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Autore: M e g a m i    20/05/2012    9 recensioni
The Black Order of the Soul Society, meglio conosciuta come The BOSS.
Era una sorta di social network in cui si era trovata coinvolta senza neanche rendersene conto. The BOSS ti attirava a se e ti risucchiava nel suo mondo “oscuro”come il colore del suo layout, e tu ti trovavi a sentire il bisogno di accedere ogni santo giorno, ogni santo momento libero. Era come una droga.
La cosa migliore di tutta quella “organizzazione”, era l’assoluto anonimato che garantiva. Perfino password e indirizzo di posta elettronica che servivano per la registrazione erano forniti dal social network stesso. Non era richiesta nessuna informazione personale, non la data di nascita, non un’immagine del profilo, neanche il nome, solo un nickname modificabile in qualsiasi momento.
Non era facebook.
Era semplicemente l’unico luogo in cui Tatsuki Arisawa riusciva a tirare fuori la vera se stessa, quella sotterrata sotto strati e strati di fogli A4 e retini, e sommersa dall’inchiostro per la G pen.
TheGrimReaper era entrato in chat giusto in quel momento, lesse con un sorriso appena accennato.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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NDA: E siamo arrivati al YuHime.
Facciamo tutti una statua di diamanti a N e m e per aver creato questo cross pairing meraviglioso, e anche per avermi dato l’input giusto per iniziare la loro storia! Grazie, mio gaio tesoro!

E niente... Yucchan è un po’ un bastardello. =w=
Hime... Hime mi fa una tenerezza assurda, accidenti a me. TCT
Vabbè, ecco un altra parolina che forse non conoscete – quanto mi diverto ad inventare i nomi dei locali! x°D -:
  • Oinari, nella mitologia shintoista e buddista, è la divinità della fertilità e del raccolto (una sorta di Cerere giapponese), le cui messaggere sono le kitsune, ovvero i famosi demoni-volpe bianchi.
 
[Crack Pairing] [Grimmjow x Tatsuki] [Lavi x Rukia] [Ichigo x Linalee] [Kanda x Orihime] [Debit x Riruka] [Tyki x Lust] [Starrk x Neliel] [Soi Fon x Hisagi]
 
 
 
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CAPITOLO 4 – Quando si resta soli.
 
 
 
Era una sensazione inebriante, la velocità.
Yu Kanda poteva sentire il freddo dell’aria della sera attraverso i vestiti, pungente, nelle ossa, nonostante il pesante giubbotto di pelle che indossava. I suoi lunghi capelli neri e lisci sferzavano l’aria circostante, e a volte anche il sottile strato di pelle che rimaneva scoperto tra il bavero alzato sul collo e il casco integrale.
Il sole stava tramontando di fronte a lui, dietro la sfilza di edifici grigi, che per lui costituivano l’abituale panorama di tutti i giorni. La visiera oscurata gli riparava gli occhi dalla luce.
Dopo una curva diede gas, piegandosi sulla sua moto come a volersi fondere con essa, come se il suo corpo ne volesse diventare una parte integrante.
A volte quella moto gli sembrava viva. Come un grosso animale, fiero, che ruggiva sotto il suo tocco. Aveva anche un nome, dipinto con un carattere elegante sulla fiancata. Un nome stupido, a dir la verità.
Mugen.
Non era stato Kanda a darglielo, lui non avrebbe mai fatto qualcosa come dare un nomignolo a un oggetto. E non era neanche stato lui a scriverlo sulla sua preziosa, preziosissima moto. Non aveva neanche dato il suo consenso, ma poco importava. Quell’idiota... aveva sempre fatto di testa sua fino alla fine.

Stringendo le manopole sotto i guanti di pelle come il giubbotto, superò un semaforo che stava per diventare rosso.
Sfrecciare tra le macchine su Mugen gli permetteva di non pensare.
Questo finché non si trovava costretto a frenare bruscamente, come in quel momento. Il mondo riprendeva a scorrere alla sua solita velocità, troppo lenta e allo stesso tempo troppo veloce e irraggiungibile per lui, che era rimasto fermo a un momento preciso del suo passato.
Odiava dover frenare, e ritrovarsi catapultato tra il rumore della città e le chiacchiere inutili della gente per strada. Fosse stato per lui, avrebbe continuato a guidare per tutto il resto della sua vita.
Bastava non dover pensare a niente.
Ma no, figuriamoci, ci doveva sempre essere qualcuno o qualcosa a fermarlo. Banalmente, un dannato semaforo. O un agente di polizia che non aveva niente di meglio da fare che dare multe a lui per aver superato il limite di velocità in una zona urbana.
O ancora, una cameriera con dei sacchetti della spazzatura in mano che non guardava neanche prima di attraversare la strada.
   « Si può sapere cosa diavolo hai che non va nel cervello?! », ringhiò tra i denti, furioso, togliendosi il casco e provando quasi il desiderio di lanciarlo contro a quella stupida ragazza per darle una svegliata. Stupida ragazza che lo guardava con occhi vacui, da terra, circondata dai piatti e dalle posate di plastica che erano usciti dai sacchetti neri.
   « I-Io... mi dispiace! », iniziò a dire con un filo di voce, col cuore che ancora le batteva all’impazzata per lo spavento. « Avevo la testa da un'altra parte, e-... »
   « Così finirai per rompertela, la testa! », la interruppe lui, trafiggendola coi suoi occhi scuri, esterrefatto dalla sua leggerezza.
E in effetti, Orihime Inoue ci era andata veramente vicina questa volta. Veramente, veramente vicina.
Era uscita dalla tavola calda in cui lavorava per buttare nei cassonetti per la raccolta differenziata dall’altra parte della strada, la spazzatura che ormai si era accumulata nei cestini del locale. Aveva in mano tre grossi sacchetti, non molto pesanti, ma parecchio ingombranti. Uno le era scivolato di mano nell’esatto istante in cui si accingeva ad attraversare, così lei aveva abbassato lo sguardo, senza rendersi conto della moto nera che stava arrivando a tutta velocità.
Yu Kanda aveva inchiodato, lasciando il segno della sgommata sull’asfalto, a pochi centimetri da un incidente sicuro. Se non fosse stato per i suoi riflessi pronti nel deviare la traiettoria della moto, quella ragazza la testa se la sarebbe rotta davvero, e con tutta probabilità, definitivamente.
Il ragazzo rimase ad osservarla per qualche secondo, respirando profondamente, mentre pian piano la rabbia e lo spavento che si era preso lui stesso, cominciavano a scemare.
Orihime indossava una corta divisa bianca e rossa, che recava lo stesso nome e simbolo dell’insegna di Oinari, ovvero il bar di fronte a lui. Divisa che pareva scomodamente attillata, soprattutto sul petto.
A prima vista sembrava essere sulla ventina, la sua stessa età, ma non ci avrebbe giurato. Quegli occhi grandi e color nocciola che lo fissavano spauriti le davano quasi un aria infantile. Ma la cosa che lo aveva colpito di più, e che probabilmente aveva contribuito a fargliela notare prima che fosse troppo tardi, era quella massa di corti capelli arancioni, tagliati appena sopra le spalle e in un modo talmente casuale da sembrare l’esperimento mal riuscito di una bambina.
La vide cominciare a raccogliere e a rimettere dentro come meglio poteva la spazzatura che era uscita dai sacchetti neri. La voce della sua coscienza gli diceva che forse, ma forse, sarebbe dovuto scendere dalla moto per aiutarla,  perché in parte quell’incidente fortunatamente scampato era avvenuto per colpa sua e della sua spericolata velocità in un’area urbana, come lo avevano più di una volta redarguito quei famosi agenti imbellettati.
Ma se lei si fosse presa la briga di guardare prima di attraversare, lui non avrebbe dovuto neanche fermarsi.
Quindi si portò una mano ai capelli, tirandoseli indietro e sistemandoli in modo che non fossero d’intralcio, sul punto di rimettersi il casco e andarsene, quando un oggetto luccicante vicino al suo piede catturò la sua attenzione.
Era una fermacapelli azzurro, uguale ad un altro che aveva notato sui capelli corti e spettinati di quella ragazza, che ora si era alzata e si stava trascinando fino ai bidoni della spazzatura, tirandosi dietro quei tre sacchetti che, da come si muoveva, sembravano parecchio pesanti.
Alzò gli occhi al cielo, spazientito, valutando quanto cattivo sarebbe stato da parte sua se se ne fosse fregato e avesse spinto sul gas, schiacciando quella stupida mollettina sotto le ruote.
La fastidiosa voce della sua coscienza gli diede dell’insensibile.
Schioccando la lingua infastidito, fece scattare il cavalletto della moto e ne scese, chinandosi per raccogliere il fermaglio. Era rimasto leggermente scheggiato su uno dei sei... petali?, che formavano il fiore su di esso, notò, rigirandoselo tra le dita.
   « Ah, quello...! », iniziò la ragazza, spalancando gli occhi, accorgendosi di ciò che lui teneva in mano. Kanda inarcò un sopracciglio, mostrandole il fermacapelli come a chiedere conferma che fosse suo.
   « Potresti... potresti restituirmelo, per favore? »
E il ragazzo non se lo fece ripetere due volte, letteralmente.
Orihime lo vide piegare il braccio e lanciare nella sua direzione quell’oggetto così prezioso per lei. E istintivamente lasciò andare i sacchetti per prenderlo al volo, facendo sparpagliare nuovamente a terra il loro contenuto, davanti a cui non riuscì a trattenere un gemito e un sospiro sconsolato, mentre cadeva in ginocchio per raccogliere tutto, per l’ennesima volta.
Kanda accennò a un sorriso mentre si rinfilava il casco e sgommava via.
Al diavolo la coscienza.
 
 
 
   « Orihime, ma che è successo?! Sei tutta sporca! »
Entrando  nel locale ormai vuoto, Orihime alzò lo sguardo verso la alta donna dai capelli biondo ramato che indossava la sua stessa divisa, incrociando i suoi occhi di un intenso celeste che la fissavano preoccupati, mentre con una la mano le puliva la terra dalla divisa. Le fece un sorriso.
   « Non è niente, Rangiku-san, sono solo-... », provò a dire, ma non riuscì a continuare perché il suo sorriso si trasformò in una smorfia di dolore, mentre spostava il peso solo su un piede, nascondendo l’altro dietro il polpaccio.
   « Cosa hai fatto alla gamba? », le chiese a quel punto Rangiku Matsumoto, a cui non era affatto sfuggito quel cambio di espressione.
   « Sono... sono caduta. », le sorrise ancora, passandosi una mano tra i corti capelli.
   « È la caviglia, vero? Fammi vedere. »
   « Ma no, davvero, non è nien-ahi. », gemette ancora, visto che istintivamente aveva fatto un passo indietro per sottrarsi alle cure di Rangiku ed evitare di farla preoccupare oltre. Lei però, scaltra, approfittò della situazione per spingere la ragazza su una sedia di legno e sfilarle la scarpa, esaminandole delicatamente la caviglia.
   « Si è gonfiata parecchio. È il caso che ci mettiamo su un po’ di ghiaccio, eh? »
Orihime sospirò e strinse la gonna della divisa nei pugni, vedendosi costretta ad annuire.
   « Arrivo subito, vado a prendertelo nel congelatore. Tu non fare la sciocca e resta seduta. », la ammonì la donna, con un buffetto sulla testa, facendole un sorriso. « Brava ragazza. », canticchiò, per poi sparire dietro le porte a ventola della cucina.
Orihime si lasciò andare contro lo schienale della sedia, sospirando ancora. Non gliene andava una per il verso giusto, ultimamente. Anzi, non ultimamente...
Da sempre.
Abbassò lo sguardo verso la caviglia dolorante. Chissà se sarebbe riuscita a servire ai tavoli zoppicando, pensò con un altro sorriso, che si spense subito. Ma chi voleva prendere in giro...?
   « Gin, ti prego... », sentì all’improvviso la voce di Rangiku, tesa ma fievole come un sussurro, eppure ben udibile nel silenzio del locale. Era sicura che fosse lei, tutti gli altri dipendenti avevano finito il loro turno ed erano tornati a casa. E poi nessun altro si rivolgeva con tanta confidenza al “signor proprietario”. Si sporse appena dalla sedia, quel tanto che le bastò per vedere al di là dei battenti della cucina Gin Ichimaru posare una mano sulla spalla di una Rangiku che lo stava guardando implorante.
   « Credi che per me sia facile, Ran-... », cominciò a dire, anche lui a bassa voce, quando si accorse che Orihime stava ascoltando la loro conversazione. Le rivolse un sorriso, uno di quelli che fin dal colloquio per la sua assunzione avevano avuto il potere di metterla in soggezione. La ragazza ricambiò come poteva, mentre lo osservava spingere con delicatezza Rangiku, che si era girata per guardarla, fuori dal suo campo visivo.
Tornò a stringere i pugni sulle gambe, mordendosi con forza il labbro inferiore.
Non era quello il momento di mettersi a piangere.
Raccolse da terra la scarpa e la calza appallottolata al suo interno, che si rinfilò cercando come poteva di non piegare la caviglia. Poi provò ad alzarsi. Le faceva male, le faceva parecchio male. Ma non aveva intenzione di rimanere lì un minuto di più.
Zoppicando e tentando di fare il meno rumore possibile, prese la sua borsa e la giacca dall’armadietto nella stanza sul retro del locale, ed uscì senza neanche essersi cambiata. Avrebbe lavato e stirato la divisa a casa, e poi gliel’avrebbe restituita nei prossimi giorni. L’importante in quel momento, era arrivarci, a casa.
L’appartamento in cui aveva vissuto per tutti e diciannove i suoi anni di vita, dei quali gli ultimi sette in completa solitudine, non distava molto dall’Oinari, appena una ventina di minuti a piedi. Peccato che uno dei suoi piedi non fosse esattamente nelle condizioni di collaborare in quel momento, ad ogni passo le sembrava che la caviglia fosse trafitta da un migliaio di aghi. Forse avrebbe dovuto aspettare l’autobus, ma non aveva idea di quali fossero gli orari a cui passasse, non l’aveva mai preso per andare e tornare dal lavoro. E poi... e poi voleva solo tornare a casa, il prima possibile.
Strinse i denti, doveva resistere. Ancora poco, Orihime, ancora poco. Ancora-...
Sentì una stretta al petto, e un nodo salirle alla gola, tanto da faticare a respirare, mentre con una mano si appoggiava ad un palo della luce, non riuscendo a camminare oltre.
Perché le cose non potevano semplicemente andare bene per lei? Lei ce la metteva tutta, ce l’aveva sempre messa tutta, ma... ogni volta, finiva nello stesso modo. E finiva per deludere anche le persone che avevano riposto fiducia in lei, persone come-...
   « Orihime! », sentì ancora la sua voce, questa volta non in un sussurro. Stava esclamando il suo nome, chiamandola e sporgendosi dal finestrino della sua macchina grigia, gli occhi celesti densi di preoccupazione. Coprendosi la bocca con la mano, tentando in tutti i modi di ricacciare indietro le lacrime, la vide accostare e slacciarsi la cintura di sicurezza, scendendo di tutta fretta per raggiungerla sul marciapiede.
   « Dio santo, Orihime, non mi fare prendere questi spaventi. Dove diavolo volevi andare ridotta così, me lo spieghi? », sospirò Rangiku scuotendola per le spalle. « Non ti avevo detto di restare dov’eri? »
Orihime per un secondo si perse nel suo sguardo ansioso, odiandosi per la preoccupazione che le stava facendo provare. Non sapeva cosa dirle, e la donna sembrò capirlo. Scosse la testa, facendo un sospiro.
   « Forza, sali in macchina. Ti riaccompagno io. »
   « E Ichimaru-san? »
   « ... Gin si arrangia, tornerà a casa in treno per una volta. Gli farà solo bene, anche se forse non altrettanto ai poverini che gli capiteranno accanto, e che moriranno di paura davanti ai suoi sorrisini “cordiali”. », provò a scherzare Rangiku per alleggerire la tensione, passandole distrattamente una mano tra i capelli.
Ma ancora, era colpa sua. Orihime avrebbe voluto rifiutare tutta quella gentilezza che le veniva offerta insieme a quelle carezze quasi materne, carezze di cui non aveva mai sentito il dolce tocco prima. Eppure, semplicemente, non ci riusciva. In quel momento non aveva la forza per opporsi a niente e a nessuno. Così Rangiku la guidò e sostenne fino al sedile del passeggero, per poi salire a sua volta e partire. Orihime le diede qualche indicazione sporadica a qualche incrocio, cercando di controllare la voce tremante, che la donna cercò in tutti i modi di ignorare per non metterla ancora più in difficoltà.
Quando poi si fermò di fronte al condominio in cui si trovava l’appartamento di Orihime, tra di loro calò il silenzio.
   « Sono... sono stata licenziata, vero, Rangiku-san? Dimmelo, per favore. », chiese infine la ragazza, dopo parecchi minuti in cui aveva cercato il coraggio per porre quella domanda di cui conosceva già la risposta.
Rangiku strinse il volante dell’auto tra le mani, abbassando lo sguardo.
   « Mi dispiace davvero, Orihime. Ma facciamo fatica anche noi a tirare avanti, e non possiamo permetterci di... », non seppe come finire la frase, per non affondare ancora di più il coltello nella piaga.
   « ... Di tenere un peso morto, non è così? Anzi, una combina guai che peggiora le cose e basta. », completò per lei la ragazza, accennando a una risata.
Rangiku non sopportava vederla ridere così, quando si vedeva lontano un miglio dai suoi occhi che voleva solo piangere. Provò il desiderio di abbracciarla, di consolarla come poteva. Ma sapeva per esperienza che in questo modo l’avrebbe solo fatta chiudere ancora di più in se stessa.
Orihime non chiedeva mai l’aiuto di nessuno, e a nessuno lasciava vedere le sue lacrime.
Così si limitò a posare una mano sulla sua, stringendola.
   « Grazie per quello che hai fatto per me fino a questo momento, Rangiku-san. »
   « Sciocca », le ripeté, con quell’appellativo con cui era solita chiamarla, e che più che altro era intriso di calore. « Io non ho fatto proprio niente. Anzi. Avrei voluto fare di più, ma non mi è stato possibile. »
Orihime stava per replicare che non era assolutamente vero, ma la donna la zittì con uno sguardo, incantandola ancora per qualche secondo.
   « ... Fatti sentire qualche volta, Orihime. Il mio numero ce l’hai. Chiamami per qualsiasi cosa, anche solo per una chiacchierata tra donne sul peso della vita. », scherzò ancora, lanciando un occhiata complice al suo seno, e facendola arrossire.
   « Lo farò... lo farò senz’altro. », rispose a quel punto Orihime, promettendosi mentalmente che invece quella sarebbe stata l’ultima volta che l’avrebbe disturbata.
Poi scese dalla macchina, non riuscendo a non rivolgerle un ultimo sguardo prima di chiudere la portiera alle sue spalle.
Rangiku la salutò con la mano fino a che non la vide sparire dietro il portone d’ingresso, mentre con l’altra si teneva la pancia appena accennata, a cui sentiva una stretta.
   « Lo so, piccolo... lo so. »
 
 
 
   « Sai, Nii-san... oggi mi sono slogata una caviglia. E sono anche stata licenziata. Di nuovo. »
Orihime Inoue si lasciò andare ad un'altra risata, seduta a terra, appoggiando al testa contro il muro e stringendo forte il cuscino che teneva tra le braccia. Si era fasciata la caviglia, ma la sentiva ancora pulsare per il dolore sotto le bende e lo strato di crema.
Le stava solo bene. In fondo, era solo colpa sua.
Rivolse ancora lo sguardo verso il piccolo altare disposto nel mobile di fronte a lei, soffermandosi sulla fotografia di quell’uomo che aveva tanto amato.
   « E poi, mmh... ho incontrato una persona. » continuò, sempre rivolgendogli un sorriso. « Aveva... dei capelli bellissimi. Però se n’è andata via subito. »
... Come tutti.
Come te.
E a quel punto, finalmente, lasciò scorrere libere le lacrime.
Sola, come era giusto che fosse.
  
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