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Autore: Iwuvyoubearymuch    17/05/2012    15 recensioni
Ho provato a mettere nero su bianco ciò che può essere accaduto dopo gli eventi dell'ultimo libro.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo Quarto
Dall'ultima volta che ho visto Peeta sono passati tre giorni. Sono abbastanza certa che non sia uscito di casa nemmeno per una manciata di minuti. Haymitch dice non averlo visto anche da prima di me. Inizialmente ho pensato che si fosse ammalato. Poi, parlandone con Sae, lei mi ha detto che non dava l'impressione di stare male, quando gli portato del cibo caldo. Se qualcosa lo tormentava, ha aggiunto prima di andare via, l'ha tenuto nascosto per bene in mia presenza. L'unica spiegazione plausibile per un tale comportamento può essere dovuta soltanto alla visita alla panetteria. La cosa non mi sorprende. Deve essere stato uno shock per lui vedere il negozio dei suoi in quello stato. La sua casa. Nessun video alla tv può prepararti a una cosa de genere. 

Il sole è sorto da un bel po', quando decido finalmente di andare a casa di Peeta. Non ho ancora deciso come indurlo ad accettare il mio aiuto, ma Sae aveva ragione. Devo farlo anche se non vuole. Soprattutto, se non vuole. E' così che lei e Haymitch sono riusciti a non tentare più il suicidio. 

Quando arrivo davanti a casa di Peeta, la porta è socchiusa. La apro lentamente, gettando una rapida occhiata nella stretta fessura che la separa dallo stipite. Riesco a vedere poco e nulla. Chiamo il suo nome prima di entrare, ma non risponde nessuno. Mi viene in mente che possa essere uscito. Ha solo dimenticato di chiudere la porta uscendo, mi dico. Eppure, non sono per niente convinta. Trattengo il respiro varcando la soglia. Mi accorgo anche che i battiti cardiaci sono aumentati di frequenza. Lo trovo seduto su una sedia attorno al tavolo, con le braccia che racchiudono la testa in una morsa ferrea. Che sta facendo?, penso. Sembra quasi che voglia nascondersi da qualcosa. Come quando Rory, il fratello di Gale, si era rintanato in un angolo perché aveva paura del coniglio che suo fratello ed io non eravamo riusciti a vendere al Forno. Ecco, mi ricorda tanto Rory. Raggomitolato su una sedia, lievemente appoggiato a un'altra, che cerca di proteggersi. Da cosa?, mi chiedo con la preoccupazione che sale ogni momento di più. Mi guardo attorno alla ricerca di qualsiasi cosa abbia potuto ridurlo così. Non c'è niente. La casa sembra a posto, anche troppo per uno che non la abbandona da tre giorni. Non ho ancora deciso se è o meno un buon segno. Adesso riesco perfino a sentire i battiti impazziti del mio cuore. Quasi mi sorprendo che lui non ci riesca. Comunque, non posso rimanere lì sulla porta in eterno. E poi è Peeta quello che ho davanti. Di cosa dovrei avere paura? Improvvisamente, scorrono davanti ai miei occhi immagini di lui che serra le mani attorno alla mia gola, con la stessa forza con cui adesso si sta reggendo la testa. No, non succederà di nuovo, dico a me stessa. Nonostante ciò, i miei occhi sono già alla ricerca di eventuale via di scampo. 

Provo a chiamare ancora il suo nome. Esce soltanto un sussurro strozzato. Ci riprovo. "Peeta?" Ancora niente. Mi chiedo se non stia dormendo. Impossibile. Sarebbe già caduto in quella posizione e le nocche bianche delle mani indicano che le sta stringendo con forza, il che richiede di essere svegli. "Peeta". La mia voce è ancora titubante e lievemente spaventata. Fargli credere che ho paura di lui è il più sbagliato dei modi per aiutarlo. Così, per dimostrargli che non temo nessuna reazione - sempre che abbia sentito la mia voce - gli metto una mano sulla spalla. Un tocco leggero. E' più una carezza, in effetti. Ma la reazione è immediata. 

Al di sotto della mano, i muscoli si contraggono istantaneamente. Sobbalza e poi diventa rigido come un grosso pezzo di ghiaccio. "Peeta!" dico, questa volta con decisione. Lo scuoto anche per risvegliarlo dalla trance. Cerco di sciogliere il nodo di braccia che gli copre la testa. Appena sfioro il braccio, lui scatta in avanti lontano da me.

"Va' via, Katniss" dice debolmente, le mani che stringono le tempie. "Con te qui è più difficile" aggiunge, serrando anche gli occhi. 

Sembra che non voglia vedere qualcosa, che voglia allontanarla. Ma non sono io. Si, certo, mi ha detto di andarmene, però sono sicura che non è me sta cercando di mandare via. E' qualcosa nella sua testa. Posso dirlo da come è concentrato, da come stia provando disperatamente. Sta avendo uno dei suoi flashback, ne sono sicura. Quindi, non se li è lasciati alle spalle del tutto. 

"Peeta, va tutto bene" cerco di tranquillizzarlo. "Sei al sicuro qui" Sono io a non esserlo? Scuoto la testa impercettibilmente per cacciare le immagini di Peeta che prova a strozzarmi nel Distretto 13. 

A ogni passo che faccio nella sua direzione, lui si allontana. "Fai come ti dico" dice Peeta. Riconosco un velo di esasperazione nella voce. Sembra esausto. 

Dovrei fare come vuole? Dovrei davvero andarmene e lasciarlo qui ad affrontare tutto questo da solo? Non posso fargli una cosa del genere. Non quando lui è sempre stato al mio fianco nei momenti difficili. E ce ne sono stati parecchi negli ultimi anni. Colgo al volo l'occasione di avvicinarmi, quando è con le spalle al muro. "Puoi farcela, lo so". Non lo tocco di nuovo, per paura di peggiorare le cose. Dal momento che non ho nemmeno un indizio su cosa stia vedendo, cerco di ricoprire un ampio raggio. Almeno per fargli capire dove si trova e che non ha nulla di cui preoccuparsi. "La guerra è finita. E anche i giochi. Siamo tornati a casa"

Mi mordo la lingua appena mi rendo conto di ciò che ho detto. Casa. Magari per Peeta non è come essere ritornati a casa. Il Distretto 12 è il posto in cui è nato, dove è cresciuto. Ma ha davvero l'aria di casa senza nessuno della propria famiglia? O degli amici? Io una risposta ce l'ho ed è no. Senza Prim, mia madre e Gale sembra tutto diverso. Tutto più complicato, quasi invivibile. Quel "quasi" è dovuto soltanto alla presenza di Haymitch e Sae. 

Peeta, comunque, non sembra fare molto caso a quello che dico per fortuna. E' di nuovo rigido quando lo tocco, in allerta. Stavolta però non si allontana. Capisco che è un buon segno. La pressione sulla testa ha iniziato ad allentarsi e le nocche stanno ritornando ad essere rosee. Quando ritengo che sia arrivato il momento giusto, ci cingo le spalle con un braccio e lo porto sul divano. Mi lascia fare, probabilmente a corto di ogni forza per ribattere. Il debole "Grazie" che mi sussusrra all'orecchio prima di stendersi ne è la conferma. 

Sposto lentamente i capelli dalla fronte. "E' il minimo che possa fare" gli dico, inginocchiandomi accanto a lui. Ancora una volta, i sensi di colpa di travolgono. Non passa giorno ormai che non ripeta a me stessa di aver fatto soffrire moltissime persone, che molti hanno pagato conseguenze peggiori delle mie a causa delle mie azioni. Peeta è uno di quelli. E' stato catturato a causa mia. Stargli vicino e aiutarlo a stare meglio è davvero solo una misera parte per ripagarlo per ciò che ha subito. "Riposati" dico, alzandomi. 

La mano di Peeta si chiude attorno al mio polso. "Non andartene". Per la prima volta da quando entrata, riesco a vedere i suoi occhi. L'azzurro delle iridi sembra spento, circondato da tutto quel rosso. Ci vedo lo stesso sguardo torturato che aveva nel Distretto 13. Non potrei andarmene, nemmeno se lo volessi. 

Accenno un sorriso. "Non l'ho neanche pensato" ammetto. "Volevo prepararti qualcosa da mangiare". Sebbene appena arrivato non fosse tanto più magro di così, si vede che per giorni non toccato cibo. In cucina, accantonati in un angolo, scorgo quelli che una volta dovevano essere i piatti caldi che Sae gli ha portato in questi giorni. 

A quel punto, Peeta lascia andare il polso e si rilassa. Scuote la testa. "Non ho fame". Cerca di mettersi seduto facendosi forza sulle braccia, ma glielo impedisco. 

"Resta giù" ordino, la mano posata sulla sua spalla. Per un istante, lui la guarda e mi sembra che si incupisca, così la ritiro rapidamente. L'attimo dopo sembra essersi calmato, tanto da chiedermi se non abbia preso una svista.  "Almeno del tè?" domando, speranzosa. 

Fa segno di non con la testa. "Sto bene così, grazie" dice dolcemente. Fa di nuovo per alzarsi e questa volta lo lascio fare senza intervenire. Da un paio di colpetti all'imbottitura accanto a sé. "Siediti". 

Faccio come dice. Sembra strano essere qui con lui. Così normale da apparire quasi inverosimile. E' desolante il pensiero che per me la normalità consista nello stare seduti su un divano a fare niente, senza neanche parlare. Ma d'altronde, anche prima per "normale" intendevo andare a caccia di scoiattoli con Gale, raccogliere fregole in gran quantità, per poi andare a vendere tutto al mercato nero oppure al sindaco Undersee. 

"E' per questo che non ti sei fatto vedere in questi giorni?" domando, spezzando il silenzio tombale della stanza. "Per colpa dei flashback?" 

Accanto a me, Peeta sembra teso mentre annuisce. "Il Dr. Aurelius dice che non dovrei isolarmi" spiega, con lo sguardo perso davanti a sé. Poi si volta nella mia direzione con un'espressione indecifrabile. "Ma non voglio fare del male a nessuno". Non ho bisogno che aggiunga altro per capire che è un riferimento velato a ciò che mi ha fatto nel Distretto13. Oppure alla faccenda di Mitchell. 

"Ha ragione" dico immediatamente. "Come facciamo ad aiutarti se non ce ne dai la possibilità?" 

Peeta inclina la testa di lato. Ha un'aria illeggibile che non mi piace. "Quindi, vuoi aiutarmi?" domanda, perplesso. 

Inizio a preoccuparmi. Come può dubitare che voglia dargli una mano? Da quando ha avuto la sfortuna di conoscermi non gli è capitata una cosa buona, ma ciò non toglie che ho sempre preso una decisione anteponendo la sua vita alla mia. Ho sempre cercato di proteggerlo e ora non può venire a dirmi che ha dei dubbi a riguardo. "Sembri sorpreso" dico, cercando di limitare la rabbia che rischia di esplodere da un momento all'altro. 

"Lo sono" dice lui semplicemente. Non è la risposta che ho immaginato. "Come puoi aiutarmi se sei la prima a rifiutare ogni aiuto?" chiede. Questa me l'aspettavo anche meno. Non ho nemmeno capito cosa voglia dire. Se ne accorge. "Haymitch mi ha detto che volevi ucciderti all'inizio. Ci stai ancora provando?" 

Sospiro. Ecco a cosa si riferisce. Distolgo lo sguardo da Peeta. Fisso lo stesso punto su cui lui era tanto concentrato qualche attimo fa, appuntando mentalmente di chiedere a Haymitch di tenersi fuori dalla mia vita. O almeno, di non raccontarla a chiunque. Ma Peeta non è uno qualunque, mi correggo subito. Se c'è uno che può capirmi meglio di chiunque altro è proprio lui. Lui, che per primo mi ha chiesto se voglio suicidarmi senza alcun giro di parole. Tanto diretto da cogliermi alla sprovvista. Ci sto ancora pensando? "Ci sono delle mattine in cui vorrei" ammetto, dopo averci pensato un po' su. " E' come se fossi ancora nell'arena, a un passo dalla morte. Ma poi c'è sempre il pensiero di qualcosa che mi impedisce di farlo. Mia madre o... - mi fermo prima di pronunciare il nome di Gale - ... o Prim. Lei non vorrebbe che lo facessi". Sospiro. "Quindi, no. Penso che se davvero avessi voluto, l'avrei già fatto"

E' una cosa a cui non avevo mai pensato. Ora mi rendo conto di quanto sia vera. Da quando sono tornata al Distretto 12, avrei potuto morire in moltissimi modi. Haymitch e Sae sono sempre a controllare che mangi, ma non si muore solo di fame. Nel mio caso, sarebbe bastato andare nel bosco e non uscirne più. Nessuno mi avrebbe trovato con la conoscenza che ho di quel mucchio di alberi. Prima però avrebbero dovuto arrivarci che ero lì, visto che avevo espressamente chiarito a tutti che non ci avrei messo più piede. 

La tensione sul volto di Peeta si allenta. Posso dire con assoluta certezza che è sollevato dalla mia risposta. Ma non del tutto tranquillo. "Dovresti parlarne con il Dr. Aurelius" dice, confermando i miei dubbi. Il fatto che non voglia davvero morire, dopotutto, non gli basta come prova che sto relativamente bene. 

Annuisco, ma non gli prometto nulla. Anzi, mi viene in mente che ha deviato il discorso sui miei problemi senza che me ne accorgessi. E io gliene ho parlato, quando è lui che dovrebbe dirmi cosa gli sta passando per la testa. "Cosa vedi quando ti capitano questi episodi?" domando, cercando di usare il massimo della sensibilità di cui sono dotata. 

Gli angoli della bocca di Peeta si curvano in un sorriso. Amaro. "Berrei volentieri quel tè adesso" si limita a dire. 

Alle mie orecchie giunge soltanto la chiara intenzione che non vuole parlarne. Mi dirigo un cucina, con un bruciante senso di sconfitta che serve solo a ricordarmi quanto io sia inutile. Anzi, no. Non sono inutile. Quando si tratta di far morire persone che amo sono perfettamente brava. In quello, ho fallito pochissime volte. Aiutare e consolare non rientrano nella lista di ciò che so fare. Prim era brava in quello. Tra le due, io ero soltanto quella che era in grado di andare a caccia e uccidere quante più prede era possibile. Per necessità, ma pur sempre di morte si parlava. E adesso, mi rendo conto che non sono nemmeno una buona ascoltatrice. Peeta non ha detto granché della sua situazione perché mi ha offerto una via per parlare dei miei problemi. Ed io non ho fatto nulla per impedirglielo. Gli ho detto che, nonostante ci abbia provato, non ho mai davvero voluto morire. Una cosa che non ho mai detto a nessuno. E non perché nessuno me l'abbia mai chiesto così direttamente, nel tentativo di non turbare il mio fragile equilibrio. In effetti, l'ho raccontato a Peeta senza nemmeno chiedermi se volevo che lui sapesse. Ci ho pensato e l'ho detto. E' perché mi fido ciecamente. So di poter fare affidamento su di lui, molto più di quanto possa farlo su me stessa. 

Nonostante sia immersa nei miei pensieri mentre l'acqua bolle, non ho problemi a sentire i passi di Peeta che diventano man mano più nitidi. Non è mai stato abile nell'essere silenzioso. Per questo, quando entra in cucina non sono sorpresa nel vederlo appoggiato con la spalla contro il muro. Non ha più l'espressione amareggiata, ma non è del tutto sereno. "Non ho voluto che cucinassi perché pensavo avresti provato ad avvelenarmi" La voce è tutt'altro che ferma mentre parla. Gli occhi sono rivolti verso il pavimento e le braccia incrociate al petto. 

Adesso sono io quella tesa. Pensava che volessi ucciderlo. Non è una prova in più del fatto che sono brava solo in quello? "Perché hai cambiato idea?" domando con un filo di voce. 

Peeta sembra di nuovo sorpreso. "Perché so che non hai mai provato ad uccidermi, ma... - rimane in silenzio per qualche istante. Pare che faccia fatica a continuare. - ... certi ricordi sono così ambigui che ancora mi confondono" confessa. 

Distolgo lo sguardo con la scusa di versare l'acqua in due tazze. Non riesco a vederlo in quello stato. Vorrei andare lì e baciarlo per cancellare anche solo per un momento quell'espressione di immeritata colpevolezza. Non deve sentirsi in colpa per una cosa su cui non ha alcun potere. Ma rimango dove sono. Se lo baciassi, non sarebbe per i motivi giusti. Non quelli che lui potrebbe intendere. 

"Prima quando mi hai toccato la spalla, mi è venuta in mente la volta al fiume. Quando ero ferito nell'arena. Mi hanno fatto credere che avessi cercato di far peggiorare la ferita alla gamba". E' arrabbiato adesso. Le mani mostrano nuovamente delle parti bianche in prossimità delle nocche. 

Anche io inizio ad innervosirmi. Non perché abbia pensato quelle cose, ma perché odio chi gli fatto tutto questo. "Volevo soltanto curare la ferita" gli faccio presente. 

"Te l'ho detto, lo so" è tutto ciò che dice Peeta. 

Il resto della giornata lo passiamo a parlare delle cose che Peeta crede reali e invece non lo sono e viceversa. Un'occasione perfetta per rivivere i momenti peggiori della nostra vita. Alcuni dei quali visti attraverso gli occhi di Peeta e quello che gli hanno fatto credere. Mi sento male la metà del tempo, ma a lui non dico nulla. Sembra che parlarne, lo faccia stare meglio. Ed è quello per cui sono andata a casa sua in primo luogo. Quindi, nonostante ogni ricordo sia come la puntura della spilla che ho sognato per una settimana intera, lo faccio volentieri nascondendo per bene ogni sensazione. Anche Peeta sembra più tranquillo di quando sono arrivata, ma qualcosa mi dice che è solo apparenza. Sono sicura anche del fatto che molte cose non me le dica. Non perché non voglia, ma per evitare di calcare troppo la mano. Forse è solo una mia stupida idea, ma gliene sono grata comunque. Anche di più quando trovo il coraggio di chiedergli se posso rimanere per la notte e lui non mi respinge.

  
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