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Autore: Fusterya    18/05/2012    19 recensioni
Dopo lo shock di Reichenbach, ognuno ha immaginato a suo modo il ritorno di Sherlock, e questo è il mio.
John è spietato, oltre che devastato. E Sherlock non è più lui.
Gli eventi stanno per precipitare di nuovo, in un modo che John non avrebbe mai potuto immaginare: ma uno è la salvezza dell'altro, come è sempre stato. Come sempre sarà.
(Era nata come OneShot, poi ho deciso di continuare, sperando di aver fatto bene.
Vi chiedo solo di lasciarmi una parolina, buona o severa che sia, per aiutarmi a capire meglio la mia strada. Grazie a tutti e buona lettura. )
NOTA: non ho fatto passare i soliti 3 anni, ma più o meno uno solo.
DISCLAIMER: nessun personaggio mi appartiene, nè lo farà mai.
Genere: Angst, Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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John aspetta. Sherlock deve scegliere.



Brave new world- Richard Ashcroft (inspiration song)
http://www.youtube.com/watch?v=2Ga0oZANsnQ

Into the brave new world
I hope I see you on the other side
Of this changing world

Baby when my ship pulls in
I try to believe in anyone
Look at the state I'm in, I'm fine

But for now I'm just sitting at the table
Hearing songs
Wishing I was able, stable


Quando arrivo a casa, non riesco a fare nient’altro che gettarmi a faccia in giù sul letto, così come sono, senza nemmeno togliermi le scarpe.
Non riesco a spiegare quanto mi senta esausto, prosciugato, senza più forze. Riesco solo a prendere il cellulare dalla tasca - lo hanno recuperato e me lo hanno restituito - e controllare che sia acceso e con la batteria carica.
Mycroft ha promesso che mi chiamerà appena dovesse succedere qualcosa, anche una piccolissima cosa.
Lo stringo in mano e chiudo gli occhi, dietro i quali vedo l’immagine di Sherlock bagnato di pioggia, seduto al tavolo del mio soggiorno, che lacrima in silenzio.
Non so perché io pensi proprio a quel momento.
Non lo recrimino, se lo meritava, ma quel ricordo me lo fa sentire più vicino, e fa sentire me più simile a lui. Non so se certe situazioni dolorose si possano paragonare: apparentemente non ci dovrebbe essere nessun possibile accostamento tra me che l’ho visto morto su un marciapiede e lui, che è stato respinto per rabbia.
Ma... alla fine, chi può dire come ognuno misura il proprio dolore?
Ho la sensazione di percepire solo ora di avergli fatto del male. Un male esorbitante, incommensurabile.  
E non so perché.
Mi addormento prima di poter cercare altre risposte.
Un sonno buio, denso, e senza sogni.

Qualche ora dopo guardo il display del telefono, non ci sono state chiamate.
Sono in cucina e bevo caffè, guadando dalla stretta finestra che dà nello squallido cortile interno.
Ho fatto la doccia, mi sono cambiato, ho posato la maglietta grigia macchiata di rosso sul letto, ben distesa con i palmi delle mani.
Deve stare lì, devo poterla guardare ogni volta che verrò a cambiarmi o a dormire qualche ora.
Sherlock lì, lei qui.
Ora devo andare. Comincia la parte più difficile.
Riuscire a trovare la calma, la pazienza per aspettare qualunque cosa debba accadere.
Pensare e cercare di assorbire il concetto che potrebbe ancora morire.
Come mi sono ritrovato di nuovo qui, a questo punto?
Ammanettato a lui. E di nuovo io sono dall’altra parte della grata, e non riusciamo a coordinarci.
Piccoli passi, Sherlock - penso mentre prendo il portafogli e me lo infilo nella tasca posteriore dei jeans.
A piccoli passi, come l’altra volta, ci sganceremo da queste sbarre.
Non so ancora se scavalcherai tu dal mio lato, o viceversa.
Vedremo.

Quando arrivo in ospedale, al piano in cui ero stanotte, vedo che è ancora tutto isolato: due uomini mi fermano prima dell’ingresso nella grande sala d’aspetto, ma mi basta dire il mio nome per far sì che si facciano da parte con deferenza. Henley deve aver parlato di me, a quanto pare.
Entro nel grande spazio, ed è così diverso da stanotte, adesso, illuminato dal sole invernale che filtra dalle grandi vetrate sulla sinistra, e mi fermo al centro della stanza perché c’è una figura che sta venendo verso di me.
Mi si stringe la bocca dello stomaco.
Un vero e proprio spasmo di contentezza, e di nostalgia.
Lestrade mi viene incontro a grandi falcate. Io allungo il passo verso di lui.
“John!” esclama, e senza tanti convenevoli mi abbraccia.
In maniera robusta, non troppo invadente, in due potenti strette che terminano con un paio di pacche sulla spalla.
“Greg” dico io, ricambiando.
Ci distacchiamo subito, come fanno i maschi adulti.  
Tiene le sue mani sui miei omeri e stringe.
“John... come sono felice di vederti!”
E’ identico a un anno fa, solo meno abbronzato.
Finalmente riesco a fare il mio primo sorriso aperto e sincero. Forse il primo in assoluto da un intero anno.  
“Greg... come stai?”
“Beh, le circostanze sono un po’ surreali... “
Oh. Adesso realizzo. Lui non sapeva.
“L’hai saputo stanotte. Che era vivo.”
Si passa una mano tra i capelli un po’ più brizzolati di come li ricordassi.
“Non è stato facile... ho pensato a una specie di scherzo.”
All’improvviso mi ricordo del perché sono qui. Guardo la porta a vetri, in fondo.
“Ci sono cambiamenti?”
“Cosa? No. E’ tutto uguale. Ho saputo...” mi guarda quasi imbarazzato “quello che hai fatto, John.”
“Sono una star, a quanto pare” sorrido con amarezza.
Greg si fa serio e mi trafigge con gli occhi.
“Se mi avessi chiamato, io sarei venuto, John.”
“Non c’è stato il tempo, non è stato possibile, quell’uomo mi ha preso alla sprovvista nel pub...”
“Non intendo ieri, John. Intendo nei giorni scorsi.” ha un tono dolce, ma mi sta rimproverando.
Resto un attimo senza parlare.
“Se mi avessi chiamato, se me lo avessi detto tu, avrei potuto ascoltare, e magari fare qualcosa in proposito.”
“Non... lo avevo previsto” rispondo imbarazzato. Poi lo guardo, sentendomi in difficoltà. “In realtà, Greg... non avrei mai immaginato che succedesse tutto questo: avevo deciso di chiudere con lui, non avevo bisogno di parlarne. Men che meno delle sue oscure faccende criminali”
Greg sospira.
“Ma adesso sei qui.”
“Già.”
Gregory Lestrade si mordicchia il labbro inferiore, non è uno stupido, non lo è mai stato.
Siamo stati fianco a fianco in tante di quelle occasioni che forse è l’unico a poter capire chi siamo veramente, io e te.
“Anche tu” gli faccio eco.
“Sono suo amico, anche se lui sembra non saperlo.”
“Allora siamo in due.”
C’è un attimo di imbarazzo.
Dopo quella cosa... il salto, Greg mi ha chiamato centinaia di volte. Io ho risposto solo le prime due.
Mi ha avvicinato al funerale per chiedermi se volessi mai andar fuori per una birra con lui, per parlare; io gli ho fatto un sorriso da psicofarmaco-dipendente e ho detto sì, certo, quando vuoi, e poi non ho risposto mai più al telefono.
E’ stato un amico, e io no.
Il mio dolore mi ha impedito di restare umano e civile con chiunque.
“Greg... ti chiedo scusa.” esordisco con difficoltà “per non aver mai risposto alle tue telefonate, ma, sai, non ero... propriamente in me. Io non...”.
E’ difficile trovare le parole.
Greg ha un’espressione morbida e benevola, e mi tira fuori dall'impasse.
“Andiamo a prenderci un caffè, ok?”
Io guardo con apprensione la grande porta a vetri alle sue spalle.
“Non ci sono novità, è una cosa buona, no?” incalza lui.
E’ un buon amico, e io sono un coglione.
“Sì, è buona” mormoro, e lo seguo quando si incammina verso il corridoio.

Aspetto.
E aspetto.
Circolo per la grande sala, vado a bere caffè, guardo oltre le vetrate.
Aspetto con la pazienza più grande del mondo, quella che non ho mai avuto in circostanze normali, e che ho avuto solo per Sherlock.
Scambio qualche parola con un paio di ragazzi di guardia, vado giù in caffetteria a mangiare un panino, risalgo, aspetto.
Mycroft compare un paio di volte durante l’arco di quelle ore, vorrebbe restare  ma non può, ma non fanno entrare nemmeno lui di là della porta a vetri.  
Scambiamo qualche convenevole.
Mi chiede se voglio un passaggio a casa.
Io sorrido, e aspetto.
Le infermiere al desk cambiano turno.
Una di loro mi avvicina e mi consiglia di andare via, se ci saranno notizie mi chiameranno loro, ma io sorrido e aspetto.
Finché non è sera.
E io mi sto assopendo sulla poltrona.
Un tocco leggero sulla spalla mi riscuote ed è il dottor Kaplan, il chirurgo che l’ha operato.
Evidentemente li sto prendendo per sfinimento, ma non era mia intenzione.
E’ gentile, si siede accanto a me e mi chiede finalmente chi sono veramente.
Glielo spiego per sommi capi, ma credo che nella sua testa si sia fatto l’idea che si fanno tutti.
A me non importa più da tempo.
Mi spiega che è sempre intubato, ma che l’insperata stabilità della situazione porta a pensare bene. Dovrei andare a casa, mi dice.
Mi chiamerà lui personalmente, mi dice.
Mentre il dottore mi parla, io annuisco e continuo a guardare oltre il battente della porta semichiuso.
Non gli rispondo, sono sovrappensiero.
Mi mette una mano sulla spalla.
Ok, venga con me, dottor Watson.
Lo guardo con gli occhi spalancati.
La sua faccia, grassoccia e solcata da rughe di espressione profonde sulla fronte, è benevola ed esprime empatia.
Non potrei, mi dice, ma un minuto non farà male a nessuno.

Mi conduce oltre la maledetta porta a vetri ed entro in un mondo silenzioso, reso reale solo dai ronzii e dai bip che provengono dalle vetrate ai lati di un largo corridoio dalle luci basse che si estende all’infinito.
Ai miei lati scorrono le stanze che contengono altri pazienti gravi, stanze dalle porte automatiche a vetri e dalle tende tirate.
Stanze da coma.
Stanze da trapianto.
Stanze da gente quasi assassinata.
Quando finalmente si ferma, da questa porta a vetri posso vedere dei macchinari.
La finestra di osservazione della camera, che dà sul corridoio in cui siamo noi, ha le veneziane chiuse.
Kaplan mi spiega che non posso entrare, ma io sono un medico, lo capisco, il rischio di portare dentro qualche batterio nocivo è alto.
Ok, va bene così. Non importa.
Spinge un pulsante accanto alla porta e la veneziana scorre in su.
Ho il cuore che pulsa a fatica, come se dovesse smuovere una enorme mole di sangue, e istintivamente mi avvicino di più al vetro, ci respiro su.
Finalmente lo vedo.
O meglio, lo intravedo, la luce nella stanza è piuttosto soffusa.
Riesco a intuire la sua snella sagoma sotto il lenzuolo, che a un certo punto si innalza in un rigonfiamento spigoloso, in base al quale capisco che deve avere la gamba destra ingessata e sollevata da qualche supporto. Ho sentito di una frattura al femore.
Vedo un braccio abbandonato sul materasso, dalla carnagione lattea e con una cannula infilata nell’incavo del gomito.
La sua mano è aperta, col palmo in su, le lunghe dita appena distese, come se mi dicesse: vieni.
La parte superiore è semi-coperta da una macchina con un monitor, non vedo il torace ma posso intravedere la fronte, la macchia scura dei capelli sul cuscino,  immaginare parte del viso. Poi c’è un tubo, ci sono flebo tutto intorno.  
Nulla che io non abbia già visto.
Ho visto di tutto, di peggio.
In tanti anni di ospedale e in tanti anni di guerra.
Quello che ho visto allora non riesco ancora a descriverlo, ma di fronte a questo è niente.
Questa cosa è ripugnante, per me e per tutti quelli che hanno costantemente beneficiato della sua presenza nel mondo.
Questa cosa mi spezza la schiena in due, mi fa appoggiare i palmi al vetro freddo, mi fa trattenere il respiro.
Vorrei quasi tornare al momento in cui l’ho tirato verso di me, dietro quel tavolo ribaltato, con la consapevolezza che era la fine, ma con il conforto di farlo morire stretto a me.
Invece così morirà solo.
E lui non deve essere solo.

Deve smettere di essere solo.

Mi trattengo dal pronunciare il suo nome, ho gli occhi puntati su di lui e cerco di registrare tutto, di assorbire ogni piccolo particolare del suo corpo. 
Posso sentire il bip del monitoraggio cardiaco provenire attutito da dietro i vetri: è accelerato, in certi momenti irregolare. Immagino non riescano a fare di meglio.
Se potessi entrare, se potessi prendergli il polso e premere la sua pelle con le mie dita, toccare le sue vene, rallenterebbe. Lo so.

Mi chiedo come io possa ancora sostenere quello che sto provando.
Rabbia, preoccupazione, dolore, frustrazione, nostalgia, paura... quante cose grandi per un uomo solo. Quante cose incontrastabili, pesanti, provenire da una sola fonte.
Come se non ne avessi avute abbastanza nell’ultimo anno.
Ma tu non le fai finire mai, dopo un’ondata ne fai arrivare un’altra.
Cerco di osservare come posso il tuo profilo mezzo coperto, impossibile da registrare nella mia mente con completezza da questa distanza, e mi domando se sia davvero colpa tua. Se invece non sono io quello che è andato fuori controllo, io che avrei dovuto lasciare che fossi solo il mio coinquilino, e io il tuo strano collega.
Ma quando hai detto “tieni gli occhi fissi su di me”, e io ho capito DAVVERO cosa stavi per fare, quella crepa che riuscivo a malapena a tenere insieme da tempo con un po’ di volontà, di sano rifiuto maschile e di istinto di sopravvivenza, si è aperta come burro, e ha lasciato tracimare in me tutto il peggio che io potessi mai immaginare.
E’ da quella che arriva tutto questo. E’ colpa mia.
Se fossi stato solo mio amico, sarei andato avanti. Con afflizione, ma senza smettere di avere una vita.
E soprattutto ti avrei riaccolto, con un po’ di sospetto e un po’ di rabbia, miscelati in parti uguali, e avrei evitato che ti facessero questo.
Per cui, anche se tu non c’entri e non ne sai nulla di quello che ho combinato nella mia testa, te lo richiedo adesso. Un'altra volta.
Smettila. Fermati.
Sherlock, fermati.

Dobbiamo andare, dice Kaplan.
Io annuisco e deglutisco a fatica.
Adesso andrò a casa, mangerò qualcosa, dormirò, se ci riesco, e poi domani tornerò qui e aspetterò.
Aspetterò che tu la smetta.
La veneziana si riabbassa con un sibilo elettrico, io tengo gli occhi fissi su di te, come quel giorno, finché il grigio del pannello non vi cala davanti, e giuro che questa volta non ti lascerò andare da solo.

E’ una promessa.

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Tre giorni, più o meno.
Scarse 72 ore.
Sono sul mio letto, in dormiveglia e un po’ oltre l’alba, in attesa di riprendere le forze per poter aspettare ancora, per potermi ancora ripiegare in quella poltroncina.
E’ un gocciolio costante, questo tempo che scorre.
L’immagine che mi si forma negli occhi è quella di me stesso sotto una stalattite, immobile, mentre stille di acqua ghiacciata colpiscono la mia nuca, scoppiettano sulla mia pelle, mi fanno male.  
L’altro ieri è stata una buona giornata, ieri è stata anche migliore.
Hanno provato a stimolarti gli arti e hai risposto, l’ematoma lombare non dovrebbe essere un problema.
Il battito si è regolarizzato, il temuto blocco renale è sopraggiunto ma la funzionalità è ripresa dopo una sola dialisi.
Sei robusto, sei resistente, lo so.
E io sto meglio.
Comincio a credere che ne stiamo venendo fuori. Comincio timidamente a immaginare cosa succederà una volta che starai meglio.
Ho un’idea molto chiara, in verità.
Molto chiara.

Il cellulare vibra sul materasso. Salto su come quando ero in Afghanistan e lo afferro, ho la gola improvvisamente strozzata. Non sono ancora le 6.
E’ Mycroft.
“Cosa?”
“Provano a estubarlo, John.”
Oh. E’ un’ottima, ottima cosa.
E tu respirerai da solo? Vero?
“Arrivo.”
“Troverai una macchina sotto casa fra cinque minuti”
La sua premura mi gratta di nuovo le corde vocali, ma solo per un istante.
“Grazie.”
Mentre sono in auto e guardo il primo, livido cielo del mattino attraverso i palazzi ancora deserti di Londra, sono eccitato come un ragazzino alla prima festa mista ragazzi/ragazze. Non mi viene in mente un paragone più calzante.
Provo quel fremito costante che mi fa muovere la gamba destra nervosamente,  e all’improvviso non posso aspettare più.
Quando arrivo, correndo, nella grande sala d’aspetto, Mycroft è già lì, vestito di grigio e impeccabile come sempre.
La doppia porta è chiusa.
Gli piombo davanti trafelato, non mi dà il tempo neanche di parlare.
“Lo stanno facendo adesso, dobbiamo aspettare.”
Ok. Ok, aspettare.
Ho le ginocchia molli, da questo dipende tutto.
Se respirerai, vuol dire che ce l’abbiamo fatta.
Vado davanti alla vetrata e guardo la città che scintilla sotto il primo sole. Tetti, finestre, angoli metallici di edifici lontani.
Controllo il mio respiro accelerato, prendo grosse boccate d’aria e faccio rallentare i miei polmoni.
Respira con me, Sherlock.
Respira con me.

Il dottor Kaplan esce dopo pochi minuti.
Ci vede e sorride.
Non so cosa mi impedisca di scivolare per terra e piangere come un bambino, sento solo la sua voce raccontarci che hai reagito bene e che, eventualmente, potranno spostarti in terapia intensiva.
Domani forse proveranno a svegliarti dal coma farmacologico, per vedere se ci sono danni cerebrali.
E’ finita?
Sì, sì che lo è.
Sono un medico, posso dirlo.
Se credessi in qualcosa di divino, potrei cercare una cazzo di cappella in quest’ospedale e ringraziare chi si suppone si debba ringraziare.
Torno davanti alla vetrata e mi stropiccio gli occhi varie volte.
Sono stanco. Ma mai quanto voglio esserlo. Voglio esserlo di più, in maniera insostenibile, perché vuol dire che sono riuscito a fare quello che voglio fare.
Farmi perdonare.
Riprendere ad esistere.
Mi sento già come se i miei contorni fossero più definiti, come se riaffiorassi da un foglio bianco e man mano qualcuno ricalcasse la mia figura col carboncino.
Prima in maniera leggerissima, distratta, poi con mano sempre più ferma.
Disegnami, Sherlock.
Non lasciarmi qui appena accennato, indistinto, nel bianco.

La giornata trascorre tranquilla.
Gentilmente rifiuto l’offerta di Mycroft di fare colazione insieme, dopo qualche ora vado a casa, ritorno qui, resto fino a sera.
Vedo le cose attorno a me con più nitidezza, i colori più brillanti. Le persone con i lineamenti più riconoscibili.
Il caffè ha più sapore.
E’ una piccola cosa, ma va bene, va benissimo.
Anche la caramella alla menta che ho appena messo in bocca sembra avere un gusto più pieno e frizzante.
Vado a casa.
Dormo ore ed ore, e ti sogno, e stavolta non è un incubo.

E così l’odore pungente e acidulo del disinfettante sembra più forte, più irritante, quando stamattina Kaplan mi dice che oggi proveranno a diminuire i farmaci che ti tengono in coma.
Resterai intontito dai medicinali per il dolore, ma potranno valutare la situazione.
Potremo sapere se sei ancora tu, o no.
Questo è un aspetto con cui fare i conti adesso.
Potresti aver subito danni cerebrali in conseguenza agli arresti cardiaci, ma ho imparato a sopportare le cose che mi arrivano addosso una alla volta, minuto per minuto, per non impazzire.
Al resto penseremo poi.
Adesso devi svegliarti.
Come sono sveglio io, con ancora il bicchiere di carta del take away tra le mani che contiene il mio caffè.
Svegliati, Sherlock.
Svegliati con me.

E’ sera, un’altra volta.
E stasera non andrò a casa.
Sto giocando con un gioco cretino sul telefono per ammazzare il tempo e perdo in continuazione, ma non so davvero cosa io stia facendo.
Le infermiere cambiano i turni, vanno e vengono, e mi guadano come se fossi un cucciolo di cane che qualcuno ha dimenticato qui.
Ogni tanto qualcuna mi offre qualcosa da bere o da mangiare, o viene a scambiare due parole. Una in particolare, Alice, mi si avvicina spesso, mi incoraggia, fa sorrisi chiaramente interpretabili: io camuffo con la gentilezza il mio totale disinteresse. Totale, totale disinteresse.
Anche perché la porta a doppi vetri si apre e Kaplan viene verso di me.
Dire che siamo diventati amici è un azzardo, ma credo mi abbia preso a cuore. O forse è solo gentile perché sono un collega e non uno sciroccato qualunque.
“Va bene, dottor Watson” mi dice “Sta andando bene. Può entrare, adesso.”
Qualcosa di nero e pesante si stacca dal mio petto e rotola per terra.
“E’ sveglio?”

“Tecnicamente sì” mi dice lui dondolando un po’ sui piedi grandi, con le mani infilate nelle tasche del camice “Ma in pratica no. E’ in uno stato di incoscienza controllata, è imbottito di antidolorifici, ma è sveglio quanto basta per averci potuto permettere di fare una visita neurologica preliminare. L’esito è positivo ma non è un dato attendibile, solo quando potrà vedere e parlare sapremo in che condizioni è davvero.”
Mi alzo e lo guardo disperato.
Portami in quella stanza, cazzo.
“Lo aiuti” mi dice “gli parli. Vediamo se ha qualche reazione.”
Certo. Certo che lo aiuto.
Cosa credete che ci stia a fare io qui?
“Andiamo” lo sollecito nervosamente. Lui mi precede.
Ok, andiamo.
Mycroft è andato via un paio di ore fa, mi dimentico completamente di lui.
Nè voglio che ci sia ora.
Lui non c’entra con noi, non dovrà entrarci mai più, tra noi.
A parte per farmi ammazzare Moran.
Ed è un’altra promessa.

Prima di avviarci, Kaplan mi fa togliere il giubbotto, lavare le mani come se facessi lo scrub prima di un intervento e mettere i copriscarpe di plastica, poi mi guida di nuovo nel lungo corridoio pervaso dai ronzii dei macchinari.
Mi sento teso, ho lo stomaco contratto, percorro i passi che mi separano dalla stanza con un senso di vuoto nella testa.
Ho di nuovo paura di quello che sarà.
Poi finalmente oltrepasso la porta automatica della stanza e mi avvicino al letto, frontalmente.
Uno spettacolo così bello e così devastante allo stesso tempo io non credo di averlo mai visto.
Il viso non è più il suo.
Gli occhi sono serrati, gonfi, dalle palpebre violacee. Le labbra, oh... le sue labbra perfette, sono un’unica tumefazione disidratata. Vedo i punti sulla fronte e sullo zigomo sinistro. Un taglio che lascerà una cicatrice bianca e sottile che scorrerà parallela all’osso sporgente e levigato.
Vedo il segno rosso e profondo, una specie di livido, che ha impietosamente lasciato il respiratore all’angolo della bocca e su tutta la guancia sinistra.
Il sondino dell’ossigeno che parte dal naso ripercorre la stessa traiettoria, quasi a coprire con dolcezza quello sgarbo.
Ha la testa leggermente reclinata sulla destra, il cuscino è cosparso di piccole macchie di sangue.
Il lenzuolo lo copre fino petto, ma vedo chiaramente al di sotto di esso la pesante fasciatura che contiene le costole rotte e la ferita dell’intervento, posta presumibilmente sul fianco destro.
Le braccia nude sono abbandonate sul materasso, una cannula per parte, alberi di flebo tutto intorno.
Non sembra molto diverso da tre giorni fa, eppure adesso so che respira.
E non è in coma.
Dovrei sentirmi straziato a vedere davanti ai miei occhi questa... cosa che non é Sherlock, e invece sono felice. Perché, qualunque cosa si sia rotta, ci penserò io ad aggiustarla.
Stringo forte tra le mani il ferro della pediera del letto fino a farmi sbiancare le nocche e a sentire i palmi sudati.
Ce l’ho fatta, ti ho tirato fuori di lì.
E’ solo adesso che, finalmente, realizzo.
Che sono un eroe, sono un soldato tosto, un figlio di puttana, e tu ora mi devi qualcosa in cambio.
Mi devi parlare.
Come ti sto parlando io adesso.
Parla con me, Sherlock.
Parla con me.

Come io sto parlando a me stesso.
 
La verità è più semplice di quello che si creda, penso mentre poso una mano sui tuoi capelli neri, unti di sangue secco e di sporco di giorni, che qualcuno ha provveduto a pettinare all’indietro per evitare che tocchino la ferita sulla fronte, ed è disarmante.
Ti amo come non avrei mai pensato di poter amare. Io che credevo di averlo provato, in passato, e mi sentivo tanto pieno di esperienza.
E invece non sapevo niente.
Della vita, delle cose del mondo, di te.
Il vergine, tra noi due, sono io.
Sei tu che mi hai fatto scoprire cose che non conoscevo, anche se per farlo hai distrutto tutto.
E adesso sei di nuovo qui, e mi sento sopraffatto un’altra volta dall’incredulità che tu non sia morto col cranio fracassato su quel marciapiede.
Hai fracassato me, ma io non ci voglio più pensare: ti sei fatto quasi ammazzare pur di farti perdonare.
E io ti ho perdonato quando ti ho visto indifeso, zittito dalla brutalità, alla mercé di un pazzo, una fine che non potevi scegliere, stavolta, e che non meritavi, nonostante tutto.
Ti ho perdonato nonostante la rabbia accecante. Nonostante la desolazione dell’abbandono.
Perché ti amo, e non mi importa se tu non ami me.
Vorrei dirti questo come prima cosa, sperando che tu mi senta, non importandomi di cosa risponderesti.
Ma c’è Kaplan, qui, e non posso. Credo che legga sulla mia faccia tutto quello che mi sta passando in mente, perché aspetta pensoso e fa finta di guardare altrove.
Mi hanno fatto trovare una poltroncina accanto al letto, mi siedo lentamente, senza smettere di guardarti.
Sei tu ma non sei tu.
La tua bellezza è nascosta da questi rigonfiamenti, spaccature, sfregi sanguinolenti. Stai soffrendo e si vede.
Vorrei essere al tuo posto.
Non ho mai tolto la mano dai tuoi capelli, comincio ad accarezzarli lentamente, sperando che tu possa sentire il contatto.
“Sherlock” ti chiamo piano. Mi sembra così strano pronunciare il tuo nome senza rabbia, senza associarlo a maledizioni o invocazioni strazianti.
Non c’è nessuna reazione, ovviamente.
Stai respirando bene, posso sentire, ma con respiri corti e veloci, il dolore al petto non ti consente di inspirare in profondità.
Avvicino di più le labbra al tuo orecchio.
“Sherlock… sono io”
Calco un po’ la mano sui capelli.
Niente.
Mi giro a guardare Kaplan, alle cui spalle sono arrivati altri due colleghi.
Faccio cenno di no con la testa.
E’ presto, è troppo presto.
“Dobbiamo tentare” insiste lui “è importante”
“Soffrirà.”
“Sarà una cosa breve.”
Uno degli altri due medici si è avvicinato al macchinario per l’infusione dei potenti antidolorifici, armeggia con dei regolatori, si scambia un cenno di intesa con Kaplan.
Ci riprovo.
La mia mano non ha mai lasciato i tuoi capelli, la mia voce è più ferma nel tuo orecchio.
“Sherlock... sono John... dimmi qualcosa, un suono qualunque, qualcosa che mi faccia capire che sei cosciente”.
Niente.
“Sherlock. Sono John.”
Allungo l’altra mano e prendo la tua abbandonata sul letto, stringo lievemente le tue dita.
Il groppo che ho in gola accresce le sue dimensioni, comincia a stringere con tentacoli invisibili al pensiero di ciò che potrebbe essere accaduto.
Vivo, sì, ma vegetale.
Tu? Oh, no.
Mi scappa una risata.
Sarebbe uno scherzo del destino veramente ben fatto.
Ma nemmeno così ti lascerei, sappilo.
“Sono John” ti ripeto. Non so dirti altro. Sono John. Tu lo sai chi sono.
Beh, adesso cerca anche di capire che sono qui, testa di cazzo.
Se c’è ancora qualcuno in quella testa.
“Sherlock, sono John, sono qui.”
Sento appena uno spasmo delle tue dita tra le mie dita, leggerissimo, da farmi pensare che sia la mia immaginazione.
“Sherlock.”
Un altro piccolo spasmo.
Sobbalzo visibilmente.
Kaplan si sporge sul letto. “Che succede?”
Il cuore mi sta uscendo dal petto, sta prendendo a cornate la mia gabbia toracica, vuole uscirne con prepotenza.
“Sta cercando di stringermi la mano” mormoro a fatica.
Sherlock.
Un altro piccolo movimento delle dita.
Adesso in quattro fissiamo la punta delle tue dita lunghe, appena arrotolate attorno alle mie. Le tue unghie pallide, eleganti.
Sherlock, sono John, puoi farmi capire che mi senti?
I tuoi polpastrelli si piegano e toccano le mie nocche.
“E’ lui” dico a Kaplan guardandolo con eccitazione “è ancora qui dentro.”
“Bene, sì, bene!” è sinceramente contento, mi dà una piccola pacca sulla spalla.
Ed è adesso che emetti un suono basso, un lamento strozzato che sembra provenire da... non saprei... da un’altra galassia?
“Non parlare” ti sussurro “non ti sforzare, non...”
Apri gli occhi.
Spalancati. Verdi e trasparenti. Rossi di sangue tutto intorno. Con due buchi neri enormi al centro.
Mi spavento.
“Sherlock.”
Kaplan si sporge su di me e ti apre completamente le palpebre con le dita, prima una e poi l’altra, e annuisce con un piccolo movimento del capo.
Tu giri le iridi su di me. Io mi sento trafitto.
Ma, esattamente come dietro quel tavolo, giorni fa, vedo la consapevolezza affiorare in essi attraverso il velo dei farmaci e del dolore.
Un’altra debole stretta delle tue dita, seguita da un altro lamento strozzato, lieve.
Solo io capisco che quel lamento significa: John?
“Sì, sono qui.” riesco solo a dirti.
Sento le lacrime affiorare, le inghiottisco con uno sforzo sovrumano.
Sei qui tu, e sono qui io.
Non è meraviglioso?
Socchiudi gli occhi e poi li serri, questo è dolore fisico.
Un mugolio indistinto mi conferma che è così, ma a me basta, per me va bene, io so tutto quello che c’era da sapere.
“Basta” supplico Kaplan mentre fisso te, senza potermi fermare dall’accarezzare i tuoi capelli “Basta, sedatelo, vi prego.”
Il medico di prima si riavvicina al diffusore e lo regola di nuovo.
Tu riapri gli occhi per un istante, appena due fessure sottili, ora, non riesci a fare di meglio, e cerchi di nuovo me.
Ti sorrido mentre li richiudi lentamente e scompari, vai di nuovo a galleggiare nel tuo mare di misericordiosa incoscienza.
Rimango così, senza muovermi, come se la prova non fosse terminata.
“Può restare un po’, se vuole” sento che mi dice Kaplan.
“Grazie, lo vorrei davvero. Può avvertire l’altro signor Holmes, per favore?” rispondo mentre studio tutte le piccole rughe che si diramano tra le occhiaie e il naso, o quelle orizzontali sulla fronte.
Un libro che ho imparato a memoria. Le ricordavo una ad una.
Non avrei mai sperato di contarle addirittura, non dopo quel volo.
Ma tu sei incredibile, sovverti le leggi stesse della natura.
Fai sembrare tutto semplice, anche una cosa come quella appena successa.
Quando escono tutti dalla stanza, posso farlo.
Mi chino e appoggio delicatamente le labbra sulla tua fronte.
Non è un bacio, non ancora, è solo contatto. Le poso soltanto, per sentire la consistenza della tua pelle, la temperatura, l’odore pungente di tintura di iodio, capelli non lavati, medicine, attraverso il quale avverto, netto e inequivocabile, il tuo profumo naturale.
Ti respiro addosso.
Avevo bisogno di farlo. Erano giorni che lo speravo, desideravo, sognavo.
Tu non sai cosa vuol dire avere l’urgenza di fare una cosa simile.
Prendere con sé parte di un’altra persona. 
Come vorrei che fosse possibile con solo questo gesto, ma ovviamente non lo è.
 Non importa, me lo farò bastare.
Sono io quello che ti ha cacciato da casa sua, intransigente e imbecille come non mai?
Sono io quello che aveva deciso di vivere senza di te?
Sono io quello che aveva rivolto contro sé stesso tutto questo amore?
Te lo racconterò, e rideremo.
Ora so che potrà succedere, anche se mi prenderai in giro. O forse no.
Davvero vorresti farmi credere che non te ne fossi accorto?
Io penso che l’avessi capito tu prima di me. 
Io l’ho saputo... sentito... solo quando ti ho perso.
Dovrei scriverlo nel mio blog, quello che non tocco da un anno.
Dovrei scrivere come ci si sente a poter toccare di nuovo Sherlock Holmes.
A poter appoggiare le labbra sulla pelle trasparente della sua fronte.   
Ma non credo esistano le parole adatte.

Per un tempo indefinito, nessuno viene a dirmi di andarmene.
La loro indulgenza è commovente, davvero.
Ti faccio compagnia, come una volta, facendo finta che tu stia sul divano a leggere.
Mi sono ranicchiato sulla poltroncina e ho cominciato a pensare ad occhi chiusi.
Faremo questo, faremo quello.
La felicità che provo è un anestetico potente, mi sta facendo scivolare in un limbo dolce come miele.
Sono giorni che non vado al lavoro, probabilmente lo avrò perso, ma chi se ne frega.
Chiamerò Sarah, alle cui telefonate di queste ore non ho mai risposto.
In qualche modo, farò. Come ho sempre fatto.
Poi nella mia testa cala il silenzio, il mio udito segue vagamente il lontanissimo bip del monitor cardiaco, una ninna nanna che ora non mi spaventa più.
Niente mi spaventa più.

“John”.
Apro gli occhi e Mycroft è dall’altra parte del letto.
Mi raddrizzo, mi stropiccio la faccia.
Gli hanno portato un’altra sedia, si accomoda di fronte a me, con Sherlock tra noi due. Nulla di nuovo, in questo.
Lo guarda, poi riguarda me.
“Scusa se non ti ho chiamato prima” esordisco un po’ imbarazzato “non ci ho pensato.”
La sua espressione è sempre poco interpretabile.
“No, va bene” mi risponde calmo “Kaplan mi ha raccontato ogni dettaglio. Non credo che con me avremmo avuto lo stesso risultato.”
So che è vero, ma non me ne compiaccio.
Sherlock non lo ama come lui ama Sherlock, è fuori di dubbio.
Non ho mai capito perché, ma è così. Credo sia qualcosa che affonda le radici nel passato, qualcosa di cui Mycroft deve farsi perdonare, a parte le sua ultima idiozia di darlo in pasto a Moriarty. Non lo so e non mi interessa saperlo, in questo momento non provo compassione per quest’uomo elegante, apparentemente morbido, e anche lui umano in un modo diverso da tutti gli altri esseri umani.  
“Sono contento.” continua “Lo siamo tutti.”
“Credo che il peggio sia passato” dico guardando il volto di Sherlock.
“Il peggio deve ancora venire” riflette lui accavallando le gambe “una riabilitazione lunga e laboriosa. Ci vorranno mesi. Considerando di chi stiamo parlando, sarà un incubo.”
Lo guardo con espressione interrogativa.
“Incubo?” mi sfugge un sorriso sarcastico “Non importa, è vivo.”
Mycroft sospira.
“Gli troverò una sistemazione adeguata prima in una clinica di riabilitazione, poi a casa mia. Prenderò del personale medico fisso, farò in modo che sia una cosa veloce e ben fatta.”
Mi sistemo meglio sulla sedia, riappoggio le spalle allo schienale, incrocio le mani e le gambe, e lo guardo con gli occhi socchiusi in due fessure ostili.
“No, Mycroft.”
Mi guarda aggrottando le sopracciglia interrogativamente.
“Ecco cosa farai” comincio con tutta la calma del mondo “Manderai qualcuno a Baker street, farai ripulire e rinfrescare l’appartamento, pagherai Mrs Hudson per tutto il prossimo anno e farai portare lì tutte le attrezzature necessarie. Assumerai fisioterapisti, infermieri, procurerai tutto ciò che serve, dopodiché io tornerò a casa con lui, visto che grazie a dio sono un medico, lo rimetterò in sesto e tu ti leverai dai piedi. Puoi venire in visita quando vuoi, naturalmente.”
Quando termino, sto sorridendo con soddisfazione.
Resta un attimo interdetto, poi scuote la testa.
“No... John, è fuori discussione, i primi tempi avrà bisogno di stare in una struttura...”
“Sono io la sua struttura, Mycroft.”
Mi sporgo in avanti per sottolineare il concetto. E ora non sto sorridendo.
“Non credo mi sarà possibile fartelo fare.”
“Vorrei vederti provarci.” digrigno i denti. L’odio mi risale in gola.
Quel salto è colpa tua, bastardo. E ora tu farai la tua parte.
“E vorrò esserci quando Sherlock darà la propria opinione al riguardo.”
“E’ mio fratello, John” si acciglia.
“E’ una motivazione opinabile.”
Segue un istante di silenzio teso.
Lui si strofina il mento con le dita. Mi guarda pensoso.
“E’ un impegno fuori dalla portata di una persona sola.”
“Lascialo decidere a me.”
Sospira e mi guarda scettico.
“Che cambiamento da qualche giorno in qua, John. L’ho visto fatto a pezzi dalla tua intransigenza poco più di 10 giorni fa, e adesso vuoi fargli addirittura da infermiera.”
“Dottore. Sono un dottore.” in questo momento non apprezzo lo spirito idiota che ha sempre accompagnato ogni sua uscita “Ho il diritto di cambiare idea come qualunque altro essere umano. Ho rischiato il culo per tirarlo fuori da quella... assurdità in cui mi avete calato un’altra volta, l’ho rischiato ben più di te, ben più di chiunque altro, e perché io lo abbia fatto sono cazzi miei, per cui da qui in poi me ne occupo io. E’ tutto chiaro, spero.”
Mycroft sospira di nuovo. Non l’ho mai visto così arrendevole e poco combattivo, in questi giorni.
E’ stanco, è preoccupato, e soprattutto sa che io sono la soluzione.
Ha fatto di tutto per mettermi a mio agio, per essere amichevole, scommetto che è opera sua anche il fatto che mi lascino stare qui a dispetto di ogni norma.
Sa che se non lo perdono io, con Sherlock sarà tutto più spinoso del solito.
E lui lo ama profondamente.
Ha fatto di tutto perché gli restassi accanto in questi giorni, ha perfino evitato di essere troppo presente perché sapeva che mi avrebbe dato fastidio. Non ti sopporto, Mycroft, ma so che devo un minimo rispetto all’intelligenza. Sai che ha bisogno di me, ti sei assicurato che io ci fossi, ma adesso devi lasciarmi continuare.
“John, sarà distruttivo. Fisicamente e psicologicamente. Lo dico per te , davvero.”
“Sono un dottore, fammi fare il mio lavoro.”
Sì, fammi fare il mio lavoro, Mycroft Holmes.
Non replica più.
Io mi giro a guardarti e noto che, mentre parlavo con lui, ho posato la mia mano sulla tua.
La stringo piano, gli occhi fissi su di te.
Gli occhi sempre, sempre fissi su di te.  
Mycroft dice: “Va bene.”
Non potrebbe andare diversamente, Mycroft. Non andrà diversamente.
Parola mia.



  
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