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Autore: Scillutta    18/05/2012    1 recensioni
Questa lettera non ha senso e soprattutto non è una lettera d'amore. E' la storia di una ragazza a cui non le piace vivere nella sua realtà, non è per lei, non le va bene, si sente scomoda, e per questo sceglie di abbandonarla. E' la storia di una ragazza che ha il coraggio e la forza di prendere in mano la sua vita e di stravolgerla, di seguire il suo istinto e di essere felice. E' la storia di una ragazza che capisce che nessuno ha il diritto di cambiarla o di distruggerla. E' la storia di ognuno di noi.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non è una lettera d’amore
 

Sperando che tu capisca
 

Chi l’avrebbe mai detto che non mi sarei accontenta di te?
Di te che credevo perfetto.
Perfetto per me.
Incarnavi tutti i miei sogni, i miei desideri, i miei sospiri e le fantasie rubate al bacio della notte.
Tu che eri così bello ai miei occhi.
Tu che non deludevi mai, sempre impeccabile, senza errori, senza difetti.
Era così difficile non amarti, non volerti bene.
Sembrava la cosa più giusta e naturale del mondo. Sembrava che il Destino e Dio mi incoraggiassero a intrecciare la mia vita con la tua. ‘Che facessero il tifo anche loro per te?’
Chi avrebbe mai potuto rifilarti un NO?
Sarebbe stato del tutto sbagliato, ingiusto, quasi immorale.

Forse è stata questa tua maschera di “uomo perfetto”, di “principe azzurro”, di “uomo dei sogni” a farmi capitolare.
A ingannarmi.
A illudermi...
Ma ripensandoci, è stata colpa mia. Io ho preso quello che volevo prendere. Ho visto quello che volevo vedere. Ho sentito quello che agognavo sentire.
Perché ero fragile, nuda, vulnerabile. Il bersaglio ideale.
Non era vero. Non era reale.
Tu non lo eri. Non lo sei mai, con nessuno. Neanche con te stesso.
Sei solo una maschera. Tante maschere che usi quando ti fa comodo.
Ma devo complimentarmi: sono delle maschere perfette, calibrate al punto giusto.
Sei bravo a fingere, non c’è che dire.
E io sono brava a non vedere. A fare finta di non vedere.
Non volevo restare sola. Non volevo essere abbandonata. Avevo bisogno di qualcuno che mi stesse affianco. Volevo il contatto con la pelle, l’odore dei capelli, il sapore delle labbra, gli sguardi sfuggenti...
Avevo bisogno di un uomo che stesse con me, che mi amasse.
Così -all’inizio- mi sono accontentata.

Eri perfetto.

Ma devi sapere una cosa di vitale importanza: le bugie primo o poi vengono a galla, le maschere crollano, la verità si spalanca davanti a te e tutto si fa chiaro. E a quel punto non ti resta che abbassare la testa e andartene, come i vigliacchi e i traditori.
Non voglio sembrare scontata o banale, ma questo che sto per dire è una realtà inconfutabile e indiscussa, detta da qualcuno sicuramente più saggio di me:
La verità fa male.
Ti annienta, ti lascia senza difesa.
Solo cenere e polvere. Le promesse si frantumano. Gli errori vengono scoperti. Le tue barriere distrutte. E non resteranno che i residui di tutte le tue nefandezze che mostreranno, finalmente, al mondo quello che valevi, quello che eri. E quello che sei, tutt’ora.

…Sono sicura che un giorno capiterà anche a te.
Forse è già cominciato.
Io me ne sono accorta molto prima e troppo tardi.
Molto primarispetto agli altri, i quali ti credono ancora quello che tenti con tutte le tue forze di dimostrare: un eroe.
Ma non lo sei, in fondo al tuo cuore lo sai. E lo temi.
Ho visto la falsità e la viltà nei tuoi occhi, quando tu non te ne accorgevi, troppo preso a fingere qualcosa. Non mi sono stupita granchè… lo sospettavo e avevo bisogno soltanto di una prova.
In fin dei conti, è stato semplice.
Stai crollando, non sei più un bravo attore come una volta. Non hai più la stessa tenacia e costanza.
E questo ti costerà caro…
Troppo tardiperché, nonostante io sia l’unica a sapere quello che fingi di essere, l’ho scoperto quando ormai non c’erano vie d’uscita. Quando ero incastrata, bloccata, nella tua vita.
Anima e corpo. E questa è stata la mia condanna. O la mia maledizione, a te la scelta del nome più appropriato. In fondo non commetti errori, quindi sarai in grado di scegliere anche il termine più adatto. ‘La grammatica non era, forse, la tua punta di diamante?!’

È stato arduo andarmene. Anche se sapevo che era meglio lasciarti, la parte di me più sciocca e masochista, desiderava restare. Lo considerava una necessità.
Accontentandomi di uomo come te, ho rinunciato all’ambizione, alla speranza, alla fede nei miei sogni. Non puntavo più in alto perché avevo paura di pentirmene. ‘E se avessi trovato qualcosa -qualcuno- meno perfetto di te?’ O, peggio: ‘Se non avessi trovato nessuno? Che cosa avrei fatto?’ Sarei finita a rimpiangerti ogni giorno della mia vita e a rimproverarmi di aver voluto aspirare a qualcosa di più.
Non avevo il coraggio di rischiare. Di cambiare. Di dare una svolta alla mia esistenza così monotona e programmata. Abbandonare la vecchia strada per inseguire la nuova.
Non avevo il coraggio di seguire il mio cuore, il mio istinto che mi urlava a squarciagola di andare via… lontano da te e da tutto quello che comportava.

Stare con te mi aveva sfibrato… vuotato… non mi riconoscevo più. Dov’era finita la vecchia me, così intrepida, istintiva, fiduciosa e imprevedibile? Quella che viveva al momento, senza paure o paranoie. L’eterna bambina che non si scoraggiava mai, che riusciva a mettere un piede sempre avanti all’altro. Dov’era finita la sua forza d’animo? La sua voglia di vivere… la sua voglia di rischiare, di progredire… Dov’erano finiti i suoi sogni, le sue aspirazioni? Dov’era finita quella luce particolare che tutti ammiravano e che, in fondo, mi inorgogliva? Dov’era finita la sua ambizione? Dov’era finita il suo senso dell’umorismo? E la sua vitalità?
Dov’erano finiti i suoi colori?
Dov’erano finite le sue sfumature?
Ero invecchiata. Mi ero trasformata in ciò che più temevo e detestavo al mondo.
In una donna dai colori spenti, grigi, monotona, scoraggiata, stufa della vita. Annoiata. Vuota. Fredda. Cinica e indifferente. Resa amara dal mondo di bugie e ipocrisie che mi circondava e di cui facevo parte. Scontenta. Logorata dai rimorsi e dai rimpianti.
Ero totalmente e indissolubilmente annichilita.
Spenta.
Morta.
Cazzo, mi avevi distrutto.
‘Come ci sei riuscito?! Come?!’
Me lo chiedo ogni singolo giorno. E probabilmente, solo adesso ho iniziato a capire.
Avevi una presa troppo forte su di me. Mi controllavi, mi comandavi con la finta leggerezza di un sorriso e il veleno delle tue parole dolci e rassicuranti. Mi avevi in pugno. Potevi farmi fare quello che più ti aggradava. La tua personalità stava, poco a poco, annientando la mia.
E la cosa più incredibile è che nessuno dei due ne era consapevole.
Tu non ti accorgevi di questo sorprendente e corrosivo ascendente che avevi su di me.
Oppure eri particolarmente bravo a fingere il contrario. Conoscendoti, non sarebbe così strano.

‘Chissà cosa stai facendo in questo momento… Chi starai prendendo in giro… Cosa starai pensando di quella ragazza così “banale” che credevi facile da manipolare… Cosa avrai provato nel momento in cui me ne sono andata… Quando sono fuggita via da te e dal tuo mondo maledettamente perfetto… Cosa avrai pensato di quella ragazza che è scappata senza una spiegazione, senza un saluto…’
Sono domande inutili, che non riceveranno mai una risposta.
Però devo confessarti una cosa: non me ne sono andata subito.
Come un drogato non ha la forza di fare a meno della sua “roba”, anche io sono rimasta nella tua casa, appartata nel giardino, celata alla vista da una colonna costruita unicamente per nascondersi. Volevo vedere con i miei occhi la tua reazione.
Ero curiosa e agitata.

Ricordo tutt’ora il momento esatto in cui, con la tua solita eleganza, hai varcato la porta, posato la ventiquattrore sul ripiano dell’ingresso, allentato la cravatta con le tue dita lunghe e affusolate, che mi avevano sfiorato tante di quelle volte, avanzato per casa senza una meta precisa, versato dell’acqua fresca e cristallina in un bicchiere di vetro, ti sei disteso sul divano e hai chiuso gli occhi, sospirando.
Io ero, lì, dietro la colonna, preda dell’ansia e di un batticuore senza precedenti. Avvertivo distintamente il calore del sole sulla pelle, il rivolo di sudore che mi correva lungo la spina dorsale, le mani sudate, il respiro affannoso e il nodo che mi serrava con forza lo stomaco. Sentivo tutto, nonostante tutti i miei sensi e la mia attenzione fossero focalizzati sulla tua figura.
‘Chissà se ti accorgerai della mia assenza…’ pensavo.

Tu, nel frattempo, continuavi a restare immobile, disteso. Solo l’alzarsi e l’abbassarsi del petto mi facevano capire che non eri morto di crepacuore. A un tratto, hai aperto gli occhi lentamente, preso un bel respiro profondo e ti sei sollevato con compostezza dal divano. Ti sei guardato intorno, hai aggrottato la fronte e arricciato il naso, quasi avessi avvertito un odore sgradevole. Hai iniziato a girare per le stanze, alla ricerca di qualcosa… di qualcuno.
‘Ecco: è arrivato il momento’ mi dissi. Il cuore palpitava così intensamente, da crearsi quasi un varco tra le costole. Non pensavo a nulla, percepivo distintamente solo le pulsazioni che mi martellavano con ferocia la testa, seguendo il ritmo di un tamburo impazzito. Avevo la gola secca.

Ti sei aggiustato il ciuffo di capelli neri e grattato la testa. Hai chiamato il mio nome. Più volte, senza ottenere risposta eccetto quella dell’eco della tua voce. Ti sei agitato: non la smettevi di picchiettare il piede a terra e toccare il collo. Sei corso al piano di sopra per dare un’occhiata.
‘Tra poco capirà che l’ho lasciato’ rimuginavo dentro di me.
Sei sceso con straordinaria lentezza, come se stessi meditando su dove mettessi i piedi. Avevi un’espressione dubbiosa e interdetta. Hai sporto il labbro in fuori, come un bambino capriccioso a cui non va giù non capire qualcosa. Con uno sbuffo scocciato, hai tirato fuori il cellulare dalla tasca interna della giacca e inoltrato la chiamata rapida.
‘Sono il numero quattro sulle chiamate’ fu il mio primo irrazionale pensiero. Non l’uno, non il due, non il tre. Il quattro. Un’altra prova della tua considerazione nei miei riguardi. La tua fidanzata, e promessa sposa, era il numero quattro. ‘Che schifo’ fu il mio secondo pensiero.

Intanto, tu hai aspettato invano la mia risposta, non interrompendo neanche per un attimo, il ticchettio della scarpa sul parquet. Era l’unico rumore che invadeva la casa. Tutto era immobile, anche tu non fiatavi.
‘Non ti risponderà nessuno, mai più’ mi ripetevo come un mantra per ficcarmelo bene in testa. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Mai più. Io ero il numero quattro.
Quando è scattata la segreteria telefonica hai detto: «Maledizione, dove si è cacciata?!» Non imprecavi quasi mai, quindi ho dedotto che eri parecchio agitato. Hai riprovato a chiamare, a mandarmi messaggi... tornando punto e a capo. In preda alla frustrazione, hai lanciato il cellulare sul divano e ti sei buttato anche tu con lui.
‘Non è bello quando tutto non va come vuoi, eh?’ sogghignavo. Era la mia piccola rivincita: il tuo muro di perfezione e compostezza si era incrinato leggermente, e mi bastava. Per il momento. Prima, però, volevo assistere al glorioso momento in cui avresti finalmente compreso che me n’ero andata. Allora sì, che sarebbe stato tutto perfetto.

Sei rimasto steso con il braccio sinistro sugli occhi e il destro sulla pancia per non so quanto tempo. Stava tramontando, e il sole proiettava i suoi raggi rosso-oro sul pavimento, il tavolo di legno e il divano. All’improvviso ti sei sollevato e la luce del sole ti ha colpito in pieno viso: avevi gli occhi stanchi e le labbra piegate in una smorfia di amarezza.
«Cazzo!» esclamai, sussultando.
Ti sei girato repentinamente nella mia direzione, quasi mi avessi udito. Forse l’hai fatto davvero.
Mi sono immediatamente rintanata nell’ombra della colonna, con il cuore in gola. Avevo le gambe molli come la gelatina, così mi sono lasciata cadere a terra, strusciando la camicia verde acqua -quella che a te non piaceva, ricordi?- lungo la parete. Ho avvicinato le ginocchia al petto, circondandole con le braccia e facendomi piccola piccola. Mi sono passata la mano sugli occhi per schiarirmi le idee. Ho osservato il tramonto che tingeva di rosso sangue e porpora il cielo, creando uno spettacolo magnifico, adatto al mio umore. Sospirando, mi sono rigirata con cautela verso la finestra da cui potevo scorgere la casa e la tua presenza.
Eri ancora nella stessa posizione. Non mi avevi vista, fortunatamente. Anche tu ammiravi il tramonto con una strana nostalgia negli occhi che non avevo mai scorto sul tuo viso.

Per la prima volta, dopo tanto tempo, mi sei sembrato umano, sai? Senza più maschere a proteggerti dal mondo. Senza quell’aura di perfezione e controllo che ti caratterizzava. Senza finzioni. Senza filtri. Eri tu. Nuovamente, per la prima volta guardavo il vero te. La tua vera essenza.
Per un attimo, mi hai fatto vacillare. Per un attimo, non sono più stata sicura della mia decisione, di me, di nulla. Per un attimo, hai sconvolto tutte le mie convinzioni. Per un attimo, mi hai ridato la speranza.
‘Perché?’ ti chiederai.
Perché, per un attimo, mi sei piaciuto. Per un attimo, e niente più, ti ho amato come non l’ho mai fatto.
Non potevo permettermelo. Nel più assoluto dei modi. Non potevo farmi ingannare da un solo misero istante. Non potevo cambiare decisione per un attimo fuggente. Non potevo cambiare la mia vita per un veloce momento.

Non distoglievo lo sguardo dalla tua figura. Non ne avevo la forza. Volevo godermi questa scena così unica e imprevista.
Eri bello, finalmente. Di una bellezza sana, genuina, autentica.
Mi sono venute le lacrime agli occhi e, per un secondo, ho visto tutto sfocato. Mi sono arrabbiata con me stessa. ‘Perché tutto a un tratto piangevo? Cos’era cambiato?’ Non potevo essere debole e lasciarmi intenerire. ‘Dov’era la mia determinazione?’
Eppure,piangevo. Non a dirotto, non montarti la testa. Solo una piccola e solitaria lacrima ha solcato la mia guancia, lasciando una scia di acqua salata. Ho sospirato e, solo allora, mi sono girata e, invece che guardare te, mi sono goduta il tramonto. Volevo lasciarti quel momento solo per te. Neanche io avevo il diritto di rubarti quell’istante. Era solo tuo e di nessun’altro.
Insieme, senza che tu lo sapessi, abbiamo osservato il movimento del Sole e il suo definitivo declino nelle tenebre. È stata una pausa alla nostra vita. Alle nostre scelte. Ai nostri problemi. Abbiamo condiviso, sempre per la prima volta, qualcosa di semplice e magico.

So per certo che cosa starai pensando ora. Il motivo delle mie lacrime. Beh, all’inizio neanche io lo comprendevo. Non capivo questo mia debolezza a una tua “debolezza”, definiamola così. Mi conosci -o almeno spero- e sai benissimo che non sono una dalla lacrima facile o che si fa intenerire per una sciocchezza. Quindi, la mia motivazione era seria.
La risposta a cui sono giunta è che ti ho “visto”. Ho avuto la prova che non sei solo una facciata, che dietro a quella corazza dura come il diamante c’è qualcuno… qualcuno di reale. Ho capito che la tua corazza poteva essere molto fragile, capace di sfuggirti e rompersi in mille pezzi, per una distrazione.

Da un lato, mi sono seriamente sorpresa: nell’ultimo periodo pensavo che non ci fosse più niente in te. Che fossi solo pelle, ossa, organi, tessuti. Freddo. Vuoto. Senza emozioni. Che tendessi più ad essere una macchina, che un uomo. Quando trattenevi tutto dentro mi facevi incazzare come una iena. Non capivo -e tuttora non ne sono sicura- perché ti sforzassi tanto di essere perfetto. Perché non ti scomponevi mai, sempre rigido e tranquillo. Non ti alteravi mai. Non eri mai pienamente felice. Non dicevi mai qualcosa in più o in meno. Non urlavi. Non piangevi…
Non esternavi niente. Eri impenetrabile. Mi frustava il tuo atteggiamento. Non lo sopportavo, era troppo per me.
Al contrario, vederti così fragile, mi ha reso felice. Ora non pensare che goda delle pene altrui, non è questo che intendo. Diciamo che, ero orgogliosa di te… e di me.

Orgogliosa di te perché non eri una macchina. Anche tu ti lasciavi andare. Anche tu, come tutti, per un momento, non avevi paura di mostrarti, di aprirti, di accettarti, di goderti. Era una prova di coraggio. Un coraggio che pensavo non avessi.
Orgogliosa di me perché ho provato a me stessa di non essere stata una sciocca a credere in te. A restarti accanto tutto quel tempo, nonostante ogni cosa. Orgogliosa di me perché non ho mai smesso di sperare, in un angolo minuscolo e remoto della mia anima, che tu potessi essere migliore. Meno quello che fingevi di essere e più te stesso. Che fossi una brava persona, con le sue debolezze e paure. Come tutti, vittima di questo mondo. Che avessi ancora qualcosa da mostrare.
E in quell’instante me lo stavi mostrando.
Allo stesso tempo, ero anche amareggiata. Ora che finalmente avevo la prova della tua umanità, da quel momento avrei sempre saputo come sarebbe potuto essere. Come le cose sarebbero potute andare. Se non fossi stato così cieco ed egoista… Se non mi avessi ingannata per tutto quel tempo… ‘Perché tu mi hai ingannata, questo lo sai, vero?’

Ecco cosa ho provato guardandoti quel pomeriggio, illuminato dai raggi del sole. Ti sei schiarito. Ti ho potuto analizzare meglio. Non lo dimenticherò mai. Lo sento. Ho la tua immagine impressa nella radice celebrale, marchiata a fuoco. Questo ricordo lo conserverò con cura. E non lo racconterò a nessuno, promesso. Anche se mi dispiace un po’.

Quando, ormai, il Sole avevo abbandonato temporaneamente la Terra e le prime stelle macchiettato di puntini luminosi il firmamento, mi sono voltata verso di te e ho scosso la testa, sconsolata. La maschera era tornata più forte di prima e tu eri sparito.
Ti sei alzato dal divano con uno sguardo serio e risoluto negli occhi. Ti sei fermato vicino al tavolo, cercando con gli occhi una lettera che non c’era. Cercando una prova al tuo incomprensibile presentimento.
‘Hai capito finalmente’ mi dissi. Era arrivato il momento. Ora avrei potuto assistere alla tua “rovina”. Avresti compreso, una volta per tutte, che non eravamo fatti l’uno per l’altra. Che eravamo troppo distanti. Che non mi conoscevi affatto. Avresti compreso che ti avevo lasciato. Non tu, ma io. Ero assurdamente tesa: i miei occhi erano impazienti di guardarti mentre poco a poco, ti rompevi, ti sgretolavi, fino a quando non sarebbe rimasto niente di te.
Fino a quando non saresti morto dentro, come me. Avresti provato con la tua pelle come ci si sentisse.
In quel momento volevo il tuo dolore. Sembra molto sadico e crudele questo pensiero, ma era quello che pretendevo. Ora, per capirmi meglio, devi tenere conto di vari fattori che giustificano quella mia momentanea inclinazione a voler vederti morire tra le peggiori torture.

Punto primo: ero ancora incazzata come una bestia con te per tutto quello che mi avevi fatto vivere e di cui ti ho parlato abbondantemente prima.
Punto secondo: volevo che provassi come ci si sentisse ad essere lasciati, abbandonati.
Punto terzo: volevo fartela pagare.
Punto quarto: era la mia cazzo di vendetta, che aspettavo con ansia da tempo.
Punto quinto: assistere a quel tuo momento così “magicamente zuccheroso” mi aveva dato particolarmente fastidio: avevo il bisogno che il mio ultimo ricordo di te fosse quello con cui ero abituata ad averci a che fare. La tua parte peggiore. Così mi sarei sentita meno in colpa e a tutti quelli che mi avessero chiesto la ragione del mio “insensato” gesto, avrei risposto per le rime perché avrei avuto delle prove valide del mio “insensato” e “inconsulto” gesto.
Quindi erano delle ottime motivazioni.

Quando ti sei reso conto che non c’era nessuna lettera ad attenderti, sei rimasto con la mano sul tavolo per molto tempo a rimuginare.
Mi domandavo cosa ti frullasse in testa. A quali conclusioni fossi giunto. Se avessi pienamente capito. Se mi stessi giudicando o meno. Se, invece, non ti toccava minimamente.
Appena hai sollevato lo sguardo verso la finestra, non ho letto niente nei tuoi occhi. Non traspariva alcun tipo di emozione, quasi come se non ne provassi affatto. La tua faccia era una maschera di pacato autocontrollo che non mi permetteva di scorgere al di là di essa, per intuire veramente cosa stessi sentendo. Ti sei avvicinato alla finestra con passo cadenzato, senza fretta, sempre mantenendo lo sguardo fermo sul panorama del tuo giardino. Tutta la tua attenzione era focalizzata sull’assimilare ogni dettaglio di quelle piante di cui non ti eri mai preoccupato. Hai allungato il braccio verso la tenda con l’intenzione di chiuderla.
‘No, no’ mi ripetevo senza un’apparente ragione. Scuotevo la testa e i capelli mi finivano negli occhi.

Prima di chiudere definitivamente la tenda, hai sospirato un secondo impercettibile e spostato gli occhi sulla colonna dietro alla quale mi nascondevo da un buon pezzo. Dopo di che, con un gesto secco e deciso hai tirato la tenda, celandoti al mondo e a me.
Ti confesserò: sono rimasta intontita per un po’, con un asfissiante ronzio in testa che non riuscivo a cogliere. Un attimo prima che le tende venissero chiuse, ho scorto un’ombra attraversare il tuo viso. Non sono riuscita a darle un nome. Penso che fosse solo una parvenza di emozione alla quale mi sono aggrappata in tutto questo tempo. Il tuo ultimo istante di umanità che mi concedevi di guardare.
Voltando la testa verso l’orizzonte ho visto solo un cielo che si faceva, minuto dopo minuto, sempre più nero e scuro. Calava il sipario della nostra storia. Si concludeva un capitolo -o meglio dire, dei capitoli, no?- della mia vita. Ora non mi restava che alzarmi, mettere un piede dinanzi all’altro e andarmene per la mia strada. Lontano dalla tua nociva presenza.

Ho fatto forza sulle ginocchia e, aiutandomi con le mani, mi sono alzata faticosamente perché avevo le gambe indolenzite ed addormentate, a causa della posizione scomoda a cui le avevo sottoposte. Presa la mia valigia blu, mi sono diretta verso il portoncino verde scuro. Con un’ultima occhiata alla casa, ho infilato la chiave, ho girato e spinto il cancello all’esterno, fuori da lì. Non mi sono voltata più, preferivo non indugiare in ripensamenti, nostalgie, malinconie e storie simili. Avevo bisogno di uno stacco netto e definitivo. Volevo recidere il legame che mi univa a te, a quella casa, a quel mondo e alla vecchia me.

Per molto tempo mi sono sentita confusa, arrabbiata e ferita dal tuo ultimo atteggiamento. Come una prima donna egocentrica e che vive per il melodramma, mi ero aspettata qualcosa di più… qualcosa di più struggente, di più disperato, drammatico, con più pathos. Mi aspettavo che cadessi bocconi al suolo, vinto da un dolore indescrivibile e illogico, divorato dai rimorsi. Che urlassi il mio nome con le lacrime agli occhi e con voce roca e strozzata, per via dell’emozione devastante che ti stava sconvolgendo.
Quindi puoi immaginare benissimo la mia delusione mista a un’abbondante dose di insoddisfazione, quando ho compreso che tutto il film mentale che mi ero creata fosse soltanto una stupida fantasia da adolescente tradita, che di me, probabilmente, te ne importava così poco da rimanere indifferente a una mia dipartita e che non avrei potuto assistere alla tua caduta nel baratro della sofferenza.
La mia uscita di scena non era andata come nei miei piani. Anzi, a dirla tutta, si era rivelata un fiasco su tutta la linea. Anche quando non c’eri riuscivi a sminuirmi sempre, a rendermi sempre inferiore a te. Non so come tu faccia… forse te l’ho lasciato fare io…

Per molto tempo ho rimuginato a lungo sulla tua reazione, senza arrivare a una spiegazione valida. Quella tua non-reazione -è meglio chiamarla così- mi aveva scombussolata. Non ero preparata ad affrontare questo. Non l’avevo considerata un’ipotesi da prendere in considerazione e, come al solito, mi sbagliavo.

Per molto tempo ho cercato di non pensare a te, a quello che avevamo passato. In quel periodo ho fatto così tante cose che, oggi, ripensandoci a mente lucida, mi chiedo come facessi ad avere la forza per alzarmi la mattina. Era il mio modo per distrarmi, per non indugiare in scomodi pensieri. Mi sommergevo di lavoro, attività, impegni, progetti… non avevo più un minuto libero per riposare, rilassarmi, pensare un po’ a me. Ed era proprio questo il mio obiettivo.

Mentre ti scrivo questo, mi vergogno della mia debolezza. Non vorrei raccontarti ciò, ma ho deciso che devi sapere la verità, anche se non te la meriti. Con queste parole spero che tu possa capirmi, che tu possa conoscermi una volta per tutte, che tu ti possa guardare con i miei occhi. Naturalmente, questo lo saprai leggendo questi fogli e se sei arrivato fin qui mi complimento con te: sei migliorato. E, se invece, a quest’ora queste pagine hanno trovato la strada per la pattumiera già da un bel pezzo, pazienza. Io ci ho provato, almeno.

Ora, però, va meglio. Grazie ad un aiuto inaspettato, ho imparato a non soffermarmi su tutti i “se” e i “forse” che quotidianamente mi punzecchiavano il cervello come uno sciame di zanzare. Sto ricominciando a godermi le giornate e a comportarmi come una volta. La vecchia “me” si sta risvegliando dopo un lungo letargo, e sono serena e contenta.

Devo ammettere che è stato incredibilmente impegnativo. Non me l’aspettavo. Prima di prendere la mia drastica decisione ho riflettuto a lungo con logica e razionalità, vagliando tutti i pro e i contro. All’epoca sapevo benissimo che era più facile a dirsi che a farsi, ma non credevo fino a questo punto.
Versavo in condizioni peggiori di quanto supponessi.
Non era affatto un eufemismo dire che mi avevi svuotato.
C’è voluta tutta la mia determinazione e forza di volontà per lasciarti definitivamente alle spalle. Il mio attaccamento nei tuoi confronti era qualcosa di folle e insensato. Mi ero legata a qualcosa che mi faceva male, e nonostante ne fossi a conoscenza, non riuscivo a staccarmi.
Come si dice: amiamo quello che ci fa soffrire. Che ironia, no?

Adesso lavoro, mi occupo di fotografia e disegno. Non immaginavo minimamente che sarei finita col fare ciò. Da piccola credevo che sarei andata all’università per studiare scienze, biologia, zoologia, botanica… e poi chissà. Ora, invece, mi ritrovo a scattare fotografie e disegnare quello che mi circonda e, la cosa buffa, è che sono felice. Mi sento realizzata. So che questo è quello che devo fare. Un giorno mi piacerebbe aprire uno studio tutto mio e girare il mondo alla ricerca di paesaggi straordinari da fotografare.  
Non so se tu approveresti. Sei sempre stato fissato con l’idea che sarei dovuta diventare un avvocato come te. Penso di non avertelo mai detto, ma a me la giurisprudenza fa letteralmente cagare. C’est la vie.

Devo dirti che non ho la minima idea del perché ti stia raccontando questi dettagli… cosa ti importa, in fin dei conti? In tutti questi mesi non mi hai mai cercato, non ti sei mai fatto sentire, quindi suppongo che non te ne freghi niente. Va bene così.
Sapere che non conto nulla per te è meglio. Mi dà la conferma ogni giorno di aver fatto la scelta giusta, quella più salutare.

Spero ardentemente di perdonarti un giorno. Ti sembrerò una bugiarda, ma non voglio dimenticarmi di te. In un modo e nell’altro, hai fatto parte della mia vita, e ho capito che non bisogna cancellare niente di quello che si è vissuti. Non servirebbe a niente. Dal passato si impara. È quello che sto facendo io. Ho capito anche che il passato resta passato. Non ha senso vivere nei ricordi. Ci si dimentica del presente e non si pensa al futuro.
Quando ti ho lasciato, io vivevo nel passato. Pensavo e ripensavo a quello che avrei dovuto fare, a quello che non avrei dovuto fare, a cosa avrei potuto fare meglio, a cosa avrei potuto dire… Solo in seguito ho compreso che non serviva a niente rimuginare. Ormai il danno era fatto, non mi restava che apprendere dai miei errori e tentare di non emularli di nuovo.

Spero che tu cambia, per il tuo bene. Saresti più simpatico a molte persone. Non avere paura, lasciati andare. Mostrati. Straccia quelle tue maledette maschere, rompi le tue catene. Ti sentirai meglio. Ti farai dei veri amici. Sarà tutto più autentico. Solo così potrai amarti e di conseguenza amare anche qualcuno.  
Questa interminabile lettera è arrivata alla fine. Non sono certa che tu l’abbia letta tutta, che l’abbia fatto solo a metà o che addirittura non l’abbia aperta proprio. Ma avevo voglia di scriverti. Ho seguito il mio istinto. Sai, dovresti farlo anche tu.

Non mi rintracciare. Non chiamarmi. Lasciami stare. Lasciami andare. Non ti ho perdonato ancora e non ho dimenticato. Il ricordo è più vivo che mai, e molte volte fa male. Non mi sono ripresa del tutto. Ho bisogno di tempo e ho bisogno che tu non ti faccia vedere. Sei un capitolo chiuso, per ora. E io lo sono per te. Non c’è niente su cui discutere. Un giorno lo faremo, quando entrambi saremo più grandi, maturi, saggi, meno avvelenati l’uno dall’altra. Quando il tempo avrà lenito le ferite. Almeno le mie. Non so se tu ce l’abbia. Ci incontreremo un pomeriggio, al tramonto, come l’ultima volta. Vicino a un bar, seduti a un tavolino, l’uno di fronte all’altro, sorseggiando un caffè. Non prima. Lo sentiremo quando sarà il momento giusto.

Ora, è arrivato il momento di salutarti. Questa lettera è diventata più lunga di quanto mi aspettassi. Ha vita propria, si è scritta da sola. Io sono stata solo lo strumento.
Quindi, ciao.
Ehm, non so se va bene. Non so mai cosa scrivere alla fine. Penso che “ciao” vada bene, sì.
E poi, sù, di certo non l’hai letta tutta.
Perciò, farò a modo mio.
Hasta la vista gilipollas

La tua carissima,
ex fidanzata senza nome e senza volto





 

Sproloqui Scilluttosi:
questa luuunghiiissima lettera non è dedicata a nessuno in particolare. Mi sono ritrovata così, senza un preciso motivo, a scriverla. In questo fantomatico “Lui” ognuno può vederci chi vuole, anche se stesso con le tutte le proprie paure, insicurezze, viltà, maschere… Quindi se vi stavate chiedendo chi era quello stronzo che ha spezzato il mio povero cuoricino, vi stavate sbagliando -sono io che spezzo i cuori degli uomini… *ride da sola delle sue cazzate*- Ecco tutto.                                                                                                                                                                            
Scillutta vi saluta in tutte le lingue che conosce.
Ciao. Bye bye. Hasta luego. Au revoir.

 

 

  
   
 
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