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Autore: Perfect_Denial    18/05/2012    11 recensioni
Un paio di ore dopo, eravate ancora tutti là dentro, probabilmente a sbevazzare e ascoltare musica, per festeggiare il successo del concerto.
Me ne stavo lì fuori, appoggiata al tronco di un albero, in attesa.
Prima o poi saresti uscito da lì.
Ero calma.
Ero lucida.
Ero pronta.
Proprio come la colt scintillante che nascondevo dentro la giacca.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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BEFORE I PULL THIS TRIGGER

BEFORE I PULL THIS TRIGGER




Milleseicentottantuno.

Tante sono le piastrelle bianche che tappezzano

le pareti ed il pavimento di questa cella.

Le ho contate talmente tante volte che ormai potrei farlo

anche ad occhi chiusi.

Non che di luce ce ne sia molta qui dentro.

L'unica proviene dal minuscolo rettangolo chiuso da vetro e inferriate

sulla piccola porta liscia, con un'unica maniglia. La maniglia che ho

visto una volta sola: quando mi hanno trascinata qui dentro.


Da quanto tempo sono qui?

E' una domanda pericolosa da porsi per chi è rinchiuso in una

cella d'isolamento di un manicomio criminale.

Ti porta lentamente all'esasperazione, ti corrode il cervello e alla fine darai di matto,

è inevitabile.

No, il modo migliore è cercare di concentrarsi sulle piccole cose,

i dettagli, per tenere la mente impegnata. Ecco il perché del conteggio delle piastrelle.

Pazzia.

Insanità mentale.

Schizofrenia.

Non ho mai prestato troppo attenzione alla terminologia.

D'altra parte è solo questione di punti di vista.

Chi è il vero “matto”? Quello che la società o la medicina definiscono tale?

No, a meno che non siate già stati in un posto del genere, non osate darmi

la vostra versione dei fatti,

non sapete un cazzo di niente di cosa significhi.

Perciò state zitti ed ascoltatemi.




Mi chiamo Annabelle.

Vorrei poter dire che gli amici mi chiamano Anne, o Belle.

Ma non ho mai avuto molti amici.

Dicono che la depressione in età giovanile sia la peggiore,

che non si guarisce mai del tutto, anche in età adulta, a meno di non imbottirsi

di psicofarmaci ed accontentarsi di una vita finta e ovattata.

La mia infanzia e adolescenza, furono normalissime, come la maggior parte delle

altre bambine e ragazzine della mia età.

Sì, ero molto più introversa ed emotiva di loro e spesso tendevo ad isolarmi. Non mi sentivo mai all'altezza delle situazioni, eternamente fuori posto, in qualsiasi luogo o contesto.


Dopo il diploma, visto che la mia famiglia non era abbastanza

benestante da potersi permettere di mandarmi al college,

dovetti rassegnarmi al primo lavoro di merda che trovai.

Ed il lavoro più di merda che puoi trovare, in una città di merda come Pasadena, California,

per una ragazza di 19 anni che non ha

particolari attitudini, né ambizioni di carriera,

è fare la commessa in un ipermercato.

Mi piacerebbe potervi dire che, pur non essendo una cima in tutto il resto,

quantomeno possedessi una bellezza particolare.

Beh, sarà ora che vi togliate dalla testa questi preconcetti del cazzo, imparati

a memoria dai film e dalle serie tv.

Non sono bella e non sono neanche brutta.

Sono una ragazza normalissima.

Quella che tutti i ragazzi lasciavano come ultima spiaggia

tra le quelle da invitare al ballo di fine anno.

Ma andiamo con ordine.

Il lavoro mi fa schifo, ma nella vita qualcosa bisogna pur fare per campare.

'Il lavoro nobilita l'uomo', si dice.

Cazzate.

Vallo a dire a una come me, che fa turni di 9 ore al giorno a 6 $ l'ora,

con mezzora scarsa per il pranzo,

e quello stronzo del boss - un ragazzo brufoloso e flaccido di neanche 25 anni, che si sente potente nascosto dietro quella targhetta appuntata alla camicia con su scritto “Manager”-

pronto a urlarti contro al minimo passo falso.

Per non parlare della gente che puzza, i vecchi bavosi che ci provano, le casalinghe isteriche

che si lamentano dei prezzi troppo alti, o i disperati pronti a raccontarti la storia della loro vita

al minimo cenno di empatia.

Per questo me ne sto al mio posto in cassa a capo chino, ai clienti non dico più

delle 3-4 parole indispensabili e in generale tiro a campare fino alla fine del turno.

Di tanto in tanto riesco a imboscarmi in magazzino, giusto il tempo di una sigaretta.


E' lì che ti ho conosciuto.

Avevi appena iniziato, come magazziniere e già tutti ti adoravano.

Eri il ragazzo più bello che avessi mai visto.

Ma la tua non era una bellezza convenzionale.

I tuoi occhi color nocciola sembravano vedere al di là dell'aspetto fisico.

Come se riuscissi a cogliere la vera essenza delle persone.

E le tue mani, dio, le tue mani.

Ma era il tuo sorriso così genuino e disarmante, di chi è stato amato in vita sua,

di chi non ha altre preoccupazioni al mondo, se non vivere il presente,

godere di ogni momento, come se fosse l'ultimo.

Ed era questo a conquistare chiunque incrociasse la tua strada, uomini e donne, indistintamente.

E quel giovedì senza capo né coda, si trasformò nel più bello

della mia stupida e insignificante vita.

Ti avvicinasti e semplicemente mi chiedesti da accendere.

Iniziammo a parlare del più e del meno.

Perlopiù ascoltavo te, non avevo granché da raccontare, io.

Ed ero in balìa del tuo sguardo e della tua voce, nel giro di pochi minuti.

Avevi la mia stessa età, ma non eri di Pasadena.

Eri originario di Los Angeles, ma 2 mesi prima eri partito con degli amici per un viaggio all'avventura che in teoria sarebbe dovuto durare solo qualche settimana.

Uno zaino in spalla e la giusta dose di incoscienza, insieme giraste la California

in treno o – quando i soldi scarseggiavano – in autostop.

Nel tempo la compagnia si era sparpagliata, mentre tu avevi deciso

di stabilirti qui per qualche mese.

Sembra una città con del potenziale” mi avevi spiegato, sogghignando.


Da quel giorno in poi, diventò un appuntamento fisso, quello in magazzino.

All'inizio non ne capivo il perché, ma era evidente

che ti stessi affezionando a me.

Appena potevi, venivi alla mia cassa a salutarmi, qualche volta portandomi una rosa,

rubata dalle aiuole ben curate delle casette a schiera lungo il viale di fronte,

solo per vedermi sorridere.


Un giorno finalmente mi chiedesti di uscire insieme.

Voglio portarti in un posto speciale”.

Mi desti appuntamento al tramonto, all'ingresso del parco naturale di Pasadena,

a pochi minuti dalla chiusura serale.

Avevo messo il mio abito più bello e legato i capelli in una treccia,

lasciando fuori solo qualche ciocca ribelle.

Chi mi avesse vista per la prima volta, avrebbe perfino potuto considerarmi “carina”.

Sapevo di non esserlo.

Ma guardandomi allo specchio quella sera, avevo visto per la prima volta il ritratto della felicità.

Ormai dipendevo da te. Sentivo che avrei potuto fare qualsiasi cosa mi avresti chiesto,

eri diventato il mio mondo.

Col senno di poi, non penso fosse vero amore, quello che provavo

non prendetemi per un'ingenua.

Era più simile a venerazione....all'illusione di possedere

finalmente qualcosa di bello, nella mia vita.

Ma tu non saresti mai stato di nessuno.

Vagavi da mesi su e giù per la California, in fuga da te stesso.

Non avresti mai permesso a nessuno di possederti, nonostante la tua espansività e la naturale predisposizione a farti benvolere da tutti.

Ma io ero solo una ragazza sciocca, vissuta per 19 anni ai margini della città

e ai margini della realtà.

Per questo indossai il mio vestito più bello e passai ore

davanti allo specchio, in quel pomeriggio di giugno.


Ma, come ho detto, ero una povera illusa, perciò non giudicatemi!


Quando arrivai, ti trovai già lì ad aspettarmi, un piede appoggiato al cancello di ferro,

una sigaretta accesa in una mano e l'altra in tasca.

I capelli lunghi stretti in una coda e lo sguardo che vagava tra i passanti,

aspettando di riconoscere il mio volto.

Sei bellissima. Dai, andiamo. Dobbiamo essere dentro prima che chiudano il parco”

mi prendesti per mano, guidandomi con passo sicuro.

Dopo aver camminato per circa mezzora, il sentiero

iniziò ad addentrarsi nel fitto bosco di abeti secolari, nella zona più a ovest, sulle colline.

E' un posto che ho scoperto per caso. Ti piacerà, vedrai.”

Il sentiero si faceva sempre più ripido e, in alcuni tratti, ebbi bisogno del tuo aiuto per salire,

visto che non avevo né scarpe nè abbigliamento adatto.

Giunti sul crinale, si intravide una piccola baita di legno,

apparentemente disabitata e vuota. Il cielo lì sopra era completamente oscurato dalla fitta vegetazione, ma gli ultimi raggi di sole del giorno, riuscivano a farsi strada attraverso i rami,

per riscaldare quella radura.

Vieni a vedere, è stupendo al tramonto”

Restai senza fiato.

Al di là della casa si stendeva una vallata verde smeraldo ed il sole faceva ancora capolino da dietro le colline, tingendo il cielo di rosso e arancio...

Sono morta e sono in paradiso?? Dimmi che è così”

mi voltai verso di te a guardarti “ti prego, dimmi che non sto sognando”

Mi prendesti il viso tra le mani e mi baciasti con passione.

Facemmo l'amore quella sera, abbandonandoci completamente l'uno all'altra,

più e più volte, finché ogni nostro senso non fu completamente appagato.

Ti porterò via di qui. Verrai con me a Los Angeles. Possiamo conquistare il mondo, insieme”

Ed io ti ho creduto. Ti avrei seguito anche in capo al mondo.

D'altronde, era molto più di quanto chiunque mi avesse mai offerto, in tutta la vita.


Dopo quella notte, ne seguirono molte altre.

Era diventato il nostro rifugio dal mondo, quella radura.

L'angolo di felicità, dove due anime solitarie come noi, si erano finalmente trovate.

Forse c'era speranza anche per me, dopo tutto.


Ma durò poco.


Senza preavviso eri entrato nella mia vita e senza preavviso ne sei uscito.

Un giorno non ti presentasti al lavoro. E neanche quello dopo e quello dopo ancora.

Chiesi in giro e mi dissero che avevi dato le dimissioni all'improvviso, dicendo

che dovevi ritornare a Los Angeles, dalla tua famiglia.


Non poteva essere vero. Non volevo crederci. Senza una parola, senza lasciarmi un recapito.

Sparito nel nulla.

Doveva pur essere rimasta qualche traccia di te da qualche parte, un indizio per riuscire a ritrovarti. La prova che non fosse stato tutto un sogno.

Per questo tornai alla radura, su in collina.

Appena arrivai, mi resi conto davvero che non c'eri più.

Era tutto uguale, eppure tutto diverso. Non era altro che un mero insieme di terra, alberi ed erba, nient'altro. Ti eri portato via anche la magia di quel luogo.

Non mi rimaneva più nulla.

Nemmeno il sole al tramonto di settembre era più caldo ed accogliente come quello

che ci aveva avvolti, fino a poche settimane prima.


.......


Me ne tornai alla mia vita solitaria, come in coma. Vivevo sì, ma dentro ero morta.

Avevi ucciso i miei sogni, le mie speranze e nel pozzo nero nel quale ero sprofondata,

non percepivo altro se non echi lontani della realtà.

Iniziai a provocarmi dolore di proposito, per cercare di sentirmi viva di nuovo.

Quando posavo la lama del rasoio sulla mia pelle....

...era quello l'unico istante in cui riemergevo dai miei incubi.

Facevo attenzione a non entrare troppo in profondità e ad indossare maniche lunghe

anche quando faceva molto caldo.

Mi ero estraniata da tutti, in primis dalla mia famiglia,

che assisteva attonita ai miei inspiegabili silenzi, senza riuscire a trovare una spiegazione.


Continuai così per mesi, andando avanti per forza di inerzia, diventando sempre più brava a nascondere il marcio che si accumulava dentro di me e il caos dentro la mia testa.

Ero diventata lo spettro di me stessa.

E la colpa era solo tua. Tu mi avevi ridotta così.

Mi avevi promesso il paradiso e invece mi hai lasciata qui, a marcire all'inferno.

Non riuscivo a dimenticarti, avevo impresso nella mia memoria ogni istante, ogni tuo sorriso, ogni tuo tocco, ogni tuo gemito, quando eri dentro di me.


Passarono i giorni e le stagioni, finché un mattino, lungo la strada per andare al lavoro,

una rivista attirò la mia attenzione, sul bancone dell'edicola.

Era solo una rivista di musica indie locale, niente di troppo patinato.

Insieme a te c'erano altri 3 ragazzi nella foto in copertina, vestiti in modo bizzarro

e coperti di simboli dei quali ignoravo il significato e in basso la scritta a caratteri cubitali:

30 SECONDS TO MARS.





Ecco il dottore.

E' uno nuovo, la dottoressa Valentine deve essere stata trasferita.

Peccato, non mi dispiaceva quella vecchia zitella acida.

Anche se non aveva mai capito un cazzo di me. Come nessun altro, del resto.

Questo nuovo, dice di chiamarsi MacNamara...avrà sì e no 35 anni.

O forse ne ha di meno, ma portati male.

Basta guardare il suo pallore e la stempiatura incipiente sulle tempie.


Di che cosa mi vuoi parlare, Annabelle?”

Sempre le stesse cazzate, come da manuale di psicologia.

E' già il quarto medico curante che mi assegnano.

Ho visto iniziare ognuno dei precedenti con entusiasmo e li ho visti fallire miseramente

nel giro di pochi mesi.


Perché non iniziamo parlando della tua famiglia?”

Che cosa vorresti che ti raccontassi, dottore? Che mio padre mi scopava?

Che mia madre era una sgualdrina, magari anche ubriacona?

Che eravamo poveri in canna e costretti a rubare per avere di che mangiare?

Levatelo dalla testa.

E smettila di fissarmi in quel modo.

Facendo finta di restare impassibile, quando è più che evidente che mi stai giudicando.

Lo Stato ti paga per curarmi, senza giudicarmi. Hai studiato e fatto pratica per questo.

Ma nessuno di voi, psichiatri del cazzo, ci riesce.


Te la senti di raccontarmi cos'è successo il 27 marzo dell'anno scorso, a Los Angeles?”

No, non me la sento, quindi vaffanculo.

Non ho fatto niente di male. Niente. Niente.

E pensare che....




Erano già due settimane che girovagavo senza meta nella città degli angeli.

Finalmente avevo scoperto dove abitavi e cosa stavi facendo.

Avevi anche tagliato i capelli corti e messo su muscoli.

Stavi vivendo il tuo sogno, con la tua band.

Ma tu avevi distrutto il mio, di sogno.

Mi avevi illusa e poi scaricata, senza una parola.

Ti ho scritto una lettera al giorno, da che ero lì, ma non mi hai mai risposto.

Le ho recapitate a mano, direttamente a casa tua, cercando ogni volta di sbirciare dentro

senza farmi notare.


Quella mattina mi ero alzata all'alba e passeggiavo sul lungomare quasi deserto,

poco lontano dal pulcioso motel nel quale alloggiavo,

quando un manifesto catturò per caso la mia attenzione: un vostro concerto,

proprio lì in città la sera successiva.

Era quella l'occasione che aspettavo.

Ti volevo. Dovevi essere mio di nuovo, a tutti i costi.





Il tempo non passa mai, qui dentro.

Se solo quella schifosa dell'infermiera mi avesse lasciata in pace, l'altro giorno,

sarei potuta rimanere a farmi gli affari miei in camera mia, continuando a scrivere il mio diario

e scontare la mia pena, senza dare fastidio a nessuno.

Invece no, quella doveva mettersi a dare di matto, solo per qualche graffio.

Stupida puttana!

Ora, otre ad essere barricata qui dentro, devo anche sorbirmi sedute di psicoanalisi

quasi tutti i giorni e razione doppia di psicofarmaci

che mi somministrano di nascosto, mischiandoli nella minestra o nell'acqua.

Per questo ho smesso di mangiare, non sono mica scema.

Quelle medicine mi porterebbero via TE, il mio ricordo più bello.

E quell'ultima volta che ho incrociato i tuoi occhi ambrati....





Poco dopo il termine del concerto, mi intrufolai nel backstage.

Ti vidi uscire da un camerino, chiaramente docciato di fresco e ancora elettrizzato per lo show.

Ero lì davanti a te, ma tu hai fatto finta di niente.

Hai finto di non conoscermi e ti sei voltato dall'altra parte, abbracciando

una ragazza bionda con dei jeans e un top talmente attillati, da lasciare

ben poco all'immaginazione.

Ti sono corsa dietro. Ho gridato il tuo nome.

Mi sono umiliata, pur di riuscire a parlarti.

Ma quei gorilla della security del locale mi hanno trattenuta e intimato di andarmene di lì.

Non poteva essere vero. Perché fingevi di non riconoscermi??? Perché i tuoi occhi mi guardavano con tanto disprezzo e.....terrore???


Sono io!!” Urlavo disperatamente “Sono io, Annabelle! Perché te ne sei andato?? Perchè mi hai lasciata sola? Io ti amavo! IO TI AMAVO!!

Ma tu eri già uscito dalla porta sul retro, a passo spedito, tirandoti dietro

quella sciacquetta con le codine bionde.


Decisi di lasciar perdere e che sarei tornata più tardi.

Avevo visto dov'era parcheggiato il tour bus e lì non ci sarebbero stati i buttafuori

a tenermi lontana da te.

Un paio di ore dopo, eravate ancora tutti là dentro, probabilmente a sbevazzare

e ascoltare musica, per festeggiare il successo del concerto.


Me ne stavo lì fuori, appoggiata al tronco di un albero, in attesa.

Prima o poi saresti uscito da lì.


Ero calma.

Ero lucida.

Ero pronta.

Proprio come la colt scintillante che nascondevo dentro la giacca.





***********


Com'è andata la prima seduta con la paziente?”

Il dott. Neumann, direttore del Centro di Igiene Mentale Harlech, si accomodò sulla sedia di pelle nera dietro la sua imponente scrivania in rovere lucido. Si aggiustò gli occhiali sul naso ed intrecciò le mani davanti a sé, scrutando l'uomo seduto di fronte a lui inclinando lievemente un sopracciglio, in attesa della sua risposta.

Beh, non mi aspettavo molta collaborazione da parte della ragazza, visti i precedenti e soprattutto essendo la prima seduta insieme. Ho letto attentamente il profilo tracciato dalla dottoressa Valentine e la cartella clinica della ragazza, ma prima di continuare, ci terrei ad avere il suo punto di vista, così da poter adottare la strategia migliore...un'unica seduta non mi è sufficiente per avere un quadro completo.”

Lei vuole la mia opinione? Eccola. Quella donna è ancora nella fase di rifiuto, bisognerà scavare molto più a fondo, per farle prendere coscienza di ciò che ha fatto. E' ancora convinta di aver avuto davvero una storia d'amore con l'uomo che ha tentato di uccidere, il signor Leto. Lo stato di depressione nel quale verteva già da anni, sfociato nell'autolesionismo, l'ha portata a crederlo. Probabilmente una somiglianza reale tra Shannon Leto ed il ragazzo conosciuto a Pasadena, c'era davvero, ma Dio solo sa perché la sua mente l'abbia portata a pensare che potesse essere stata la stessa persona. Per fortuna la pistola che aveva era fredda, quindi il primo colpo che ha sparato ha preso il ragazzo solo di striscio, altrimenti la sua condanna sarebbe stata il carcere a vita, quanto meno. La avverto da subito che non sarà facile, far breccia nella sua psiche. Nessuno c'è mai riuscito prima d'ora e non mi aspetto che ci riesca lei. Ha manifestato aggressività sin dal primo momento in cui è entrata qui dentro, quasi 2 anni fa e l'ennesimo episodio di violenza di tre giorni fa, ci ha costretti a prendere provvedimenti e chiuderla in isolamento. E' un pericolo per lei stessa e per gli altri, non potevamo tenerla in reparto. Più volte ha tentato di sottrarre tranquillanti ed attrezzatura medica, per tentare il suicidio, ma quei gesti disperati sono solo una richiesta d'aiuto inconsapevole. Non sono mai andati a buon fine, sì, ma solo per scarsità di convinzione e determinazione nell'andare fino in fondo. Se vuole il mio parere, dovrà partire proprio dall'analisi di questi episodi, per iniziare il percorso di guarigione. Scoprire cosa le passa in mente, prima di compiere quei gesti. Forse ci troverà un barlume di consapevolezza.”

Il dott. Neumann aveva l'aria stanca e rassegnata, mentre pronunciava queste parole, mentre il dott. MacNamara, da bravo ex studente di Yale, primo della classe in ogni materia, prendeva diligentemente appunti ed annuiva di tanto in tanto. Il Direttore non si aspettava granché da lui, come gli aveva detto a chiare lettere poc'anzi. Psichiatri di maggiore esperienza e levatura avevano fallito con Annabelle Summer (*), sarebbe stato già un miracolo se quel neo laureato secchione sarebbe uscito vivo da quella cella. Lei l'avrebbe fatto a pezzi psicologicamente.


Un po' gli dispiaceva per lui, in realtà, ma d'altra parte aveva sempre pensato che un bravo medico si riconoscesse anche dal modo in cui incassava le sconfitte. In fin dei conti non gli interessava granché del dottor MacNamara. Avrebbe avuto tutto il tempo per rifarsi, in futuro, con altri pazienti.


“Bene, la ringrazio signor Direttore, per avermi concesso qualche minuto del suo tempo.”

“Si figuri. Sono certo che tornerà ben presto da me, per approfondire il discorso” così dicendo gli porse la mano e aggiunse “Ora, se vuole scusarmi, stasera c'è il Super Bowl e mio figlio mi aspetta a casa per guardarlo insieme. Non me lo perderei per niente al mondo”sorrise e ammiccò, cercando la solidarietà del giovane medico.

“Certo, certo. La famiglia prima di tutto. Grazie di nuovo e buona serata a lei.”


Dopo essersi congedato, il dottor Neumann si avviò in fretta lungo i corridoi, per il solito giro di routine in reparto, prima di uscire. Giunto nell'ala est, svoltando l'angolo si ritrovò nella stretta anticamera dalla quale si accedeva alla cella di isolamento. Se poteva, evitava quel luogo, a meno che non ci fosse costretto. Nonostante i 23 anni di esperienza come psichiatra ed i 12 anni alla direzione del Centro, gli faceva ancora un certo effetto.

Quella sera non poté evitare di soffermarsi, visto che lui era tornato.

Gli dava le spalle, ma l'aveva riconosciuto subito dai jeans strappati che indossava – come quelli che tanto amava suo figlio adolescente – ed i capelli castani sparati in aria. Era immobile davanti alla porta, le mani in tasca, mentre sbirciava l'interno della cella dalla finestrella senza farsi vedere, come sempre.

“Oh! Signor Leto, di nuovo qui?”

Shannon trasalì.“Direttore! Lo so che l'orario di visita è finito, ma visto che domani dovrò partire per il tour e starò via per diversi mesi, volevo passare a vedere come stava....”

“Non si preoccupi, non è un problema. Può venire quando vuole.”

Shannon tornò a rivolgersi verso quel che rimaneva della giovane Annabelle Summer, raggomitolata su un fianco in posizione fetale, sul pavimento.

“Ancora nessun miglioramento, Doc?”

“Purtroppo no. Abbiamo un nuovo medico curante, un giovane stavolta. Crediamo che con un approccio più fresco e più...moderno, magari....” il direttore spiegò, senza molta convinzione.

“....magari non si risolverà un bel niente, come al solito. Almeno ha ripreso a mangiare?”

“Temo di no...ultimamente sembra voler gettare la spugna. Si sta spegnendo poco a poco. Se continua a rifiutare il cibo, saremo costretti a nutrirla artificialmente, ovviamente. Ma prima dobbiamo attendere e sperare che si riprenda con le sue forze.”

Guardò il ragazzo con un misto di compassione ed ammirazione. Chi altro sarebbe riuscito ad andare a trovare quasi tutte le settimane per oltre 2 anni, la donna che aveva tentato di ucciderlo?

“Ehm...per il bene della paziente, sono costretto a chiederle di allontanarsi dal vetro. Qualora si svegliasse e la vedesse, non sappiamo che reazione potrebbe avere...”

“Certo, mi scusi. Me ne stavo andando comunque” Shannon strinse i pugni e si morse il labbro, abbassando lo sguardo a terra, accigliato “Non saprò mai il perché, non è vero doc?”

Il dottor Neumann sospirò lievemente e attese un paio di secondi, scegliendo le proprie parole con cura. “Solo il tempo ci sarà testimone.”

“Voi strizzacervelli dovete sempre essere così vaghi, vero? Un semplice 'no' mi sarebbe bastato...”

Poggiò il palmo della mano sulla porta per qualche istante e, dopo un'ultima occhiata ad Annabelle, si voltò verso il direttore.

“Beh, arrivederci, dottore. Ci rivedremo tra qualche mese.”

“Lo spero...” si strinsero la mano e per un momento tacquero entrambi, guardandosi negli occhi “Arrivederci e buona fortuna, ragazzo.”


Shannon si avviò su per il corridoio, puntando verso l'uscita. Il dottor Neumann lo seguì per un attimo con lo sguardo, prima di voltarsi di nuovo verso la cella e trovarsi di fronte lei, in piedi al di là del vetro.

Fissava il punto esatto in cui era stato Shannon, fino a pochi secondi prima.

Lentamente poggiò il palmo della mano sulla porta, mentre una lacrima fredda e solitaria scendeva a rigarle il volto.

Negli occhi ancora il riflesso di quel tramonto d'estate.







_______

NOTE:

Il titolo è tratto dalla canzone dei My Chemical Romance "Early sunsets over Monroeville", alla quale mi sono ispirata per questa OS.

(*) Per chi non lo sapesse “Leto”, in lingua russa, significa “Estate” (appunto “Summer”)

Dedica specialissima alla mia Donnah Lexie, a Cimo per avermi spronata e alle mie lovvatissime #crazyforGOT: Monica e Ilaria <3

Last but not least, grazie a tutti voi lettori, spero vi sia piaciuta la mia follia ;)

  
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