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Autore: _maya96_    14/05/2012    3 recensioni
Era accaduto tutto così velocemente, neanche mi ero resa conto di cosa fosse realmente successo. Una serie di immagini sfocate, a cui cercai di dare un senso, mi trapassò la mente, mentre chiudevo gli occhi, forse per l’ultima volta.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Klaus, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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-Cut-



 
Tossii lievemente, respirando la polvere che si era alzata mentre sistemavo gli ultimi scatoloni nella mia nuova stanza.  

Era poco più di una settimana, che ci eravamo trasferiti in quel luogo isolato, immerso nel verde, che fingeva di essere una città.
Ma come poteva definirsi tale?  Certo, ho sempre saputo che non era come la mia Seattle, ma così era troppo.
C’erano più alberi che case, c’erano più prati che strade e c’erano persino più animali selvatici che uomini.
Ma c’era anche quel cielo, che quando riusciva a scacciare le insistenti nubi, che gravavano sulla città, diventava così limpido, di un azzurro che non avevo mai visto a Seattle, di un chiarore che non credevo possibile. Al tramonto il cielo si colorava di un rosso-viola, che pareva la tavolozza di un pittore, che si divertiva a dipingere quell’immensa tela che si stagliava sopra di noi, inducendoci al silenzio, per ammirare quell’indescrivibile bellezza, per poi lasciar posto a quel lenzuolo nero, illuminato qua e là da qualche piccola stella.

Avevo perso tutta la mattina a salire e scendere da quelle dannate scale, con una pila di scatole in mano più alta di me e a sistemare la mia nuova camera.
Mi fermai un attimo e mi guardai intorno.
Non era poi così male, le pareti erano di un legno un po’ più chiaro rispetto al pavimento, che era occupato da un enorme tappeto scuro, con i lati un po’ sfibrati.                              

La parete destra era dominata da un enorme armadio di mogano, con uno specchio sull’anta centrale, mentre la parete di sinistra era nascosta da un immenso quadro, che rappresentava un paesaggio montano, circondato da boschi e con le vette delle montagne innevate, dove mi perdevo sognante, tutte le volte che mi fermavo ad ammirarlo.

Al di sotto del quadro si trovava il mio letto a due piazze, con le coperte di un azzurro tenue, che abbracciavano i cuscini di colore bianco.
Ai lati del letto prendevano il loro posto due comodini, dello stesso colore dell’armadio. Uno dei due ospitava una serie di libri, che avevo preso in prestito dalla biblioteca, qualche giorno fa, mentre sull’altro vi era una piccola lampada, che mi ero portata da casa e il portafoto d’argento, regalato dai miei zii, con un’immagine di me e miei genitori, di qualche anno fa.

Sulla parete opposta alla porta si trovava un’enorme finestra, che donava luce alla stanza, già di per sé luminosa. Mi avvicinai e riuscii ad aprirla, non con poca fatica, per via della maniglia un po’ arrugginita.

Un sole accecante mi colpì gli occhi, che fui costretta a chiudere, mentre una leggera brezza fresca mi soffiò sul viso, muovendomi i lunghi capelli, che tenevo sciolti.
Un leggero canto di uccelli, mi giunse alle orecchie, mentre quel profumo di bosco mi inondava i polmoni.

Mi accorsi di non aver mai respirato così  fino ad allora. Come se non mi fossi mai fermata a pensare di farlo veramente. A Seattle non respiravo, ingerivo solo l’aria che sapeva di polvere,  a cui ormai ero abituata, in modo automatico, involontario, senza accorgermene e senza nemmeno riflettere a ciò che invece era un dono divino.

Aprii piano gli occhi, mettendomi una mano sulla fronte per ripararli da quell’accecante sole di metà pomeriggio, e vidi la foresta. Quell’enorme distesa di alberi che impedivano allo sguardo umano di raggiungere il suolo. Quel paesaggio stupendo che non si vede ovunque, ma solo in alcuni luoghi, dove la mano dell’uomo non è ancora arrivata a modificare.
La vista che c’era era stupenda, forse c’era qualcosa di buono ad avere la stanza in una vecchia soffitta polverosa.

Dall’albero accanto alla mia finestra cadde una foglia di colore rosso mossa dal vento, che per un attimo, aveva gridato più forte.
Entrò nella stanza e si posò sul pavimento, come se cercasse riparo, per sfuggire alla stagione fredda, che ormai era alle porte.
La raccolsi e la guardai con più attenzione. Quelle piccole venature scarlatte si ramificavano, fino a raggiungere ogni lato frastagliato della foglia, di quel rosso che sembrava tinta di sangue. Come se quel vento l’avesse trafitta con un coltello affilato e l’avesse uccisa, macchiandola del colore della morte.

La posai delicatamente sulla scrivania, vicino al comodino, facendo attenzione a non romperla e corsi a chiudere la finestra, che il vento continuava a colpire con violenza.

 
* * * *


 
Decisi di andare a correre.Mi ero stancata di stare in casa da sola, in una giornata così soleggiata. I miei zii erano usciti per fare delle commissioni, mentre io ero rimasta per finire di sistemare le ultime cose.
Indossai una tuta leggera e un po’ scolorita per via del tempo e uscii di casa chiudendomi la porta alle spalle.

Il vento sembrava essersi calmato, ma dei nuvoloni scuri coprivano a tratti il cielo, che con il sole, illuminava solo alcune zone della terra, mentre altre vagavano nell’ombra.

Presi il sentiero della foresta. Quella che mi serviva era un po’ di tranquillità, un po’ di quiete a tutto il caos, che mi inondava la mente ed incominciai a correre.  

Dei colpi secchi di quelle foglie per terra, oramai strappate alla vita, risuonarono ad ogni mio passo, mentre il mio respiro tagliava l’aria e spezzava quel silenzio, di un posto così irreale.


Non mi ero ancora ambientata bene, così decisi di proseguire tutto dritto per non perdermi.

I capelli, che tenevo raccolti in una coda alta, mi si spostavano ad ogni passo, da destra a sinistra, accarezzandomi lievemente il collo. Le mani si muovevano opposte alle gambe, per aiutarmi ad andare più veloce e la mia collana blu, mi colpiva incessantemente il petto, mentre correvo.

File di alberi tutte uguali, che con le loro chiome impedivano ai raggi del sole di raggiungere il suolo, mi circondavano. Come se mi rinchiudessero in una gabbia e io cercassi di fuggire, non accorgendomi che in realtà giravo solo intorno, per l’illusione che mi dava questo paesaggio tutto identico.

Sentivo il cuore battere sempre più forte, man mano che il fiatone aumentava e un leggero dolore mi colpì il fianco. Ma non mi fermai, volevo correre, volevo dimenticare, volevo cadere per poi rialzarmi, volevo continuare ad andare avanti, senza mai fermarmi.

I passi sempre più veloci colpivano quel silenzio e quell’aria che era diventata un po’ più fredda, che sembrava corresse anche lei, con me. Come se mi stesse sfidando e io non volevo farla vincere.

Corsi ancora più veloce, mentre il mio corpo mi implorava di fermarmi. Poi mi tornarono quelle immagini in mente.
Lo schianto. Le urla. Il buio. Si susseguivano tra loro, come scene di un film, che io però non volevo vedere.

Allungai il passo e quell’aria fredda mi soffiò sul collo. La mia pelle sussultò, dove c’erano quelle due piccole cicatrici, che parevano invisibili, ma che io però vedevo.
Le sentivo ancora sanguinare, sentivo ancora quel dolore lancinante, come piccoli morsi, che mi laceravano la carne.

Chiusi gli occhi, quando mi accorsi che quello che vedevo davanti a me, non era più il nulla del bosco, ma erano tutte le mie paure, tutti i miei ricordi, che volevo dimenticare, ma che riuscivano sempre ad affiorare in qualche modo.

Corsi ancora più veloce, quando mi ricordai di quell’ombra , che il dolore che provavo, mi aveva rimosso dalla mente, ma ora era tornata, per ricordarmi che in realtà non mi aveva mai lasciato.
Non riuscivo a muovermi, mentre quella dannata macchina mi comprimeva al suolo e quelle lacrime mi offuscavano la vista.
Fu allora che la vidi.
Forse ero già svenuta, forse quello che avevo visto, in realtà, non era altro che frutto della mia immaginazione, ma quell’ombra  si avvicinava sempre di più e io restavo immobile.

Continuai a correre ancora più veloce, come se volessi impedire a quell’ombra di avvicinarsi. Come se volessi fermare quel ricordo, rimasto sopito in chissà quale parte oscura della mia mente, ma che ora aveva deciso di venire fuori.

Scossi la testa e mossi ancora più veloce le gambe, quando mi accorsi, che quell’ombra mi stava raggiungendo. Era così vicina, bastava qualche passo, affinché la luce del lampione la illuminasse.

Sempre più veloce, quando la vidi abbassarsi su di me. La fioca luce la colpì e io serrai gli occhi, cercando il suo volto.
Sentivo il suo respiro sul mio viso e le sue mani che si allungarono per prendermi. Il mio cuore batteva all’impazzata, per quella paura e per quello sforzo che mi causava quell’incredibile corsa.

Corsi ancor più veloce, quando riuscii a scorgere un breve tratto del suo viso, che si era avvicinato paurosamente al mio.

Poi caddi a terra.

Il mio piede aveva inciampato su una grossa pietra che io non avevo visto per via degli occhi chiusi, e quando li riaprii, svanì il ricordo di quell’ombra  e ogni mio tentativo di darle un volto.

Gemetti di dolore, non appena tirai su fino al ginocchio, il pantalone della tuta che si era strappato e macchiato di rosso.
Trattenni il fiato, quando vidi tutto quel sangue scorrermi senza tregua dal ginocchio, per poi scivolare in piccole goccioline per tutta la mia gamba, lasciando delle strisce rosse, come per far ricordare il loro passaggio.

Zoppicante, raggiunsi un piccolo ruscello non molto lontano da me. Mi sedetti a terra e immersi le mani in quell’acqua gelida, per poi portarmela sulla ferita.

Il vento intanto si era alzato ancor più forte, mentre quelle nuvole andavano e venivano dal sole.
Immersi per l’ennesima volta le mani, sporche di sangue, in quell’acqua ghiacciata, che si mosse formando mille cerchi concentrici, che storpiavano la mia immagine, riflessa in essa.
Quando si arrestò, vidi di nuovo quel volto.
In quelle acque si rifletteva il viso di quell’angelo , così perfetto e terrificante. Era apparso dal nulla , così come la prima volta.
I suoi capelli chiari, la sua pelle candida, le sue labbra che si contorcevano in un ghigno diabolico, da farmi venire i brividi lungo tutta la schiena.

Tremai, non appena vidi i suoi occhi.
Non erano di quel grigio-azzurro di cui mi ricordavo, ma erano tinti di nero. Un nero spaventoso. Nero come la morte . Un nero che uccide.
Erano così paventosi, sembravano scrutarmi, come per scegliere se dovessi continuare a vivere o no. Come se gli fossi sfuggita, chissà per quale motivo l’altra volta, come se fosse tornato a prendermi, a finire ciò che quella notte aveva cominciato e chissà come mai, non era riuscito a finire.

Mi voltai di scatto, come per impedire a quell’angelo della morte di uccidermi, come per provare a sfuggire di nuovo a quel mio destino crudele, che sembrava perseguitarmi.

Ma lui era sparito, di nuovo, come se avesse cambiato idea nei mei confronti. Come se non volesse uccidermi subito, ma lentamente, assaporando la mia paura che la sua immagine mi procurava. Come per punirmi, per non essere morta durante quell’incidente. Per aver cambiato da sola il mio fato, e che ora, doveva essere riscritto.
  
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