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Autore: SunriseNina    14/05/2012    2 recensioni
« OLIVIER ARMSTRONG x SCAR »
«Qualche volta vieni a far visita a Briggs. Sei un esempio che i miei uomini potrebbero seguire.»
«Mi farebbe piacere. Sul serio.» Scar si guardò intorno, come in imbarazzo «A questo punto qui le cose stanno migliorando parecchio. Forse tra qualche mese verrò a farvi visita.»
La donna annuì, soddisfatta.
«Spero di rivederti. Bada a te stesso, Uomo Cicatrice.»
[Da:"Burning ice."]
«Non so minimamente cosa voglio. Sentivo solo il bisogno di dirti che, quando sono con te, è come se tutto sparisse e si facesse più nitido allo stesso tempo. Tu alteri la mia realtà, Olivier. E non so come affrontare questo genere di situazione. »
Lasciarono che il silenzio colmasse quei lunghi istanti; Olivier sentiva accanto a sé il petto di Scar palpitare, ne sentiva il respiro tiepido tra i capelli.
Lui le scostò con indicibile delicatezza una ciocca fuori posto per poter meglio ammirare il suo viso, i suoi tratti nordici, le lunghe ciglia e le deliziose labbra: il complesso, incorniciato da quella fluente chioma color dell’oro, risultava così bello da parere inumano.
«Scar?» lo interpellò nuovamente «Sai che tutto ciò è sbagliato, vero? Sai che né io né te possiamo abbandonare i nostri ruoli per dei miseri sentimenti?»
«Ne sono più che consapevole.» disse lui, ma non smise di abbracciarla. Accostò il capo al suo orecchio, e le mormorò: «Vorrei solo che quest’attimo durasse un’eternità. Vorrei non dovermi più alzar da qui, anche a costo di congelarmi, perché so che una volta che torneremo indietro tutto questo non sarà mai accaduto, e dovrò nuovamente portarmi queste sensazioni nel petto, farle tacere in un modo o nell’altro. So anche che non ti rivedrò chissà per quanto tempo, e comunque se mai ancora ci rivedremo nulla cambierà: io sarò sempre un sacerdote, tu sempre un generale. »
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Olivier Milla Armstrong, Scar
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Le sue dita scivolavano sui tasti, come trascinate da un’entità superiore.
Nella piccola stanza il fiume di note che sgorgava dal pianoforte a muro si mescolava all’aria e alla polvere, senza limitarsi all’inebriare il solo udito: pareva che ogni senso fosse pervaso e ammaliato da quella melodia fluida e ininterrotta.
Olivier stessa si chiedeva come fosse possibile che riuscisse ancora a suonare così bene, dato il lungo lasso di tempo in cui non aveva più sollevato la copertura della tastiera. Di nuovo uniti, lei e quel magico strumento color dell’ebano, il cui delicato suono la avvolgeva stregandola.
Una lacrima le cadde su dorso della mano; seccata, interruppe la musica e la strofinò via. Le sue guance erano umide di pianto, i suoi occhi arrossati come gli zigomi, il collo teso e il mento raggiunto da qualche lacrima caparbia che aveva proseguito instancabile il suo incedere sul suo volto.
Le parole che anni e anni addietro le aveva riferito teneramente sua madre la fecero rabbrividire, e proseguì a suonare cercando di coprire il rumore aspro dei suoi pensieri.
Si rivedeva, bambina, seduta al grande pianoforte a coda della sala da ballo della villa; i raggi lunari che dolcemente facevano rilucere i tasti color perla dello strumento di un colore candido come la neve appena posata in terra. Anche quella notte, alla fioca luce di alcuni candelabri, si era ritrovata a suonare con dita tremanti e con la gola scossa dai singhiozzi.
Ricordò anche il giorno in cui, ampliando e ristrutturando l’immensa struttura di Briggs, si era ritrovata davanti a quel vecchio sgabuzzino senza sbocchi né finestre nascosto in uno dei più remoti angoli della fortezza. Ai suoi occhi subito era apparsa quella imperdibile possibilità, e in gran segreto aveva comprato quel pianoforte poco ingombrante, che era poi stato sistemato da pochi uomini di fiducia: così era stato creato quel suo piccolo paradiso, quella stanza che era l’incarnazione del suo più recondito subconscio.
Improvvisamente, un cigolio le fece interrompere bruscamente la musica; si voltò di scatto: qualcuno era entrato nella stanza.


Scar, in uno dei suoi soliti dormiveglia, stava supino sulla scomoda branda con le orecchie tese; quell’ambiente, per quanto cercasse di ignorarne la cupezza, era assai inquietante: a renderlo inquieto, più che il fatto di essere in una prigione, era l’assoluto silenzio che in essa regnava. Cercava disperatamente qualcosa che interrompesse l’oblio di silenzio e tenebre che lo avvolgeva, non perché normalmente quell’assenza di presenza gli desse fastidio, ma perché in quella situazione lasciava vagare la sua mente a pensieri di ogni genere.
Pensieri che non si sarebbe dovuto permettere di fare nei confronti di una donna come Olivier.
Quei tormenti non si riferivano più di tanto a qualche blanda voglia carnale, anche se era impossibile negare che più volte in quelle lunghe ore di buio abbassando le palpebre gli si erano presentate le curve turgide e desiderabili della donna; ciò che davvero gli faceva stringere il cuore era l’insistente presentimento che non aveva mai provato nulla per una donna come per Olivier Armstrong, e ovviamente per un uomo legato a Dio come lui non era permesso un simile sentimento.
Dov’era finita la sua forza d’animo? Era stata spazzata via da quel sentimento puerile quanto trascinante, in cui l’uomo non manca mai di perdersi ed affogare.
La sua immaginazione giungeva ad estremi incalcolabili: si ritrovò pure a pensare come sarebbe stato un loro possibile matrimonio. Un lungo velo sui capelli di Olivier, perle alle sue orecchie, brillanti come i suoi occhi, le labbra rese ancor più irresistibili da un rossetto acceso, le mani inguantate che reggevano un mazzo di fiori dai larghi petali azzurrini. Oppure un tipico matrimonio Ishvariano, con gli abiti porpora da cerimonia e i piedi scalzi adorni d'anelli, il rito del calice e quello delle ceneri, i canti sacri rimbombanti tra le alte colonne del tempio.
Era inaccettabile l'appigliarsi a quelle fantasie: aveva un compito, un compito ben preciso nella sua vita, ed era riportare Ishval alla vita. Lui, Miles, Mustang e gli altri si erano presi quest'impegno, e a lui era stata salvata la vita per questo motivo.
Perché si tormentava allora con quelle congetture irrealizzabili ed egocentriche? Perché lui, che aveva giurato a sé stesso che non avrebbe amato mai niente e nessuno se non la sua patria e il ricordo di suo fratello?

Improvvisamente, qualcosa lo destò da quella mare di pensieri: una vaga e lontana melodia, che debolmente attraversava i muri.
Pensò che fosse la sua immaginazione, ma dopo alcuni minuti si rese conto che non era per niente così: da qualche parte, nascosto chissà dove, qualcosa emetteva una delicata musica.
Si alzò, ormai privato di qualsiasi rimasuglio di sonno, seguendo come infatuato quelle note alla ricerca della loro fonte. Al buio tastava le pareti, lasciandosi guidare come in sogno.
Proveniva dalla parte opposta a tutte le normali sale e stanze dell’edificio, e nonostante ciò era assai distante dalle prigioni che erano appunto agli estremi della struttura; dopo innumerevoli vie sbagliate, arrivò finalmente ad una porticina ed iniziò a scendere delle strette scale a chiocciola, cercando di non fare nemmeno il minimo rumore: sentiva di avvicinarsi a qualcosa di segreto, ai limiti del consentito.
Ecco, ormai era arrivato: davanti a lui vi era una porta da cui si sentivano quelle note.
Si sedette, come indeciso sul da farsi: sentiva che, se avesse anche solo sfiorato quella porta, sarebbe accaduta una catastrofe. Preferì restare lì, accovacciato sull’ultimo gradino, cullato da quella melodia.
Il susseguirsi delle note aveva un che di famigliare; Scar scavò nella memoria, chiedendosi dove già aveva sentito quel brano: erano note semplici e ripetitive, spesso in scale.
Ed ecco che il ricordò affiorò improvvisamente nella sua mente.

 
«Fratellino, fratellino guarda!» il giovinetto alzò il dito verso il cielo stellato.
Erano entrambi al di fuori della loro misera abitazione, vestiti solo di leggere tuniche color sabbia; il tappeto sotto di loro era ricamato da fitti disegni variopinti, che alla fioca luce delle stelle apparivano solo come intricate linee scure.
«Cosa, cosa?» chiese l’infante Scar, alzando il naso verso il firmamento.
«Guarda le stelle, sembra che ballino…»
Il piccoletto piegò il collo di lato: «Ma no, che dici! Sono ferme.»
«Sdraiati.»
Obbedì al fratellone, e si stese sul tappeto su cui erano seduti. Accanto a loro, le braci del focolare che avevano animato le storie degli anziani si stavano definitivamente spegnendo. I loro compaesani si erano ormai ritirati, sopraffatti dal sonno, e così i loro genitori: erano sempre gli ultimi ad andarsene dal fuoco comune, provando l'estasi di dominare sulle silenziose e tenebrose stradine della città.
Il fratello maggiore si sedette accanto a lui con le gambe incrociate, e iniziò a suonare una dolce melodia con un rudimentale flauto di Pan.
«Cos’è?»
Glielo mostrò: erano alcune canne di bambù, in ordine decrescente di grandezza, legate insieme da alcune cordicelle variopinte decorate con piccole perline e piume. Agli occhi del piccolo quello strumento risultò a dir poco magnifico, forse per il suo aspetto bizzarro, forse per quella melodia che il fratello aveva accennato poco prima.
«Me lo ha regalato papà, viene da Xing. Soffi piano sopra i buchi e suona. Ascolta…» sfiorando ad occhi socchiusi con le labbra lo strumento, il bambino emise una sussurrata scala musicale.
«Tutto qui?» lo schernì il fratellino, in realtà in profonda ammirazione.
«Devo ancora imparare bene! Ora guarda il cielo.» e così dicendo ricominciò a soffiare nello strumento.
Agli occhi del piccolo, in quel momento, le stelle sembravano davvero muoversi cullate da quella melodia: giocavano tra loro, ondeggiando lentamente nell’infinito e tenebroso mare del cielo.
«Hai ragione, fratellone…» sbadigliò «Le stelle ballano…»
Il fratello gli passò la mano tra i capelli, scompigliandoglieli: «Ti voglio bene, fratellino.»
«Anche io. Sei il mio eroe.»
«Insomma, non esageriamo!» rise l’altro.
«Dico sul serio…» rispose Scar, assonnato.
L’altro, con il petto pieno di gratitudine, continuò quella cantilenante musichetta, fino a quando il piccolo fratellino non si assopì, dolcemente confortato dalle stelle in quella notte tiepida. 
Il mattino successivo il piccolo Scar si risvegliò nel suo letto, con il fratello accovacciato lì accanto, che si era addormentato stremato dopo averlo portato in braccio fino a casa; il flauto era riposto nell'angolo, sopra la pila di libri che il fratellone, a malapena undicenne, stava studiando.


Scar si sentì devastato, a quel pensiero: tutto quello che era accaduto in seguito a quel ricordo gli riempì la testa, facendolo invadere da una sensazione orribile fin nel profondo dell'anima. Sentendo impossibile anche solo il pensiero di rimanere immobile lì su quel gradino, si alzò e aprì la porta.
La scena che gli si presentò davanti era la più assurda che si sarebbe mai sognato: una vuota stanzetta odorante di chiuso, un pianoforte contro la parete in fondo e, a suonarlo, Olivier con il volto pieno di lacrime.
«S…Scar?!» la donna, esplodendo in una furia rabbiosa, si alzò rovesciando lo sgabello «Cosa ci fai qui?!» si passò le mani sulle guance, come per cancellare il più presto possibile quel pianto.
«Non volevo interrompere niente di…» il sacerdote tentò di scusarsi, ma lei sguainò la sua spada, puntandogliela al petto; al che anche lui strinse i pugni, in posizione di combattimento.
Il petto di Olivier si sollevava e si abbassava velocemente in un respiro affannato, il suo viso era una maschera di odio e rabbia solcata da lacrime che imperterrite le sgorgavano dagli occhi; digrignava i denti, emettendo un brontolio dalla gola tremendamente simile a un debole ruggito animale.
«Tu…» sussurrò rabbiosa all’uomo confuso, che ribadì: «Stavo cercando di capire da dove provenisse questa melodia, non volevo nemmeno entrare a disturbare…»
«Origliavi?!» tuonò, se possibile ancor più infuriata.
«No, non lo definirei origliare…»
«Scar!» strepitò lei, in preda a una rabbia incontrollata «Non farmi ripetere quest’ordine una seconda volta: prendi la tua valigia e vattene da qui!»
Lui non rispose, rimanendo attonito per qualche secondo.
«Mi hai sentito?!» fece una leggera pressione con la punta acuminata della sua spada contro il suo petto «Ti ho detto di andartene! La tua permanenza si è prolungata molto più del previsto, e non sei più gradito come ospite! Vai a perderti nella neve, maledetto cane del deserto!»
Lui squadrò quel viso bellissimo deformato da quei sentimenti maligni: chinò il capo, e si apprestò ad uscire dalla stanza.

 
«Olivier?»
La donna aprì lentamente il grande portone che dava sulla sala da ballo, e vi scrutò dentro con circospezione: era sicura di aver sentito fino a poco prima quella musica suonata da dita inesperte sul grande pianoforte del salone.
Come immaginava, la bambina era seduta sull’altro sgabello a quattro gambe, ancora in vestaglia, con i capelli biondi scarmigliati e le rosee gote piene di lacrime.
«Tesoro, qualcosa non va?»
Come al solito, la bimba alzò fieramente il mento, cercando di mostrare la più assoluta compostezza. La madre sospirò, la sollevò e la fece sedere sul suo grembo: «Olivier, cosa c’è?» ripeté.
Gli occhi cristallini ed arrabbiati della bambina fissarono quelli dolci della madre: «Niente.»
«Andiamo, tesoro. Puoi dirlo alla mamma.»
«No.»
«Non essere testarda!» la rimproverò sottovoce.
La piccola strinse i pugni, fissandosi i piedi nudi; dalle enormi vetrate filtrava la luce lunare, che si rifletteva sui pavimenti marmorei e illuminava i giganteschi ritratti appesi alle pareti: «Non lo so.» disse infine, con tono di chi si è tolto un peso dall’anima.
«Cosa non sai?»
«Non so cosa non va. Non c’è niente che non va.»
«Sicura?»
Lei annuì. Non era mai stata così sicura in vita sua.
«E allora, buon Dio, perché piangevi?»
Olivier fissò i tasti del pianoforte. Era complicato, da spiegare. Aveva sentito l’impellente bisogno di sedersi su quello sgabello e piangere fiumi di lacrime, accompagnata dal suono di quello strumento. Senza un reale motivo, una precisa causa di quel pianto: né gioia né rabbia animavano il suo giovane petto, in quel momento. Sentiva solo di doversi liberare da ogni debolezza, di dover sfogare quell’accumulo di stanchezze in qualche modo.
Come leggendo nella sua mente, la madre le sussurrò: «Non siamo invincibili, lo sai?»
«Cosa dici, mamma!» la apostrofò con quel modo di fare tremendamente simile al padre «Siamo gli Armstrong! Noi siamo invincibili!»
«Voglio dire, tesoro, che non siamo senza difetti. O senza sentimenti, preoccupazioni, malesseri. »
«Naturale.»
«Non devi vergognarti di essere debole, ogni tanto.»
«Io non sono debole! Alex è debole!» ripensò con rabbia a quel bimbetto dal pianto facile che era il suo fratellino minore.
«Tutti siamo deboli, chi più e chi meno. Ma vedi, Alex riesce subito a sfogare le sue debolezze, tu le chiudi tutte qui…» le posò una mano sul petto «Olivier, è importante che impari a sfogare le tue emozioni. Non te ne devi vergognare. Vuoi prendere lezioni di pianoforte?»
La bambina si morse il labbro in una smorfia arrabbiata, ma alla fine annuì con eccessiva foga. La madre sorrise, e le diede un bacio sulla fronte che la bambina ignorò: «Anche io suonavo il pianoforte, sai?»
«Anche tu piangevi?» chiese con un fil di voce Olivier.
«No, io sono molto più simile a tuo fratello…» ridacchiò la madre «Non voglio che tu cresca senza saper esprimere quel che provi, Olivier. Chi cresce così poi smette anche di credere di poter provare emozioni. »
«Cosa c'è di male nel non voler provare emozioni?! Sono una seccatura bella e buona.» disse lei.
«Un giorno troverai qualcuno che ti farà provare così tante emozioni che non riuscirai più a nasconderle, nemmeno suonando questo pianoforte tutte le notti della tua vita...»
«Bleah, che schifo!»
«Cambierai idea, quando succederà.» disse la madre con aria di chi se ne intende.

La bimba scosse il capo con disapprovazione, poi scese dalle gambe della madre e si ritirò nella sua stanza con gli occhi ancora rossi di pianto.
Si vergognava enormemente di quel che era successo, e ancor di più del discorso di sua madre: che storie erano quelle? Le debolezze non le appartenevano per niente, e mai le sarebbero appartenute. Era una bambina forte, e sarebbe cresciuta come una donna forte. 
«Prima e ultima volta che mi succede, giuro!» sussurrò a sé stessa, sotto le coperte.

 

Olivier osservava dalla ringhiera l’ombra allontanarsi nel buio della notte, in mezzo alla tormenta. Il suo animo bolliva ancora di una rabbia feroce, ma già si stava pentendo della sua azione; comunque, aveva avuto quel che si meritava. Non doveva vacillare sulla sua decisione.
Scar si strinse nel giubbotto, reggendo nella mano intorpidita dal freddo la sua valigia, lo spirito in subbuglio e la mente in preda al caos. Era stato sfrattato con una tale velocità che a stento riusciva a credere a ciò che aveva visto, a ciò che era accaduto.
Avanzava nella neve, diretto verso l’ignoto, esattamente come il suo cuore vagava ormai in un tetro oblio senza ritorno.













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Approfittando di essere a casa, pubblico questo capitolo sperando che vi piaccia! :3
Spero di aver inserito bene i flashback ^^ e che si capisca un po' questa mia idea del pianto di Olivier in rapporto con la sua incapacità di esprimere le sue emozioni u.u"
Scrivendola ho ascoltato a ripetizione "Le onde", ve lo consiglio come sottofondo per le vostre FF *-*

Nina.

   
 
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