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Autore: Satomi    18/05/2012    3 recensioni
[Jolanda, la figlia del Corsaro Nero - What if? -]
Una storia č un mazzo di carte, un susseguirsi di personaggi e situazioni: c’č chi osa, chi resta sul sicuro, chi si scopre all’ultimo, chi tende a restare nell’ombra.
Per cambiare una storia non serve stravolgerne l’inizio e la fine.
Basta rimescolare le carte in tavola.
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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5. Confronti e sotterfugi

 


“Il duca di Wan Guld ha lasciato un figlio!”
“Fulmini! Avete un fratello?”
Queste le parole che fuoriuscirono dalle labbra di Morgan e Carmaux, rimasti sbigottiti a una simile rivelazione.
“Fratellastro, in verità” precisò il figlio del Corsaro Rosso, facendo così scattare la signora di Ventimiglia. “Enrico!” I suoi begli occhi mandavano bagliori irritati.
“Suvvia, zia, non è forse così? Vostro padre non lo ebbe certo dalla sua moglie legittima, ma da una marchesa messicana; per questo gli fu imposto un titolo diverso da quello che in circostanze diverse avrebbe potuto portare.”
“Non nego nulla” ammise Honorata. “Ma per me tutto questo non ha mai contato.”
“Non era lo stesso per tuo padre” aggiunse il conte di Ventimiglia, e sua moglie annuì tremante. “Ai suoi occhi Luis è sempre rimasto un... un bastardo” disse, la voce che assunse un tono ancora più amaro nel pronunciare l’ultima parola. “Un errore che aveva rischiato di comprometterne l’onore. Fece in modo che non gli mancasse mai nulla, questo è vero, ma lasciò che crescesse quasi in segreto, lontano dalla sua stessa madre. Lei era molto giovane a quei tempi, e suo fratello le stava combinando un importante matrimonio; se l’istoria fosse uscita fuori, sarebbe scoppiato uno scandalo.”
“E le nozze sarebbero andate a monte” concluse Morgan.
“Come in effetti accadde, seppur per altri motivi. Sarebbe passato altro tempo prima che la marchesa riuscisse a sposarsi.”
“Fino a quando durarono i vostri rapporti col conte?”
“Il mio ultimo incontro con lui risale a diciotto anni fa” rispose Honorata. “Ricordate quando la Folgore attaccò il galeone su cui ero imbarcata? Stavo tornando a Maracaibo da Veracruz, dove avevo fatto visita a mio fratello; purtroppo non mi era concesso di vederlo spesso, mio padre era molto severo a riguardo. Lui, invece, si recava a trovare Luis con una frequenza maggiore, prima a Coro e poi a Veracruz, quando lo fece trasferire lì; ma non saprei dire i motivi che si celassero dietro quelle visite.”
Il conte di Ventimiglia scosse il capo. “Io invece riesco facilmente a immaginarlo” disse poi, gli occhi che lampeggiavano di ira malcelata. “Gli serviva qualcuno da riempire del suo odio, che si facesse carico di vendicarlo qualora io e i miei fratelli fossimo riusciti a raggiungerlo.”
“Emilio, no!” protestò la donna. “Non ricominciare con questa...”
“E perché?” scattò l’ex-Corsaro. “In nome di Dio, Honorata, pensaci! Se davvero il primo obiettivo di tuo fratello fosse l’eredità, non avrebbe esitato a farci sapere della cattura di Jolanda per ricattarci! E invece la tiene nascosta, perché dentro di sé non ha alcuna intenzione di restituirle la libertà! Vuole vendicarsi di me attraverso di lei!”
“Se davvero è così” intervenne Carmaux, che era rimasto colpito dalle parole del suo antico comandante, “non c’è un minuto da perdere. Quel maledetto governatore sarebbe capace di farla sparire.”
“Attacchiamo subito, capitano Morgan” aggiunse Pierre le Picard. “Prima che ci renda impossibile ritrovarla.” L’almirante guardò pensieroso fuori da un sabordo, tirandosi nervosamente la folta barba nera. Poi i suoi occhi tornarono a posarsi sulla contessa, racchiusa nell’abbraccio del marito; ripensava al piano che lei stessa gli aveva proposto. “Siete certa che il presentarvi a lui possa avere un qualche risultato?” domandò.
“ No” replicò con forza l’ex-Corsaro, stringendo ancora di più la sua sposa. “Mia figlia è nelle mani di quell’uomo, non lascerò che si prenda anche mia moglie!”
“Ti prego, caro” mormorò Honorata, il capo posato sul petto di lui. “Occorre qualcuno che porti il messaggio di Morgan.”
“Quel qualcuno non sarai tu!”                            
“Ma non capisci? Io sola posso tentare di far ragionare Luis, d’impedirgli di seguitare nella sua pazzia!” La donna si scostò per fissare negli occhi il suo consorte; la preoccupazione per le sorti della figlia non mascherava la sua determinazione. “Lasciami andare, Emilio: sono sua sorella e una nobildonna. Non oseranno farmi del male.” Il conte continuava a scuotere il capo, ma un buon osservatore si sarebbe accorto subito della mera meccanicità di quel gesto: gli occhi indicavano che, seppur con lentezza e a malincuore, il signore di Ventimiglia si stava arrendendo all’unica persona davanti a cui, nell’arco intero della sua esistenza, aveva ceduto le armi.
“Se c’è un altro modo…”
“Non credo, signore” intervenne piano Morgan. “Io medesimo avevo intenzione di servirmi d’un ostaggio per portare il mio messaggio al governatore; grazie alla vostra signora avremmo qualche speranza in più. E credetemi” aggiunse mentre si avvicinava al suo antico capitano, “desidero quanto voi che la contessa non sia messa in pericolo più del necessario.”
Se avesse dato retta al suo cuore, mai il signore di Ventimiglia avrebbe lasciata andare la sua consorte, sia pure sotto la protezione dei filibustieri; ma non era quello il momento di farsi sopraffare dai sentimenti. “Sia come vuoi, dunque” mormorò, le mani della moglie che lente scivolavano via dalle proprie. “E Dio non voglia che il bastardo di Wan Guld sia anche la tua rovina.” Honorata frenò l’irritazione, limitandosi a stringere le labbra. “Il biglietto, signor Morgan” disse poi.
“Subito. contessa.” Per qualche istante si udì una punta di penna d’oca stridere sulla carta, il tempo necessario all’almirante  per scrivere un messaggio conciso ma chiaro. “Tenetelo con voi e badate a consegnarglielo personalmente, se vi sarà concesso” disse poi porgendolo alla donna. “Mi fido poco degli intermediari.”
“Lo farò” confermò lei. “Ritengo sia giusto partire subito” aggiunse dopo aver gettato un’occhiata al di fuori del sabordo; l’oscurità era ormai calata da un pezzo.
“Sì, non vi è un solo istante da perdere. Pierre le Picard!”
“Capitano.” Il luogotenente della nuova Folgore fu lesto a rispondere al richiamo.
“Corri in coperta e ordina di calare la barcaccia; vi salgano otto marinai, tutti ben armati e pronti a salpare.”
“Sarà fatto.” E le Picard lasciò in gran fretta il quadro.
“Capitano Morgan...”
“Parla, Carmaux.”
“Chiedo di poter accompagnare la contessa.”
In quel caso tutti i presenti furono d’accordo nell’esprimere il proprio disappunto.
“Siete sopravvissuto a stento a un agguato e già volete tornare allo scoperto?” fece Enrico. “Ammiro il vostro coraggio, ma non penso sia il caso di esporvi nuovamente a un sì grande pericolo.”
“Mio nipote ha ragione” intervenne l’ex-Corsaro, una sua mano che si posava sulla spalla sana del filibustiere. “A Maracaibo staranno ancora cercandoti.”
“Avrei preso le dovute precauzioni, signor conte. Inoltre...” E qui la voce di Carmaux si ridusse a un sussurro, in modo da farsi udire solo da chi più gli era vicino. “...credevo sareste stato più tranquillo, con un uomo di vostra fiducia al fianco della signora.” Il gentiluomo italiano sospirò e scosse il capo senza proferire parola: non dubitava della sincerità del suo antico braccio destro, ma al contempo aveva compreso il motivo primo che si celava dietro la proposta di seguire Honorata. E l’aveva compreso anche Morgan, a giudicare dalle parole che gli sfuggirono dalle labbra una volta solo.
“Ora come ora sarebbe meglio occuparsi dei vivi, e non già dei morti.”
Uno scricchiolio lo costrinse ad alzare il capo dalle carte che stava guardando: s’era sbagliato, il conte era ancora nella stanza, la mano stretta con forza sul bordo della porta. “Credevo foste salito anche voi” mormorò l’almirante con un certo imbarazzo. L’altro non rispose, limitandosi a fissarlo con intensità; e fu proprio quello sguardo, in cui poteva leggersi facilmente una nota di rimprovero, a spingere Morgan a parlare ancora. “Non sono indifferente all’idea che un mio uomo di fiducia sia in mano nemica” disse difatti con voce accorata. “Ma guardiamo in faccia alla realtà: gli spagnuoli non esitano ad appiccarci quando si presenta loro l’occasione, e voi lo sapete meglio di me.” Alludeva certo ai fratelli minori del signore di Ventimiglia, che al ricordo strinse con forza i pugni.
“Torniamo in coperta, signor Morgan. Ci attendono."

Entrambi misero piede sulla tolda nel momento in cui Honorata era in procinto di salire sulla barcaccia. “Tutto è pronto” mormorò la contessa, le mani strette sul seno come a volerlo trattenere.
“Sii prudente” le disse il marito, accogliendola tra le braccia un’ultima volta.
“Questo è un avvertimento che dovrei rivolgerti io.” La signora di Ventimiglia sorrise. “Non inquietarti, vi sarà una persona di fiducia assieme a me.”
“Ch’ulel?” intervenne con un certo stupore Carmaux, che vide l’indigeno e sua sorella farsi avanti. “Vi era anche lui nell’attacco in taverna. E se lo riconoscessero?”
“Oh, non sarà lui a venire, ma Chtilali.”
“La ragazza?” Il vecchio marinaio squadrò con occhi dubbiosi la figura sottile della fanciulla, che subito affiancò la padrona. “E di che aiuto può esservi?”
“Vi assicuro che in caso di emergenza saprà difendere se stessa e anche la mia persona.” Chtilali sorrise a quelle parole, nascondendo tra le pieghe della veste qualcosa di sottile e acuminato. Carmaux non sembrava ancora convinto, ma il cenno di assenso del conte lo rassicurò in parte.
Le dita sottili di Honorata si strinsero attorno ai bordi della biscaglina, prima che il marito l’aiutasse a scavalcare la fiancata della Folgore per posare i piedi sulla scala di corda. “Non temere. Tornerò” sussurrò alle orecchie di lui, la cui mano ancora non si decideva a lasciarla andare.
“Lo spero, come spero che tutto questo non si riveli una pazzia” replicò con amarezza il conte.
“Abbi fiducia in me.”
“Non sei tu a preoccuparmi, ma tuo fratello. È il sangue di Wan Guld a scorrere nelle sue vene.”
“Come nelle mie, ma questo non t’impedì di amarmi.” Le labbra della contessa intervennero a troncare sul nascere una probabile replica. Fu l’ultimo saluto che l’ex-Corsaro ottenne dalla sua sposa prima di vederla inghiottita dall’oscurità, interrotta solo dalla lanterna che uno dei marinai sulla barcaccia teneva alto. Chtilali seguì la padrona, lesta come un gatto.
“Fulmini!” esclamò a mezza voce Carmaux, che a fianco dell’ex-Corsaro e di Morgan seguiva l’imbarcazione allontanarsi sempre più. “La signora ha avuto coraggio, ad andarsi a gettare nella tana del lupo!”
“Speriamo che le sue facoltà persuasive ci siano di qualche aiuto” disse l’almirante. “Recuperare la signorina senza spargimento di sangue sarà tanto di guadagnato.”
“Non per tutti” intervenne Enrico, gli occhi nerissimi come quelli dello zio che percorrevano pensosi le figure di alcuni marinai: sui loro volti dai duri lineamenti non v’era timore per la battaglia sanguinosa che poteva tenersi di lì a pochi giorni, quanto eccitazione. E avidità pel bottino che avrebbero guadagnato in caso di vittoria.
Morgan alzò le spalle. “Ci rifaremo in altri modi” disse semplicemente. L’ex-Corsaro badò poco a quei discorsi, avvicinandosi gradualmente al suo antico braccio destro, immobile coi gomiti sulla fiancata e gli occhi persi all’orizzonte.
“Carmaux...”
“Sì, signor conte?”
“Se vi è anche solo una remota speranza di poter recuperare Wan Stiller, ti giuro che farò quanto è in mio potere per tirarlo fuori di lì... vivo.”

*


Il viso lentigginoso e chiazzato di fuliggine che sporgeva dalle imposte non appariva molto incoraggiante. “Sì?”
“Vi ho portato il...”
“Non qui”  soffiò la donna, spiandosi intorno come se stesse commettendo una qualche azione illegale. “La porta sul retro, svelta.” Nora non riuscì a trattenere uno sbuffo di frustrazione, ma decisa a non avere storie lasciò la facciata principale dell’abitazione e svoltò nell’angolo, evitando più d’un mucchio d’escrementi; il piccolo uscio era ancora sbarrato, segno che la padrona di casa non si faceva scrupolo a farla attendere. Un esattore delle tasse sarebbe stato trattato meglio.
“Bah!” sospirò la guaritrice, gettando un’occhiata al suo fianco; un cane di taglia media, il muso a macchie bianche e marroni, la fissava coi suoi occhi liquidi e più intelligenti, la donna ne era certa, di gran parte delle persone con cui aveva a che fare giornalmente. “La tua padrona non ti tratta granché bene.” L’animale si stiracchiò in tutta la sua lunghezza, esponendo in misura maggiore i fianchi smagriti; Nora gli avrebbe volentieri dato qualcosa, ma non aveva nulla di commestibile con sé. “Finalmente” disse al vedere la cliente aprire la porta. “Stavo per andarmene.” La donna esibì una smorfia irritata, le mani affondate in uno strofinaccio non troppo pulito. “L’avete?” chiese a mezza voce.
“Prima il mio compenso.”
“Fate la difficile, ora?
“Come voi la maleducata.” La cliente borbottò qualcosa che gli orecchi di Nora non riuscirono ad afferrare, ma le sue mani tolsero di tasca un sacchettino; la guaritrice contò le piastre con una lentezza che l’altra giudicò esasperante, senza tuttavia lamentarsi. Solo allora le porse un piccolo contenitore in terracotta. “Una tazza al giorno per quattro giorni.”
“E funzionerà?”
“Potrebbe.” Gli occhi sbiaditi della donna, stretti tra le rughe, sembrarono farsi ancora più piccoli. “Come sarebbe a dire?”
“L’infuso che vi ho dato aiuterà vostro marito a risvegliare le sue... doti, ma non posso garantire altro. Io non faccio sortilegi, né miracoli: per quelli dovete rivolgervi a una vera strega.” Detto questo Nora le volse le spalle senza tanti complimenti. “E date da mangiare a quella povera bestia.” Dietro di lei il cane uggiolò.
“Non sono affari vostri.”
“Buona fortuna col vostro consorte, signora.” La signora, se tale poteva essere chiamata, lanciò al suo indirizzo una sfilza di imprecazioni prima di rintanarsi in casa con uno scatto dell’uscio.

Era appena passato il tramonto, e gradualmente la folla in Plaza Mayor  tendeva a diradarsi. Nora procedeva a capo chino, ben lieta di non doversi muovere a gomitate come invece era richiesto quando usciva in pieno giorno. Si strinse nel mantello, lasciandosi scivolare via come acqua i chiacchiericci vari che le cadevano intorno; ma alcuni di essi le restarono ancorati alla mente, come uncini acuminati.
“...forche...”
“....qualche canaglia...”
Uncini  dolorosi.
“Di cosa parlate?” s’azzardò a chiedere a un paio di uomini che discutevano a poca distanza da lei, nei pressi d’una bottega del pane. Il più vecchio dei due ridacchiò. “Siete cieca, forse? Non vedete la cravatta che penzola dal capestro?” Nora deglutì, volgendo il capo lì dove un dito calloso e avvizzito indicava: era vero, qualcuno salito sulla piattaforma delle impiccagioni era intento ad assicurare un cappio. La donna quasi sentì quel medesimo nodo scorsoio stringerle in gola. “A chi tocca?” riuscì a domandare, forzando per rimanere impassibile.
“Filibustieri, mi sembra chiaro... ma dove scappate?” Senza dare retta a quell’uomo fuggì, incerta su cosa fare ma colle membra tremanti e impazienti di agire; come, non riusciva ancora a immaginarlo. Sapeva solo che l’improvvisa decisione del governatore mandava all’aria il suo piano per intero.
“Non capisco... eppure mi era stato detto che...” Si bloccò, scorgendo in uno stretto spazio tra due case il suo contatto, intento a fumarsi una sigaretta. Prima che potesse controllarla sentì una rabbia gelida invaderla e concentrarsi sulle mani, corse inconsapevolmente all’impugnatura del coltello che portava sempre con sé; i suoi stessi piedi si mossero, decisi a condurla verso l’uomo che le aveva fornito informazioni errate o, nella peggiore delle ipotesi, l’aveva ingannata.
Nora strinse le labbra, attendendo che l’altro le voltasse le spalle prima di percorrere di corsa gli ultimi venti passi; la lama andò con piacere a pungere la schiena del malcapitato, preso del tutto alla sprovvista. “Ma che diavolo...?” sbottò, più sorpreso che spaventato in verità. “Sei capitato male, amico, non ho...”
“Tacete!” intimò a mezza voce Nora, spingendolo nel vicolo; fortunatamente nessuno aveva badato all’improvvisa aggressione. L’uomo sussultò. “Voi! Siete uscita di senno, per caso?”
“Risparmiate il fiato per darmi le dovute spiegazioni.”
“Prima mettete a posto quell’arnese.” La donna rinfoderò con un gesto secco il coltello. “Avete mentito” disse con voce accorata. “Mi avevate assicurato che il governatore l’avrebbe lasciato nella sua cella, e ora scopro che si prepara un’appiccagione!”
“Non è come credete...” tentò di dire l’altro.
“No? Finché fosse rimasto prigioniero avevo qualche speranza, ma non posso aiutarlo se l’attende la forca!” Nora si morse il labbro e una minuscola goccia di sangue le scivolò lungo il mento. “Ho udito a parlare di più di un’esecuzione. Hanno preso anche il suo amico?”
“Forse.”
La donna sbiancò. “Siate più chiaro. E sbrigatevi, non abbiamo molto tempo.”
“Sulla costa è sbarcata una scialuppa con otto filibustieri, meno di due ore fa; venivano da parte del loro comandante in qualità di parlamentari.” L’uomo scosse il capo. “Una volta informato il governatore ricevemmo l’ordine di arrestarli tutti, non prima d’aver fatto loro posare le armi. Verranno appiccati domani stesso.”
“Senza processo, s’intende” mormorò Nora a denti stretti.
“Per delle siffatte canaglie non occorre perder tempo, dovreste saperlo.” L’uomo la fissò con un certo interesse. “O forse la cosa vi turba?” L’allusione la fece arrossire, ma occorse poco affinché Nora tornasse lucida. “Appiccheranno anche lui?” domandò.
“Questo non saprei dirvelo.”
“Allora tornate a palazzo e agite subito; non v’è un solo minuto da perdere” replicò con decisione la guaritrice. Lui si carezzò pensosamente il mento.“Vostro marito e vostra figlia dovrebbero esservi per il solito carico di frutte, a quest’ora” constatò.
“E con questo? Non hanno niente a che vedere con noi.”
“No?” esclamò lui con un certo stupore. “Credevo agiste in accordo con vostro...”
“Lui non deve saper nulla di questa istoria” fu la secca risposta della donna, e la cosa fece ulteriormente insospettire il suo interlocutore. “Voi non me la contate giusta” disse quest’ultimo.
“D’accordo” s’arrese l’uomo.
“Anche se mi dovreste parecchie spiegazioni.”
“A tempo debito, quando sarà tutto finito” assicurò la donna; vi era ancora una speranza che il piano andasse come previsto, ma questo non le impedì di sentirsi il cuore in gola per l’ansia. L’idea che un condottiero filibustiere avesse mandati i suoi uomini nella tana del lupo senza garanzia alcuna non le piaceva affatto.
Oppure costui non mi ha raccontato tutto. Non poteva escluderlo.
“La dose che vi ho data basta per due persone.” Le parole le uscirono a stento a causa della gola secca, ma perfettamente udibili. E fuori dal suo controllo.
L’uomo, in procinto di andarsene, si voltò con un’evidente espressione di stupore. “Se anche vi riuscissi” disse con voce pacata, “la cosa salterebbe subito all’occhio.”
Per favore, avrebbe voluto dire Nora; ma tacque, decisa a non destare altre domande nel giovane uomo in divisa, fin troppo curioso e sveglio. Ma i suoi occhi dovevano aver parlato chiaro, a giudicare dalla risposta che ottenne. “Sia. Vedrò se tra i nuovi arrivati vi è anche quel... il suo nome?”
“Carmaux.”
Mio Dio, Fabien, pensò poi la donna, i pugni che si serravano sotto il grembiule, dimmi che non sei stato così pazzo da tornare.

*

“Resta qui.”
Sol fissò con sguardo deluso e interrogativo il padre, che aveva appena pronunciato quella frase.
“Ne hai combinate fin troppe la volta scorsa, monellaccia.”
“Non è giusto” pensò la ragazzina mentre Perez scompariva oltre la porta sul retro assieme a Juanita: lui lo sapeva benissimo che quei negri che scaricavano le frutte le facevano paura, eppure la lasciava lì tutta sola. Si rannicchiò sul sedile del carro, i passi degli schiavi che si facevano sempre più vicini; lo sguardo basso percorreva le volute brune sul legno o, di tanto in tanto, il profilo degli orecchi di Azogue, al contrario di lei mansueto e del tutto indifferente ai due uomini che, passandogli accanto, gli menavano sonore pacche sul dorso. Era ormai troppo vecchio per scalpitare.
“Muta la topolina, eh?”
“Non badarci.”
Sol rimpianse con tutto il cuore di non avere sassi nelle tasche, colpa di suo padre che non s’era fermato per nulla lungo il tragitto, e soprattutto di non essere coraggiosa abbastanza da mollare un qualche calcio nello stinco del seccatore. Ma arrivava colla testa al fianco di entrambi, grossi com’erano avrebbero potuto usare il suo grembiule come tovagliolo, dopo aver fatto di lei un solo boccone. Deglutì e si spostò con cautela sul bordo del sedile, scendendo con maggiore lentezza e silenzio possibile; lo sguardo le cadde sulle braccia di uno dei negri, due tronchi ben torniti che non si sarebbero trovati imbarazzati a sollevare un albero, figurarsi un paio di meloni. Si rassettò la gonna con gesti noncuranti prima di prendere le briglie e costringere Azogue ad abbassare il muso; gli carezzò nervosa le froge, guadagnandosi due sbuffi tiepidi in viso. Chissà, forse stava tentando di rassicurarla. Socchiuse gli occhi, passando la mano lungo la criniera di Azogue che lei stessa pettinava ogni mattina, quando qualcosa le strusciò contro la gamba.
Abbassare gli occhi, identificare l’intruso e cacciare uno strillo fu un tutt’uno.

“Vostra Signoria” mormorò Honorata, eseguendo un breve inchino all’indirizzo di un alquanto esterrefatto conte di Medina. “Vi trovo bene.” Vuoti convenevoli che in quegli istanti disprezzava, ma cui s’aggrappava per mantenere la calma e la lucidità necessarie per affrontare al meglio quel confronto.
Il governatore di Maracaibo, sopraffatto per un attimo dai sentimenti, non fece nulla per nascondere il suo stupore. “Quando mi dissero chi s’era presentato qui, non volevo crederci” ammise con voce roca.
“Oh, anch’io stento a credere che proprio voi, che un tempo dicevate d’essermi affezionato, abbiate potuto farmi un sì grave torto.” La stilettata partì rapida e sicura e, a giudicare dal lampo che scorse negli occhi del fratellastro, la contessa di Ventimiglia fu certa d’aver ottenuto l’effetto sperato: conosceva quello sguardo, gliel’aveva veduto tante volte quando, fanciullo, veniva colto in fallo dalle fantesche senza mostrare segno di voler cedere. Ma ora si trattava di ben altro che d’un capriccio.
O forse no.
Honorata concentrò le proprie attenzioni sull’ufficiale che affiancava il governatore; gli occhi grigi svegli ma sfuggenti che le si posarono in volto le misero dentro uno strano senso d’inquietudine. Non doveva essere una persona di cui fidarsi ciecamente, eppure suo fratello mostrava il contrario.
“Lasciateci soli, capitano Valera” disse tuttavia il governatore di Maracaibo, e di questo non poté che essere lieta; al contrario del diretto interessato, ovviamente. “Ne siete certo, signor conte?” domandò infatti gettando un’occhiata sospettosa alla contessa e a Chtilali, che mai aveva lasciato il suo fianco.
“Non saranno due donne ad assassinarmi, se è questo che pensate.”
“No, ma...”
“Allora non vi è da temere.” Honorata trattenne a stento un sospiro di sollievo quando il capitano abbandonò la stanza: non si sarebbe sentita tranquilla con quegli occhi obliqui indosso. A un cenno del governatore prese posto su una sedia, le mani che lisciavano le pieghe dell’abito; era l’unico segno di nervosismo che si permise, mentre si curò di mantenere un’espressione distesa e distaccata.
“So perché sei qui” esordì il conte di Medina.
“Mi sarei stupita del contrario.” Honorata s’accorse subito che, al contrario di lei, l’altro appariva nervoso e corrucciato. “Che c’è?”
“La tua schiava; mi fissa in modo strano.”
“I tuoi soldati l’hanno reputata innocua; e data la sua condizione non ha più orecchi del tuo tavolo di mogano.”
“In fondo hai ragione.”
“Risposta sbagliata, Luis” replicò perentoria la contessa di Ventimiglia, facendolo sobbalzare. “Una persona resta tale qualunque sia il suo grado sociale; hai commesso lo stesso errore di nostro padre, che dimentico dei sentimenti d’una schiava sottovalutò il suo odio e il suo desiderio di vendetta.”
“Cosa vuoi dire con questo?” scattò il governatore.
“Che la tua capacità di valutazione presenta molteplici falle; altrimenti ricorderesti che io mai considererei una mia serva alla stregua d’un mobile. Non posso negare di essere cambiata, ma non fino a questo segno.” Honorata intrecciò le belle mani affusolate. “Al contrario di te.” Alzò lo sguardo. “Cosa sei diventato, Luis?” domandò secca; una volta con quel tono avrebbe fatto abbassare il capo al suo fratellastro, convincendolo a chiedere scusa pel suo errore. Ma chi aveva dinanzi era ormai un uomo, che s’era lasciate dietro le sue origini illegittime per scalare i vertici del potere e giungere lì, a quel posto che un tempo era stato di suo padre.
Il giovane Luis avrebbe cincischiato colla penna giustificandosi a stento; il conte di Medina carezzò colle dita le barbe della piuma d’oca prima di posarla e rivolgersi a lei, la sua sorellastra, uno sguardo sottile e tutt’altro che insicuro. “Ho fatto allontanare il capitano per avere un colloquio più... intimo, Honorata” mormorò con voce carezzevole. “Una chiacchierata tra fratelli, come quelle che riuscivamo ad avere a Coro quando sfuggivamo al controllo delle fantesche; non costringermi a cambiare le cose e a farti interrogare dai miei uomini, ne avrei ogni diritto.”
“Non occorre. Sono qui per darti ciò che vuoi.” Il conte di Medina alzò un sopracciglio.
“L’eredità di nostro padre. È questo che t’interessa, no?” riprese con forza Honorata. “Prenditela. Firmerò qualsiasi carta vorrai, non ho intenzione di trattenere nulla. Ma libera mia figlia e metti fine alla tua pazzia, Luis; conviene a entrambi, e lo sai.”
“È una minaccia?” replicò freddo il governatore di Maracaibo. “Minacci di lanciarmi addosso gli amici di tuo marito, che non vedono l’ora di depredare questa città? Begli alleati che ti sei scelta.”
Honorata impallidì. “Credi che l’avrei fatto se non mi avessi costretta? Sono giunta qui colla speranza di concludere questa ignobile faccenda pacificamente...”
“E pel tuo onorevole consorte ‘pacificamente’ equivale a mettere a soqquadro una taverna e seminare lo scompiglio in città?” La contessa ammutolì; Chtilali, dietro di lei, strinse con forza la spalliera della seggiola fino a far scricchiolare il legno.
Il conte di Medina sospirò. “Stolto che sono stato” disse scuotendo il capo, “a non pensare subito che ci fosse lui dietro quella istoria. Il Corsaro Nero che tenta di salvare dalla cattura i suoi vecchi fidi.” Sorrise, di un sorriso gelido che tagliava come la lama della spada che gli pendeva al fianco. “Invano, visto che è riuscito a portarne via soltanto uno; l’altro... avevo intenzione di farlo marcire in cella, ma un cappio in più da aggiungere agli altri sette non sarà un grande dispendio. Dillo pure a tuo marito, quando tornerai da lui per riferirgli quanto sia stata inutile la tua missione.”
Honorata scattò in piedi, incapace di trattenersi ancora. “Sei un vigliacco, Luis!” esclamò. “Un vigliacco che fa mettere i ferri a dei disgraziati che hanno appena deposte le armi, e li fa appiccare senza processo!”
“Non occorrono simili formalità per uomini di quella risma.”
“Hai intenzione d’abbassarti al livello di coloro che tanto disprezzi?”
“Non farmi la predica, Honorata! Non l’accetto da chi ha sposato un fuorilegge!”
“E Jolanda?” Al pronunciare il nome della figlia la voce della contessa si incrinò. “Che colpa ne ha lei? Con che diritto la trattieni qui?”
“Ha sangue corsaro nelle vene” fu l’implacabile risposta. “E la disgrazia di non somigliarti affatto.”

“Quei figli di cane! Catturarci dopo averci fatte abbassare le armi!”
“E accolti come messi di pace.”
“Miserabili!”
“Che il diavolo se li porti tutti!”
“Basta!” s’impose una voce su tutte quelle che, da un po’ di tempo, s’accavallavano nell’angusta cella. “Gridare come cornacchie farà solo accorrere le guardie.”
“Bah! Meglio sprecare fiato ora che tenerselo per quando verrà il momento” sputò uno dei filibustieri. “Alla sola idea che quei cialtroni di spagnuoli rideranno al vedere la mia lingua di fuori... preferirei crepare ora.”
“Che ridano, Leroy” disse a mezza voce l’uomo che prima aveva imposto il silenzio. “Sta’ pur certo che non lo faranno all’irrompere dei nostri compagni. Conosci tu il capitano Morgan; e ora zitti.”
“...Cox?”
Più che l’invito di Cox fu quel richiamo ad ammutolire i quattro filibustieri. Proveniva dalla cella alla loro destra, e fu sulla parete di collegamento che il filibustiere interpellato pose l’orecchio. “Chi vive?” azzardò.
“Cox, sei tu?” domandò ancora la voce, flebilmente.
“Che l’inferno m’inghiotta!” scattò Leroy. “Ma è l’amburghese!”
“Wan Stiller?” saltò uno, stupito.
“È vivo ancora?”
“Sssshhhh!” Ancora una volta Cox dovette intervenire per far tacere i suoi compagni; l’ultima cosa che voleva è che i due ufficiali sulla scala venissero a origliare i loro discorsi. “Ohe, amico, sei ancora lì?” disse poi a mezza voce, le labbra a un soffio dalla parete umida. Ottenne in risposta una manciata di colpi di tosse tra cui era possibile distinguere un . “Diavolo! Ti davamo già per morto, sulla Folgore!
“Bah! Che mi facciano marcire qui o penzolare da una cravatta di canapa, non mi tocca più” rispose Wan Stiller. “Ma tu... cosa fai qui?”
“Inviato come messaggero dal signor Morgan assieme ai miei compagni, e catturato nonostante la bandiera bianca.”
“Quanti siete?”
“Sette, quattro qui con me e tre in un’altra cella.” Cox sospirò tristemente. “Avrei preferito crepare sotto i cannoni nemici, in verità. Spero che la signora di Ventimiglia abbia più fortuna.”
“La signora... Jolanda...?”
“No, sua madre.”
“Tuoni d’Amburgo! La duchessa di Wan Guld?” A giudicare dal rumore Wan Stiller doveva essersi meglio accomodato sulla parete di collegamento. “Che istoria mi racconti, Cox? Com’è possibile che lei sia qui?”
“Credi che avrebbe lasciata la figlia in mano del governatore? Si dice che lo conosca personalmente, per questo...” E a quel punto Cox ridusse a un sussurro la voce, appena udibile solo pei suoi compagni. “...suo marito acconsentì a lasciarla andare.”
Wan Stiller, a quelle parole, si abbandonò contro la parete divisoria, gli occhi spalancati e il respiro corto. “Il Corsaro qui...” Il pensiero che in un primo momento gli appariva folle guadagnò senso logico in pochi secondi: no, non era una follia, lui medesimo, in quei giorni trascorsi in quel buco tra il lezzo degli escrementi e l’odore di sangue aveva rimuginato su quanto era accaduto alla taverna... e sì, una di quelle figure giunte in soccorso suo e di Carmaux, col mantello ravvolto attorno alla persona e la spada che saettava contro i punti deboli del nemico, poteva essere lui, il signore di Ventimiglia.
Un pensiero lo colpì all’improvviso. “Cox!”
“Che hai?”
“Carmaux... hai notizie di lui?” Se davvero era stato il Corsaro a soccorrerli, forse v’era qualche speranza che il suo compare fosse stato tratto in salvo.
“Non temere, è al sicuro.”
“Ferito?”
“Graffiature, per uno del suo calibro. Ma se non fosse stato pel Corsaro e il capitano Morgan sarebbe qui a tenerci compagnia.”
“Per finire appiccato assieme a noi” pensò l’amburghese, lasciandosi sfuggire un sospiro di sollievo; aveva una fortuna del diavolo, quel francese, a scampare alla forca e al governatore di Maracaibo per la quarta volta in diciott’anni. A lui non era andata altrettanto bene. Peccato. “Bah!” si disse ancora Wan Stiller. “Che non si faccia accoppare durante l’attacco, piuttosto; ha una famiglia da cui tornare.” Anche lui, in effetti, ma era l’ultima cosa cui voleva pensare in quel momento.
Un rumore secco lo fece sobbalzare. Alzò gli occhi che le sbarre ancora tremavano dopo il calcio dello spagnuolo.
“Mi auguro abbiate finito di ciarlare” disse con uno sbuffo il sergente Muñoz.

Alzare gli occhi, identificare il responsabile degli strilli di sua figlia e lanciare un’esclamazione di stupore fu per Perez un tutt’uno. “Un... gatto?"
“Un gatto” confermò lo schiavo negro che aveva agguantata la bestiola, color del carbone al pari di lui, per la collottola. “Non è la prima volta che viene, il birbante, a cercare un qualche avanzo dalle cucine.” Il colpevole lanciò un lungo miagolio, tentando invano di liberarsi dalla presa: la mano di chi l’aveva catturato era ben più grossa di lui.
Perez ancora stentava a crederci. Certo ricordava che Sol, da piccola, aveva avuto brutte esperienze con un felino che le si era arrampicato sulla schiena, ma a giudicare dalle grida che aveva udito prima era convinto che come minimo fosse finita sotto gli zoccoli di un imbizzarrito Azogue.
Il negro lo fissava con sospetto. “Che c’è?” fece con un’alzata di spalle. “Credevate che me la stessi mangiando? Sono un negro, eh, non un antropofago.”
“Altrimenti avremmo già fatto un solo boccone della topolina” esordì l’altro schiavo con una risata che lo scosse tutto. “Spolpandola fino alle ossa e...”
“Kato!”
“Che ho detto?”
Perez ebbe il suo bel daffare a calmare una piagnucolante Sol che gli s’era aggrappata ai calzoni e lanciava occhiate terrorizzate ai due negri; già ne aveva timore per le loro stazze di tutto rispetto, con quelle loro ridicole istorie di antropofagi non avrebbe più avuto il coraggio di seguirlo durante i suoi giri. “E addio fortuna” pensò con un sospiro. “Su, su, niña, non fare così... celiavano.”
“Certo. È troppo piccina per me” garantì Kato con una nuova risata che gli scoprì la robusta dentatura bianca. “Guarda che coscette.”
“Kato, continua e ti farò diventare più basso di lei... a colpi di mazza” minacciò l’altro schiavo, senza tuttavia alzare la voce: i suoi occhi di ossidiana erano fin troppo espliciti.
“E va bene, va bene.”
“Ohe, voi! L’avete finita? È ormai buio.”
Perez sospirò di sollievo. “Oh, voi, tenente” disse nel vedere El Moro raggiungerli col consueto passo marziale, una torcia in mano. “Tutto a posto, abbiamo terminato.”
“Prima ho sentito un gran baccano. Quei due vi hanno dato problemi, señor?” E l’ufficiale fissò con durezza gli schiavi, in cui la loquacità e la baldanza precedenti sembravano essere sfumate: Kato era immobile cogli occhi bassi, mentre lo schiavo più anziano aveva lasciata la presa sul gatto, permettendogli di abbandonare l’area con pochi salti, e metteva mano a un piccolo otre che portava a tracolla.
“No, no, è questa monella di mia figlia che si è spaventata per nulla... una bazzecola, davvero.”
“Non è vero!” A El Moro occorse qualche secondo per capire che a parlare era stata Sol: non vi erano altri presenti in zona cui potesse appartenere quella voce femminile, da ragazzina in boccio. “Ah, no?” fece, fingendo di stare al gioco. Lei, rossissima in viso alla luce della torcia, allargò le braccia mimando qualcosa dalle notevoli dimensioni.
“Era un gatto grosso così, cogli occhi rossi...”
“Tanto grande? Allora era un giaguaro.”
“Sì, proprio quello, e voleva strapparmi una gamba” asserì Sol con sicurezza.
L’ufficiale non ebbe il tempo di divertirsi al vedere la ragazzina mentire colla massima faccia tosta, suo padre piantarsi un palmo in fronte per lo scoramento e il vecchio schiavo quasi strozzarsi col suo intruglio, giacché una voce familiare lo stava chiamando dalla porta di servizio. “Sergente Muñoz” fece quando l’ebbe raggiunto. “Cos’avete? Sembra urgente.”
“Credevo fosse più giusto avvisare voi e il capitano, prima di Sua Eccellenza.”
“Ebbene?”

“Ebbene, Honorata? Sono stato abbastanza chiaro?”
La contessa di Ventimiglia ansimò, la gola secca come se avesse trascorsi gli ultimi minuti a cacciare fuori la rabbia, il timore e la frustrazione che le premevano nel cuore. “Stai commettendo un errore, Luis” disse accorata, una volta riacquistata la lucidità. “Lo stesso errore di mio marito.”
“Eppure a lui hai perdonato” replicò con astio il governatore di Maracaibo.
“Perché è stato in grado di uscirne.”
“Solo dopo aver assassinato nostro padre.”
“No!” quasi gridò lei. “Fu lui a farsi saltare in aria colla sua fregata, lui ad accendere la miccia e a sacrificare il suo stesso equipaggio pur di eliminare il suo rivale!”
“Non vi sono testimoni a riguardo.”
“E invece sì.”
“E chi?” domandò con voce beffarda il conte. “Tuo marito, forse? I suoi uomini? Avrebbero avuto ogni ragione per mentirti.”
“Emilio non l’avrebbe mai fatto. Per anni il suo cuore era stato soffocato dall’odio e dal desiderio di vendetta, ma sapeva bene che per ottenere il mio incondizionato amore avrebbe dovuto essere sincero, in tutto e per tutto; un’unione basata sulla menzogna non è degna di essere vissuta.” Honorata alzò gli occhi grigi su quelli del fratellastro, gemelli dei propri. “Ma tu, Luis, dai ascolto solo a ciò che vuoi  credere e ti fa comodo credere, per dare una parvenza di giustifica al tuo operato verso mia figlia.” Le mani della contessa si strinsero a morsa sul bordo della scrivania, mentre il capo si chinava verso quello del governatore. “Emilio ha sempre avuto ragione e io, stolta, ho creduto fino all’ultimo che la vendetta non c’entrasse nulla, che volessi solo ciò che pensavi ti spettasse di diritto.”
“Oh, non credere che i milioni di nostro padre non mi facciano gola” fece il conte di Medina.
“E allora prenditeli!”
“Se anche facessi firmare quelle carte a te, tua figlia potrebbe impugnarle alla prima occasione.”
“Non lo farebbe se fossi io a chiederglielo.”
“Tua figlia ha uno spirito indomito, Honorata” replicò secco il governatore. “Me ne sono avveduto in queste settimane; disgraziatamente, ha nelle sue vene il sangue marcio di un corsaro.”
“Taci, Luis” intimò Honorata. “Non una parola di più.”
“Perché mai?” fu la melliflua replica. “Credevo che a quell’uomo andasse il tuo amore incondizionato; o forse intravedi nelle mie parole un fondo di verità?”
“Basta!” La contessa si lasciò andare su una sedia, il cuore che batteva frenetico e le membra incapaci di rispondere. “È Emilio che vuoi far soffrire? È lui che vuoi colpire? Allora prendi me!” scattò. “Prendi me e lascia andare Jolanda.”
“No” rispose secco il governatore. “Non potrei mai.”
“Perché, Luis? Nostro padre non ha mai fatto nulla per farsi benvolere da te! A che scopo tutto questo?”
“Lui non c’entra, Honorata. Sei tu.” La frase fu pronunciata in un soffio, prima che il conte di Medina si rizzasse in piedi, come pentito di quell’improvvisa confessione. “Vattene” intimò. “Riprendi il mare col filibustiere incaricato di portare il mio messaggio a quel cane di Morgan.” La stessa contessa aveva assistito alla scrittura di quelle due, sfrontate righe indirizzate all’almirante della flotta corsara.
Aspetto a Maracaibo i filibustieri della Tortue per impiccarli tutti.
Strinse le labbra. “Condanni alla distruzione la medesima città che dovresti proteggere” mormorò.
“Questo è tutto da vedere. Il nostro forte non è quello che capitolò all’ultima incursione di quei dannati, e i nostri cannoni frantumeranno le loro navi.”
“Attendo di vederti sugli spalti colle armi in pugno, dunque” disse con sfida la signora di Ventimiglia. “O alle prime avvisaglie di disfatta fuggirai vigliaccamente come fece nostro padre, diciott’anni orsono?” Non attese alcuna risposta, dirigendosi a fronte alta verso la porta con Chtilali che la seguì, silenziosa e solidale come sempre. Aveva già chiesto, invano, di poter vedere sua figlia almeno una volta, ma le era stato negato con forza; pregò, con tutto il cuore, che stesse bene.
Fuori dall’uscio, a poca distanza, il capitano Valera attendeva nell’ombra. “Possiamo andare” gli disse, sbrigativa.
“Solo un attimo, contessa. Vogliate scusarmi.” E l’ufficiale la sorpassò per raggiungere il governatore.
“Ebbene?” sentì che diceva il suo fratellastro. “Le forche sono state erette in Plaza Mayor?”
“Sì, conte, ma ho dato ordine di togliere un cappio.”
“E perché mai?”
“Non occorre più. Quel cane d’un corsaro è spirato or ora nella sua cella.”
Non un solo grido fuoriuscì dalle labbra di Honorata. La notizia in sé, nonché il peso di dover riferire un sì grave messaggio al diretto interessato, bastarono ad ammutolirla.

*

Alcazar, seduto sul bordo del patibolo, fissò con occhio critico i sette cappi, ombre scure nell’aria immobile. “È la corda delle vostre, mastro Saro?” domandò all’uomo dal volto sanguigno che s’era adoperato per fissarli ai capestri.
“Sua Signoria non ha mai avuto occasione di lamentarsi” fu la risposta del boia, intento ad arrotolare la corda che sarebbe dovuta servire per l’ottavo cappio. “S’è ucciso, quel disgraziato che sarebbe dovuto pendere assieme agli altri?”
“Oh no, credo siano state le ferite e le torture; questi figli di Satana sono meno robusti di quanto sembrino.” Lo sguardo del soldato cadde su qualcosa che era appena scivolato di tasca al suo superiore. “Quella è vostra, signore?” domandò indicandola.
El Moro, in piedi cogli occhi persi all’orizzonte, si riscosse. “Sì” rispose fissando la boccetta che gli era rotolata ai piedi. “Ma non ha alcuna importanza.”
E con un colpo di tacco la mandò in frantumi.


Note dell’autrice: dopo quasi quattro mesi dall’ultimo capitolo riesco a terminare questo. Non ci credo o__o
Avevo ormai deciso di congelare aggiornamenti e post di nuove storie, ma ritengo che lasciare dei lavori incompiuti sia sciocco da parte mia, quindi continuerò a mettere i nuovi capitoli man mano che li scriverò (e che l’ispirazione sia con me).
Non ho appunti sul capitolo da fare, se non che il messaggio scritto dal conte di Medina appare pari pari anche in “Jolanda, la figlia del Corsaro Nero”: come già detto in precedenza, la mia storia riprende molte situazioni del romanzo originale ma rielaborandole o inserendole semplicemente in un nuovo contesto.
Ringrazio Chandrajak, che ha sempre recensito e sostenuto questa storia, Stray che ha mostrato il suo apprezzamento proprio in queste settimane e infine Crow F che, pur non avendo recensito, ha inserito la storia tra i preferiti.
Al prossimo capitolo.
Satomi

   
 
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