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Autore: Ortensia_    20/05/2012    1 recensioni
Dodici, e le lancette scorrono.
Qualcosa li ha condotti al numero 50 di Berkeley Square, e non vuole più lasciarli andare.
Vive nelle fondamenta, nel vuoto. Si nutre della paura e spezza quei sentimenti che riescono a toccarsi con dolcezza nella casa spettrale di Londra.
...
Cos'è? Chi è?
...
Genere: Dark, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Allied Forces/Forze Alleate, Altri, Austria/Roderich Edelstein, Bielorussia/Natalia Arlovskaya, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Can you hear the World?'
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XIII - Chiavi



Ancora oggi, Berkeley Square, è protagonista di una serie infinita di fatti inspiegabili, di morti misteriosi ed urla agghiaccianti.

Gilbert aveva promesso ad Ivan che lo avrebbe tirato fuori di lì in tempo, ma era andato a dormire con la pesante consapevolezza che un giorno di calma era appena passato, e allora, quello dopo, avrebbe visto un altro di loro morire.
Doveva trovare un modo, prima che scadesse il tempo a loro disposizione.
Antonio sembrava volersi fidare più delle sue parole che di quelle di Arthur ed Alfred.
Erano rimasti seduti l’uno di fronte all’altro, appena illuminati dalla luce argentea della luna, a parlare fino a mezzanotte, forse anche fino a l’una. Non ne era sicuro.
Ciò su cui poteva contare, però, era l’aiuto di Antonio, e di questo ne era certo.
Gilbert era riuscito a distogliere la sua attenzione da proiettile e silenziatore, e portarla sulla presenza di Ivan.
Si era perfino confidato con l’amico.
Gli aveva detto che si era innamorato di uno dei suoi peggiori nemici, ma Antonio aveva risposto solamente con un sorriso allegro. Tipico di lui, dopotutto.
Poteva contare sullo spagnolo, ma Feliciano? Feliciano pensò di non calcolarlo neppure, mal ridotto com’era.
Per ciò che riguardava Alfred ed Arthur, davvero, non riusciva ad immaginare ciò che poteva frullare nelle loro teste in questo momento. Stessa ardua sfida per l’ispanico, che dopo appena dieci minuti si arrese.

«Se fossi a casa, adesso, starei facendo colazione con dei churros ed un buon caffè, o magari una cioccolata calda-!»
Antonio si pronunciò, e russo il silenzio del sonno così.
Erano appena le nove e lui e l’ispanico stavano già fissando il soffitto da più di qualche minuto.
«Parlerò con Arthur.
Dobbiamo rimanere tutti uniti, perché oggi lui ucciderà di nuovo.»
«Sì.» lo spagnolo si fece improvvisamente molto più serio, ed annuì deciso.
Il prussiano rimase in silenzio per qualche attimo, ancora guardando il soffitto, poi si alzò di scatto, infilandosi velocemente i pantaloni «non voglio perdere altro tempo.»
Lo spagnolo gli rivolse un’occhiata sorpresa, ma non disse nulla e lo lasciò andare.
«Vai Gilbert. Salva chi ami, finché sei in tempo.»
Si ritrovò a mormorare solo questo, prima di chiudersi in un rispettoso silenzio.

Feliciano aveva passato la seconda notte totalmente insonne e l’ennesima torturata da disturbi e tormenti, nella testa e nel corpo.
Ormai il viso era cupo, i capelli arruffati, gli occhi stanchi e spenti, le labbra screpolate ripiegate su se stesse, il naso arrossato e spellato, a causa del pianto che lo aveva attanagliato dalla mezzanotte in poi e non era cessato fino alle prime flebili luci dell’alba.
Si sentiva terribilmente, solo, nonostante, proprio di fianco alla sua stanza, ci fosse Spagna -che stava vivendo i suoi stessi tormenti- e dopo qualche scalino Prussia -anch’esso di certo non troppo sereno-
Una volta in bagno, era dovuto andare. Anzi: scappare, a causa del forte dolore allo stomaco e dai conati causati dal pianto.
Non aveva vomitato nulla però: solo aria, visto che non mangiava da un po’.
Quando gli venne in mente che l’ultima cosa che la sua bocca aveva masticato era stata la carne del fratellone aveva indotto i conati a divenire più violenti e frequenti, giocandosi qualsiasi piccola possibilità di addormentarsi, tramortito dalle lacrime e dai singhiozzi, e così si ritrovò a piagnucolare tutta la notte, tremando nel buio, miseramente appallottolato sotto le coperte.

Magari stavano ancora dormendo, ma lui era la Magnifica Prussia e le Nazioni gli avrebbero dovuto dare udienza ad ogni ora della notte e del giorno, nessuna esclusa, se fosse mai stato necessario.
«Inghilterra! Devo parlarti!»
Arthur si alzò parecchio irritato dalla voce roca del prussiano, proveniente da dietro la portà. Sbuffò, quando dovette alzarsi e sentì il freddo penetrargli in tutto il corpo attraverso le piante dei piedi, ora aderenti al parquet piuttosto gelido e forse perfino umidiccio.
«Cosa c’è?»
«Devo parlarti.»
«Eh, dimmi.»
Gilbert notò con la cosa dell’occhio un leggero movimento nell’altro letto: Alfred doveva essere sveglio, o per lo meno in uno stato di dormiveglia, e per ora preferiva non farsi sentire da nessun’altro ad esclusione di Arthur.
Senza dire più nulla afferrò il polso dell’inglese e lo strattonò fuori, fino alle sclae.
«Andiamo in biblioteca.»
Arthur non poté dire di no, quando vide quegli occhi di fuoco inaspettatamente seri puntati su di sé.

«Davvero tu credi che sia Ivan?»
Piuttosto che parlare ancora di Ivan, Arthur, avrebbe preferito soffermarsi sugli smielati libri francesi che spiccavano su uno scaffale alla sua sinistra, ma non aveva scelta.
«Potrebbe essere l’assassino come potrei esserlo io, come potresti esserlo tu, o chiunque altro in questa casa.»
Le parole di Arthur sembrarono conficcargli il petto, così improvvise, e vere.
Gilbert capì: Arthur aveva cambiato idea, ma allora cosa gli impediva di farlo uscire da quella stanza?
«Se in più riesci a fidarti tu, dopo che hai perso tuo fratello ed uno dei tuoi migliori amici, mi sento al sicuro, come se avessi una sorta di garanzia.»
«Allora apriamo quella stanza.»
Arthur gli rivolse un’occhiata fugace, poi annuì appena, aprendo la porta della biblioteca per fargli capire che la conversazione poteva considerarsi conclusa.
«Andiamo a prendere le chiavi.» l’inglese si limitò a borbottare il suo comando, tanto agognato da Gilbert, che lo seguì senza esitazione oltre le scale.
Il prussiano rimase sulla porta, osservando l’inglese che, chinato sul proprio cassetto, ora aveva improvvisamente smesso di frugare al suo interno.
«Cosa c’è?»
Arthur non gli rispose e raggiunse il cassetto dell’americano, frugando anche in quello «non ci sono …»
Escluse subito un caso di “fantasma dispettoso”, come di certo qualcun altro avrebbe potuto ipotizzare, e uscì velocemente dalla camera, assicurandosi che la porta del russo fosse chiusa.
«Ivan?»
«Da?» un mugolio flebile oltre la porta gli fece capire subito che avevano compiuto un errore grave e fin troppo grossolano.
«Nothing-» non volle illuderlo.
Si allontanò velocemente dalle due stanze, rivolgendosi all’albino «ha rubato le chiavi …»
Quando il prussiano rimase raccolto nel proprio silenzio, l’inglese rivolse un rapido richiamo all’americano, che diedi segno di essere sveglio -e tramortito dal sonno- solo dopo qualche attimo.
«Che … che succede?»
Perché erano davanti alla porta? Con quella cupa impronte sul viso?
Lo stavano osservando entrambi, e la cosa gli mise i brividi.
Si mise lentamente a sedere, senza scostare i propri occhi dal’inglese e mandando la mano, con goffi tastoni, in cerca degli occhiali riposti sul comodino prima di andare a dormire.
«Le chiavi sono sparite. Hanno visto tutti dove le ho messe.»
Alfred rimase in silenzio solo per un momento, sistemandosi gli occhiali «e quindi l’assassino potrebbe essere ancora …?» un brivido gli percorse la schiena: non era Ivan? Possibile che si fossero davvero sbagliati come sosteneva Arthur?
«Sì.» l’inglese tagliò corto, esortando l’americano a lasciare il proprio letto.
«Gilbert, aspettaci in cucina.»
Il prussiano esitò, all’ordine dell’inglese, poi si limitò ad annuire con malavoglia: doeva trovare quelle chiavi e tirare Ivan fuori da quella camera.
Ora come non mai era esposto alla morte.

Lui aveva le chiavi fra le mani.

«Alfred, io vado un momento in biblioteca.»
«Ok, intanto io vado in bagno-!»
I due si lasciarono all’inizio del corridoio, mentre nelle due stanze del piano di sotto, Antonio, ancora sonnecchiava, e Feliciano agonizzava, soffocato dai suoi stessi pensieri.
Gilbert assaporava l’attesa, seduto al piccolo tavolo della cucina.

Da quel momento in poi, nessuno di loro, riuscì a ritrovare l’altro.
Tutte le porte chiuse, le stanze inaccessibili.

Quando Gilbert se ne accorse non poté che insistere violentemente sulla maniglia della porta, stringendo i denti fino a sentire le gengive sanguinare.
«N-no! Ivan!»
L’assassino stava agendo. Di nuovo.
L’assassino stava sfruttando quelle maledette chiavi, e quelle maledette stanze.
Gilbert non smise neppure per un secondo di accanirsi sulla maniglia della porta, arrivando ad una conclusione fin troppo banale: lui era stato lì, sempre sotto i suoi occhi.

Arthur.

Quello che cercava di distoglierlo da un’ipotesi piuttosto che da un’altra, quando indagavano. Quello che aveva fatto rinchiudere Ivan nella stanza ed ora aveva le chiavi tutte per sé, per uccidere senza ostacoli.
«Scheiße!» l’urlo roco del prussiano non riuscì a raggiungere gli altri, e Gilbert provò a sfruttare anche le finestre, ma con scarsi risultati.
«Ivan …» stanco, dopo forse due ore, si ritrovò a sussurrare, quasi senza voce «resisti …»

Quella mattina Arthur lo aveva chiamato, e poi nient’altro.
Non aveva più sentito alcuna voce, alcun rumore. Come se se ne fossero andati tutti.
Era sicuro che assieme all’inglese vi fosse anche il suo Gilbert, che però non gli aveva portato il pranzo come promesso.
Che cosa stava succedendo, oltre la porta?
Quando sentì la serratura scattare rimase immobile alla finestra, voltando appena il viso in un movimento meccanico, ascoltando il pesante scoccare delle lancette che ora segnavano le diciotto.
Eccola lì: la faccia dell’assassino.
Ivan sorrise appena, quando si vide una pistola puntata al petto.
Doveva essere stato un gioco da ragazzi, per quel bastardo.

Lo sparo improvviso scosse Gilbert dai propri pensieri.
Il prussiano si alzò velocemente dal pavimento e, con sua sorpresa, trovò la porta aperta.
«Ivan!» da quanto era aperta? Perché diavolo non aveva controllato prima? Ora … ora rischiava di arrivare tardi.
Attraversò velocemente il corridoio, e poi le scale, una parte del secondo piano, fino a trovare aperta la porta della stanza del russo. Sporca di sangue.
La voce dello spagnolo lo percosse.
L’italiano si alzò a fatica sulle gambe, rispondendo con un filo di voce «s-sì, sono qui …»
Quando Antonio afferrò saldamente la maniglia trovò la porta aperta così come era successo a lui poco prima, nonostante fosse rimasto segregato nella propria camera più o meno a partire dalle dieci del mattino.
«C’è qualcuno lì? Hey guys?!»
La voce squillante dell’americano proveniva dal bagno, e subito Antonio abbassò la maniglia della porta, ma con sua sorpresa la trovò chiusa.
«Feliciano, cerca Arthur e Gilbert! Io ed America vediamo di abbattere questa fastidiosissima porta-»

«I-Ivan …!»
Le sue mani tremarono, già sporche di tutto il sangue impregnato nel cappotto spesso del russo e nella camicia chiara che indossava, sotto di esso.
Un punto troppo vicino al cuore era chiaramente maciullato, un foro pieno di sangue scuro e denso.
«Ivan!»
Il respiro del russo, prima molto accelerato, stava ora diventando a poco a poco più flebile, ma le lacrime calde del prussiano, che ora erano arrivate a bagnare quel viso candido, gli fecero schiudere appena gli occhi. Deboli, già spaventosamente vitrei, spenti. Lucidi di lacrime, forse.
«Gil … per favore … non piangere-»
«Io … Ivan-»
«Coniglietto …» lentamente, una delle mani tremanti dello slavo, si adagiò sulla guancia del prussiano, asciugando via le lacrime.
«I-io credo di essermi innamorato di te-!»
«Io ne sono … ne sono sicuro, invece …» sorrise.
«È colpa mia. Dovevo farti uscire.
Dovevo crederti!» questo no. Questo non se lo sarebbe perdonato tanto facilmente.
«Gilbert …» quello del russo fu un richiamo non solo per attirare la sua attenzione, ma anche per zittirlo.
«Lui ha una pistola … tu procuratene una.
Questo è l’ultimo c-che ci rimane …»
Le dita tozze del russo si schiusero appena, ed un pesante proiettile argentato rotolò lungo il pavimento, sotto gli occhi turgidi di lacrime del prussiano.
«Ci vedremo.
Esci. Fa solo questo, coniglietto …»
«S-scusa.
Scusa! Non eri tu!»
Era la prima volta che chiedeva scusa ad Ivan.
Doveva esserne innamorato per davvero.
Il russo si limitò a sorridergli debolmente, senza scostare quella mano dal suo viso e lasciandosi scivolare una lacrima lungo la guancia pallida.

Gilbert non poté che scoppiare a piangere, quando il tempo gli concesse un ultimo bacio su quelle labbra insanguinate e fredde.
Fredde, come il proiettile che ora stava stringendo disperato fra le mani macchiate di rosso.
   
 
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