Duecentosettantotto
Nessuno sapeva dov’eri o nessuno voleva saperlo?
Nessuno lo sapeva, e
tu avresti voluto scappare ancora con lui
C’era una volta un
bianco castello fatato
Un grande mago
l’aveva stregato per noi
Sì, io ti amavo
Tu eri la mia Regina
ed io il tuo Re
(La nostra favola,
Jimmy Fontana)
Liverpool, 23 Dicembre
1834
Quattro pareti più
grigie del fumo di un treno
Questo è il castello
che io posso dare a te
Sì, tu mi ami
Come se fossi per te
un vero Re
(La nostra favola,
Jimmy Fontana)
George non
aveva regole.
Non aveva
leggi.
Obbediva
soltanto a Leonida, e Leonida a Liverpool non c’era.
Suo padre
non aveva alcun diritto su di lui, e sua madre non osava rimproverargli niente.
Suo
nonno, Dekapolites Calie e i Kléftes si erano assunti, dal 27 Febbraio 1821, ogni responsabilità sulla sua educazione.
Quando
era a Liverpool faceva quello che voleva e tornava a casa quando voleva, solo se voleva.
A volte
si fermava a dormire in riva al Mersey, a volte sui gradini o sul marciapiede, perché uno Spartano non doveva abituarsi
alle comodità.
Lui era
nato a Sparta, e lo sapevano tutti.
Era
impossibile contraddirlo.
Non si poteva fermare uno
Spartano.
Quando
Anasthàsja era rimasta incinta, John Arthur Gibson aveva sfidato a duello
Leonida Zemekis.
Se avesse
vinto, Gee sarebbe stato il perfetto primogenito inglese che desiderava.
Avrebbe frequentato la più prestigiosa Accademia della Marina Militare
d’Inghilterra e l’avrebbe succeduto al comando della Magna Graecia.
Ma
Leonida aveva avuto tre figlie femmine, e a trent’anni ancora aspettava un
erede.
Il 14 Settembre 1829, il giorno del Trattato di Adrianopoli, che
attestava la libertà della Grecia, era nata Thera Zemekis, la sua quarta
figlia.
Il capo
dei briganti di Sparta, pur adorando le
sue ragazze, riponeva ogni sua speranza militare in Brian George, il suo Geórgos.
Naturalmente,
aveva vinto il duello.
Ma se
anche Leonida avesse perso, Gee avrebbe
sempre scelto la sua vita a Sparta.
Capelli di colore
biondo grano
E occhi di colore
ciel sereno
Due piccole manine
di velluto
In un minuto
Sei nata tu
(Patatina, Gianni
Meccia)
Natal’ja
era nata sotto lo sguardo gelido di Vasilij Zirovskij, il più crudele dei
soldati polacchi, che allora aveva ventisei anni, e sperava solo che Julyeta
morisse di parto, uccidendo anche quella bambina inutile.
Il primo
a volerle bene era stato Nikolaj, e dopo di lui Feri Desztor, in quella notte
di fine 1831.
Lei che sembrava uscita da una
favola e lui, appena tornato dall’inferno.
Harold
viveva a Liverpool e Julyeta le lasciava troppa libertà, quella libertà che una madre lascia a un figlio senza pensare alle
conseguenze solo quando il suo affetto non è tale da farla pensare alle
conseguenze.
Natal’ja era
andata a Londra con George senza dir niente a nessuno.
Natal’ja
era tornata a Londra con George e nessuno
aveva detto niente.
Sua
madre, con i suoi ventitré anni e i lunghissimi capelli biondi raccolti di
fretta, ancora arruffati, era andata ad aprire la
porta e, vedendola, le aveva sorriso.
Lys, con
le guance arrossate per la corsa e la chioma selvaggia sciolta sulla schiena,
identica, come i suoi occhi, a quella di Julyeta, le aveva gettato le braccia al collo e s’era aspettata un rimprovero, anche uno
schiaffo, forse.
Era stata arrestata, anche se per
lei non era una novità, succedeva anche a Krasnojarsk, ed era scappata di casa
con un teppistello greco che fino a pochi mesi prima era ricercato da Scotland
Yard.
Se lo meritava, uno schiaffo.
La luce
nello sguardo azzurro chiaro di Julyeta era sincera, era felice di vederla, ma non ebbe nessuna delle reazioni che
Natal’ja aveva immaginato.
Non si scompose nemmeno.
-Dove sei
stata di bello, Lys?-
-A
Londra... A Londra, maman!- quasi
gridò lei, sgranando gli occhioni celesti.
In quel momento non avevano
neanche una sfumatura d’argento a distinguerli da quelli della madre.
Erano semplicemente l’una il
ritratto dell’altra, Julyeta e Natal’ja.
La prima equilibrata e a modo, la
seconda sconsiderata e ribelle.
Ma fisicamente erano identiche:
questa era la loro croce.
Quattordici anni di differenza e
una vita da condividere, senza saper da dove cominciare.
-E com’è,
Londra?-
Sembrava...
Sì,
sembrava entusiasta della notizia.
Perché lei non c’era mai stata, a
Londra, nemmeno con Harold.
Era proprio fortunata, quella
birichina intraprendente di Lys, ad esserci andata a soli nove anni, con il suo
fidanzato.
-E’
bella, maman. Ma non eri in pensiero
per me?-
-Se mi
preoccupassi ogni volta di quello combini sarei già morta di crepacuore, non
credi?-
Le aveva
fatto male, Julyeta, con quella frase.
Non che
le dispiacesse, essere così libera, ma qualche volta
avrebbe preferito sapere sua madre
preoccupata per lei.
Era
disposta a tornare a casa prima, ad avere orari e regole.
L’avrebbe
aiutata a fare il letto, ad apparecchiare la tavola, a stendere i panni e a
piegare i vestiti.
Era
disposta ad essere una ragazza normale,
in cambio di un po’ di quell’affetto
materno che a Julyeta sembrava quasi sottinteso.
Sottinteso perché era sua figlia,
perché, dopo mesi, era stata lei a gridare e a piangere tra le lenzuola
stropicciate del suo letto di giovanissima e ingenua adolescente di periferia.
E cosa le
aveva risposto, sua
madre, quella splendida e insensibile ventitreenne siberiana che avrebbe
dovuto volerle bene più di chiunque altro al mondo, anche più di George?
Se mi preoccupassi ogni volta di
quello combini sarei già morta di crepacuore, non credi?
La
ragazzina le cercò la mano, gliela strinse, tremante.
Stessa pelle liscia e sottile,
stessa carnagione nivea.
Bellissima come lei, aveva perfino
il suo stesso sorriso.
Solo che
adesso s’era incrinato, il sorriso di Natal’ja.
Che mi resta di te,
della tua poesia?
Mentre l'ombra del sogno lenta scivola via
Se non ha anima…
(Ti
Sento, Matia Bazar)
Aveva
bussato alla porta mal verniciata di 12 Arnold Grove,
la casa dirimpetto alla sua, la casa di
Gee.
Le aveva
aperto il Capitano Gibson, con i pantaloni della divisa e la camicia
sbottonata, i capelli neri scompigliati e gli occhi azzurrissimi illuminati di
curiosità.
-Sei Nathalie, vero?-
-Sì...
Disturbo, mi dispiace...- sorrise lei, imbarazzata,
indicando il suo abbigliamento.
-Oh, don’t
worry, little girl. You’re Geórgos’ fiancée,
aren’t you?-
Aveva
qualcosa di terribilmente affascinante, John Arthur, in quel suo parlare un po’ in
inglese un po’ in greco, sfacciato come
suo figlio e vestito in quel modo...
George,
dietro di lui, osservava la scena in silenzio, non troppo entusiasta.
Il fascino di suo padre aveva
colpito anche la sua Natalys.
Sbuffando,
fece per andarsene, ma all’improvviso sentì una manina gelida sfiorargli la
spalla e un attimo dopo si ritrovò con un corpicino esile contro il suo petto, e
una cascata di capelli biondi e sottili, da fata, tra le dita.
Stordito,
come in un incantesimo, mise a lentamente a fuoco la luminosa chioma, i ridenti
occhi cristallini e la stoffa leggera di un vestito che avrebbe dovuto
riconoscere, perché l'avevano comprato insieme a Londra.
No, non doveva averla colpita poi
così tanto, l’assurda bellezza di John Arthur Gibson.
Avrebbe
sempre preferito il figlio del Capitano,
Natal’ja.
Dopo un
primo attimo di turbamento e sconcerto, aveva subito cercato Gee.
Ma doveva
aver pianto, la sua piccola fiammiferaia slava.
Aveva
un’aria quasi smarrita, triste.
Era certo
di non averla lasciata così, sulla porta di casa.
-What happened, my love?-,
le domandò, cauto.
-Maman
doesn’t love me... Not enough-
George
non fece in tempo a risponderle, perché una donna molto giovane, dalla pelle
dorata e il portamento da regina, poco lontano, li osservava a braccia
conserte, come infastidita.
-Poios eínai,
Ioánnis?-
Natal’ja
fece un passo indietro, e smise di guardare il suo Spartano, perché dal suo sguardo si capiva tutto.
I
vaporosi capelli rossi e ondulati di Anasthàsja e i suoi occhi turchini la
mettevano a disagio.
-Are
you... Natal’ja?- mormorò la ragazza
greca, scrutandola altezzosa.
Lei
annuì, accennando un sorriso.
Anasthàsja
Zemekis le indicò la porta.
-This is
the door, my dear-
-Oh, Stacey, you're a witch!-
protestò John, sorridendo.
Cercava
di sciogliere un po’ l’atmosfera, ma gli occhi sgranati di Natal’ja -occhi per
cui si poteva fuggire a Londra per un giorno, cominciava a capire suo figlio- gli confermarono che sua moglie
aveva davvero rovinato tutto.
-Alja,
don’t listen to her...- sussurrò dolcemente Gee
all’orecchio della biondina russa, che, intimidita, non sapeva proprio cosa
rispondere.
Non si sarebbe mai aspettata
un’accoglienza simile dalla madre di Georgij.
-I’m
sorry...-
Anasthàsja
Zemekis aveva ventisette anni, un viso troppo bello, un
carattere da principessa costantemente ferita nell’orgoglio, ed era terribilmente gelosa di suo figlio.
Natalys non
aveva nessun motivo di scusarsi, ma lo fece ugualmente.
Forse non era stata una buona
idea, andare da George quando c’erano anche i suoi genitori.
John
Arthur, che con i suoi trentaquattro anni e il suo metro e ottantatré aveva non
poca autorità, sia sulla nave che a casa sua, colto alla sprovvista, non riuscì
a difendere Natal’ja come avrebbe voluto.
La piccola siberiana non gli aveva
fatto niente, ed era la ragazza di Gee.
Perché Sthàsja l’aveva trattata
così?
Era
abituato al carattere scontroso di Anasthàsja, ma in quel momento...
Possibile che la sua strana
ossessione per Geórgos non fosse ancora sopita?
-Andiamo
in camera mia?- propose Gee, tirando la ragazzina per una manica del vestito.
-Wait, Gee...-
lo fermò il padre, bloccandolo sul primo gradino con uno sguardo severo.
-She’s
nine years old, do you want to violate a little girl?-
gli chiese, sconvolto.
Lei ha nove anni, vuoi violentare
una bambina?
George
arrossì furiosamente, scuotendo la testa.
-My God, dad… What
are you saying? I just thought in my room she would be quieter... In my
room there isn't mum-
-All right, but... Natal’ja
will stop here for dinner?-
-I
think so...- rispose Gee, anche se, effettivamente, non gliel’aveva mai
chiesto.
Poi lanciò
uno sguardo interrogativo a Lys.
“Ti fermi a cena?”, le chiese sottovoce.
Lei scrollò le spalle.
-If you
want it...-
A cena,
George non lasciò mai la mano di Natal’ja.
O sopra o sotto il tavolo, la
strinse per tutto il tempo.
Mangiarono
poco, e nel giro di mezz’ora Gee scattò in piedi, portò il suo piatto sulla
credenza, e brandì un vassoio che Alja non aveva notato.
-Greek yoghurt and buckwheat biscuits made by Sthàsja,
my mum- le spiegò, facendole l’occhiolino.
Yogurt greco e biscotti di grano
saraceno fatti da Sthàsja, la mia mamma.
-Questi li mangiamo in camera-
E le tese
la mano come i galantuomini, anche se con
una stretta cento volte più forte.
Lei gli sorrise, e lo seguì su per le scale.
-Tonight...-
cominciò Gee,
guardandosi le punte degli stivali.
-You will stay here... With me?-
Alja non ebbe dubbi.
-Of
course!-
Gli occhi
di Gee s’illuminarono.
-In my bed...?-
Lei si
morse le labbra, annuendo.
-The floor
is not very comfortable…- disse, in un
sussurrò.
-Dressed?-
azzardò allora lui.
Ecco,
quello era un dubbio che avevano entrambi.
Vestita?
-I
think it’s fine...-
Penso che vada bene...
Forse non
era il massimo, ma poteva andare.
George
s’infilò sotto le coperte, con un sorriso radioso.
Aveva
sistemato i biscotti sotto il cuscino, e, con la ciotola di yogurt in grembo,
aspettava che lei lo raggiungesse.
Quando lo
fece, se la strinse al fianco e giocherellò un po’ con i suoi capelli biondi,
che adorava, e poi scostò lievemente il lenzuolo, sotto gli occhi stupiti di
Natal’ja.
-I don’t sleep dressed,
Lui no,
non dormiva vestito.
Alja si
lasciò sfuggire un gemito.
E adesso come facevano?
Gee, al
contrario, pareva non essersi posto il problema.
Si
sbottonò la camicia senza toglierle gli occhi di dosso, e quando ebbe finito la
lanciò ai piedi del letto.
Rimase in pantaloni, perché quelli
era il caso di tenerli, forse.
Così
ritornò a letto, e, notando il lieve disagio di Natalys, che cercava di
nasconderlo, ma se lo stava letteralmente
mangiando con gli occhi, l’abbracciò forte, accarezzandole dolcemente i
capelli.
-Lys,
Maybe I love you in a different way, but I would do it even for her-
Vorrei essere tua madre... Perché
io ti voglio bene, da morire, e lei no. Non è giusto...
Forse io ti voglio bene in modo
diverso, ma vorrei farlo anche per lei.
Lei
affondò la testa nel suo petto, e il contatto con la sua pelle calda la fece
rabbrividire, perché era la prima volta che succedeva.
Le altre volte lui aveva la
camicia, le altre volte non erano sdraiati...
Era
bellissimo, però.
-Mi
racconti una storia?-
Gee
inarcò un sopracciglio, divertito.
-Una
storia? Oh, va bene...-
-Una
storia bella, bellissima-
-La nostra?-
-Quella
la conosco già...-
-Ti
racconto la più bella che conosco, allora... Sono sicuro che ti piacerà. C’erano una volta, nella città turca,
per la precisione tracica, di Adrianopoli, due plenipotenziari mandati a
firmare un trattato di pace.
Il primo,
russo, si chiamava Aleksej Fëdorovič Orlov, e rappresentava lo zar di
Russia, Nikolaj Romanov I, che a te non sta molto simpatico. Il secondo era
Abdul Kadyr-bey, il luogotenente del sultano ottomano Mahmud II.
Era il 14
Settembre 1829 e, tra le altre cose, avrebbero deciso
per l’Indipendenza della Grecia, il Paese più bello del mondo, la Patria del tuo Georgij. Io avevo otto
anni, quasi nove, ed ero appena tornato dall’Egitto...-
Natal’ja
socchiuse gli occhi, incantata.
-E’ una
storia a lieto fine, vero?-
Lui
sospirò, e le soffiò un bacio sulla guancia, che avrebbe dovuto essere un “sì”.
-Altrimenti non sarei qui...-
Quante volte ho
cercato il sole
Quante volte ho
mangiato sale
La città aveva mille
sguardi
Io sognavo montagne
verdi
Il mio destino è di
stare accanto a te
Con te vicino più
paura non avrò
E un po’ bambina
tornerò...
Io ti amo, mio
grande amore
Io ti amo, mio primo
amore
Quante volte ho
cercato il sole...
(Montagne Verdi,
Marcella Bella)
Note
Quanto ho
adorato scrivere questo capitolo?
Tanto,
davvero tanto.
Innanzitutto,
del duello tra John e Leonida per stabilire chi
e come avrebbe cresciuto George,
non avevo mai parlato.
In realtà
credo di averlo accennato nel Capitolo 74, ma molto
vagamente.
Comunque,
ora lo sapete ;)
Poi,
Julyeta e Natal’ja.
La solita
storia, ma agli esordi.
Alja
comincia a rendersene conto, e non si può dire che la prenda bene.
Sono
identiche nell’aspetto fisico, ma a Lys non basta avere i suoi occhi e i suoi
capelli, la sua pelle, la sua voce e il suo sorriso, vorrebbe anche il suo affetto.
Ma del
resto, da una che lascia crescere la figlia al
nipote -Nikolaj, che, anche se ha solo due anni in meno di lei, è sempre il figlio di suo fratello-, tra i soldati -all’accampamento degli
ussari-, cos’altro ci si può aspettare?
Non la
turba minimamente, il fatto che a nove
anni sia andata a Londra da sola
con un ragazzo più grande e con innumerevoli precedenti penali, senza dirle
assolutamente niente...
Certo,
succede lo stesso a Krasnojarsk con i Desztor, ma in quei casi è più o meno al corrente dei suoi
spostamenti... Almeno quando lascia la
città!
E invece
niente, nessuna reazione, anzi, le chiede anche com’è Londra.
Poi, il
suo primo incontro “ufficiale” con John Arthur, mezzo svestito, e con
Anasthàsja, più adorabile che mai.
E Gee è geloso di suo padre, visto come lo guarda Lys in un primo momento... ;)
La cena,
il dopocena, e la notte con Gee.
La scena
in cui lui si toglie la camicia, ecco... Non potevo non metterla, era troppo
“da loro”.
E mi
veniva da ridere, mentre la scrivevo...
Infine,
la storia che le racconta Gee.
Il Trattato di Adrianopoli.
Ovviamente, quale altra storia si può
raccontare, prima di dormire?
Domande retoriche… ;)
Spero che
vi sia piaciuto!
A presto
;)
Marty