se lei l’avesse lasciato su di me, per non sentirmi mai solo.
La accompagnavo, e spesso restavo là.
Vai a casa, dormi, mi diceva. Ma io scuotevo la testa e dicevo di no, voglio restare con te. E mi sedevo sulla sedia e le prendevo la mano, e parlavamo, e parlavamo, oppure restavamo in silenzio. A volte ci piaceva restare in silenzio. Chiudere gli occhi e riaprirli soltanto per un breve sorriso.
Sono passati quattro anni e ancora penso che se l’avessi amata di più sarebbe ancora con me.
Sono passati quattro anni, e ancora vedo il sangue scorrere sul piumone bianco del letto, nella nostra camera, che non toglievamo nemmeno d’estate. Ci dormivamo sopra, ma non lo toglievamo mai.
Il sangue mi fece un effetto terribile. Era una macchia definita, spiccava come una luce accecante nel buio. Era la macchia che da tempo si era intromessa nei nostri equilibri, nei suoi, nei miei.
Io l’amavo e lei amava me, e si era tolta la vita perché io smettessi di amarla così tanto, di occuparmi di lei, di non avere a che fare con una moglie pazza.
Aveva ventiquattro anni, e probabilmente una vita fatta di terapie, psichiatri e camere bianche d’ospedale, pillole e lavaggi di cervello davanti.
E sapevo che lei non lo voleva. Nemmeno io lo volevo, per lei.
Aveva avuto un passato fatto di decisioni prese per lei, decisioni che non aveva mai approvato. E quel giorno decise lei per la sua vita.
Non credo di averla mai amata di più, che quando vidi il suo corpo sorridente, forse solo contratto ancora nell’ultima smorfia di dolore, quando premette il vetro nella carne fresca e ambrata del suo braccio.
Non era mai stata pallida, tanto che non sembrava nemmeno malata. Conservava sempre quella sua bellezza, senza essere apparentemente turbata da nulla, ma lo capivi quando era stanca, esausta, e sul punto di scoppiare di nuovo.
Non credo di averla mai amata così tanto quando mi lasciò quel biglietto con le sue ultime volontà.
Non mi disse mai addio. Ma non riesco, e non posso essere arrabbiato per questo, perchè so che lei in quel momento era felice.
Io, io non ero felice, o forse solo per lei.
Il dolore mi lacerava dentro, l’avevo persa per sempre, e mi sarebbe mancata da morire, mi sarebbero mancati tutti i piccoli particolari che solo lei riusciva a darmi.

Sono passati quattro anni, ed è da quattro anni che non parlo. Non so perchè, forse perché le parole le riservavo a lei, o forse perché non ho nulla da dire a chi mi sta attorno.

Sono passati quattro anni e davanti alla sua tomba sono in silenzio, e c’è un uomo dietro di me. Viene qui quasi tutti i giorni, quasi come me. Io vengo ogni giorno, però.
Riconosco i suoi passi, leggeri e silenziosi, che scricchiolano però sempre sull’ultima pietra bianca, piatta e grezza. Ormai ho imparato a conoscerlo, senza che lui me ne abbia dato il permesso.
Mi alzo e mi volto verso di lui, guardandolo in volto e gli sorrido. E’ un sorriso di quelli sinceri, che raramente sfoggio con le persone. Ma lui è da due anni che mi parla, e so che mi conosce ormai, come io conosco lui, e non gliene ho dato il permesso.
Mi incammino lentamente verso le pietre, quelle piatte, bianche e grezze del sentiero.
A domani, John, gli dico.
A domani, James, mi risponde.

Fu l’ultimo giorno che lo vidi, e che lui vide me. 
   
 
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