PASSATO E PRESENTE
Il rugby è antico, lento, è una guerra di prime, seconde e terze linee e fanterie contrapposte, guerra di trincee. A rugby conta solo il gioco collettivo: terra da conquistare, linea dopo linea, fino all'ultima trincea che, non a caso, si chiama meta.
È tutto così tremendamente sbagliato: la mia
presenza qui, la tua, ciò che provo per te.
Io non dovrei stare qui.
Dovrei stare a casa, a fare i compiti, in giro
con delle amiche, su internet, ma non qui.
Non in questo luogo, in questo tempio, nella
mia seconda casa da cui sono stata sfrattata anni fa.
Ma perché allora non posso fare a meno di
tornarci?
Perché non mi lascio dietro questo capitolo
della mia vita e ricomincio da capo?
Perché non ho la forza di dimenticare?
Non lo so, forse non lo saprò mai. Forse è
quella cosa che ci accomuna tutti; tutti noi sportivi siamo legati da queste
catene invisibili al nostro sport, al nostro stadio, e, perché no, alla
nostra palla.
La mia è ovale, non propriamente femminile
forse; ed è proprio questo “non propriamente femminile” che m’ha fatto
smettere di giocare con i maschi.
Cinque anni di domeniche passate assieme, di
vestiti infangati e pesanti, di risate e rotolate nell’erba e nel fango,
cinque anni della mia vita rinnegati due misere righe del regolamento. Che
hanno sancito la fine della mia carriera rugbistica.
E ora sto qui, in questo stadio che m’ha
visto crescere, in questo stadio che si è appropriato indebitamente di una
parte del mio cuore, a guardare malinconica l’acca dei pali e te calciare.
È tutto così sbagliato.
Non dovrei star qui, con le lacrime che premono
per uscire, con i ricordi che mi assalgono, che provano a travolgermi, a farmi
rivivere ogni singolo attimo del mio passato… e ci riescono:
“Andate a bere, veloci”a queste semplici parole ci trasformiamo tutti in una mandria, che
corre veloce verso le fontanelle. Facciamo la fila, ci schizziamo, beviamo e
ci bagniamo il viso, accaldati, e poi corriamo, più velocemente di prima,
verso il nostro allenatore, quel secondo padre che ci vuole bene come se
fossimo tutti suoi figli, severo ma dalla mano gentile, pronto ad impartire i
suoi insegnamenti…
Da quant’è che non bevo da quelle
fontanelle? Saranno tre anni ormai. Mi mancano i miei scarpini, ora non mi
entreranno neanche più. Mi manca togliere il fango dai tacchetti finito
l’allenamento e metterci la carta di giornale dentro, per farli asciugare.
“E la prima squadra classifica è il
Minirugby Frascati!!!”
ci alziamo tutti in piedi, con un sorriso a
trecento denti, con gli occhi leggermente umidi. Il capitan prende la coppa
(mamma mia quanto è grossa! Ed è tutto merito nostro!) e la tocchiamo,
tutti, alzandola al cielo, verso i nostri genitori…
Ora sta nella sede, come tutte le altre coppe,
di cui molte vinte dalla mia squadra. Eravamo forti, eccome: un grande gruppo,
non c’è che dire. Ora loro lo sono ancora, sia forti che un grande gruppo.
Di cui però non faccio più parte.
“Cosa farai il prossimo anno?”
“Non lo so”
“Quest’anno c’è la squadra femminile,
andrai a giocare con loro?”
”Non lo so. È diverso il rugby femminile. Poi, le femmine sono tutte oche,
preferisco di gran lunga giocare con voi”
Ricordo esattamente dove pronunciai queste
frasi, in compagnia di chi, in quale occasione. Potrei dire benissimo
com’ero vestita. Ora come ora rinnego la maggior parte di queste parole.
Darei di tutto per giocare anche solo con le donne, pagherei oro anche solo
per giocare con un gruppo di capre. Ma non c’è più neanche la femminile,
troppe poche ragazze.
Oppure quando pranzavamo tutti assieme, a
tirarci le molliche di pane, a rubare la merendina al vicino…
Quanti ricordi, delle volte credo di averne
troppi, che un bel pensatoio come quello di Silente mi farebbe solo che bene.
Ed invece sto qui: ormai il sole è calato,
hanno acceso i fari.
Tu continui a provare i calci, e fai bene. Ti
osservo, ammirandoti, mentre con gli occhi della fantasia vedo lì, sulla tua
destra, un gruppo di ragazzi di dieci anni correre dietro ad un pallone. Fra
questi ragazzi ci sono io, una ragazza riccia, un po’ in carne, che si
confonde nella massa.
Poi, com’è comparso, il gruppo di ragazzi
sparisce, per lasciar posto nuovamente ad un campo vuoto, con solo te a
calciare.
Non so come sia successo, a dir la verità
forse non l’ho ancora accettato.
So solo che quest’anno, dopo mesi e mesi,
forse anni (chi li ha contati?) sono tornata al campo. Con un nodo in gola
sono venuta in sede, ho guardato e ammirato i nostri trofei (fra cui i miei) e
poi ti ho visto. Ed il nodo alla gola è diventato ancora più stretto, e le
farfalle nel mio stomaco hanno iniziato a svolazzare libere, ignare della mia
situazione mentale.
Ed eccomi ora. Ormai vengo al campo una volta a
settimana, non so bene perché. O forse lo so.
Perché mi sono accorta che non posso stare
lontana dalla mia seconda casa;
Perché non posso stare lontana dal pallone
ovale;
Perché non posso rinnegare cinque anni della
mia vita;
Perché non posso rinnegare la mia squadra, le
nostre vittorie, l’affetto che in fin dei conti ancora ci lega, il tono
della loro voce quando mi salutano, quasi a dire: “Ma chi si rivede, che
piacere!”;
Perché una parte del mio cuore appartiene a
questo stadio;
Perché ora ne appartiene anche un’altra,
quella parte di cuore che ora sta focalizzata su di te, quella parte di cuore
la quale, senza far richiesta né a te né a me, ti si è autoconsacrata.
Ed ora sono tormentata dai miei ricordi, dalla
mia malinconia per il non giocare, e da questo sentimento nato chissà come e
chissà perché che mi porta irrimediabilmente verso te.
Questo sentimento che non mi lascia in pace
mai, che mi fa continuamente pensare a te, che mi fa sembrare un’anima in
pena quando non rientri nel mio campo visivo e mi fa arrossire quando invece
ci rientri, questo sentimento così simile a ciò che conta, ciò che è, per
me il rugby.
Alla fine quella lacrima che tanto premeva
riesce ad uscire.
Quasi come se mi leggesse il pensiero, una
leggera pioggerella cala sul campo, su di noi due, gli unici così folli da
stare ancora all’aperto.
Ma né io né te accenniamo cambi di programma:
tu continui a calciare, imperterrito.
Io continuo a guardarti, a pensare a ciò che
conti per me ed a ciò che ero anni fa.
Per un attimo i nostri sguardi si incrociano.
Mi sembra quasi di vederti sorridere.
Ma è un attimo.
Ecco che ti chini per prendere il pallone, che
dopo un minuto finisce in mezzo ai pali.
Sento freddo; un brivido mi attraversa la
schiena, un brivido forse non motivato solo dalla gelida temperatura.
Motivato forse dai tuoi occhi, dalla danza del
tuo corpo mentre calci, dalla mia memoria, dall’abbraccio fra me ed i miei
compagni di squadra dopo una partita…
Un brivido motivato dal rugby…