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Autore: Writer96    21/05/2012    18 recensioni
Attenzione, Spoiler Mockingjay
Camminiamo piano nel lasciarci alle spalle il Prato e la recinzione, che resiste ancora nonostante sia crivellata di buchi e pressoché inutile.
Come me. Come Peeta.
Non si sa bene come abbia resistito ai bombardamenti. Come sia sopravvissuta e con quale forza sia rimasta lì, in piedi, a vigilare silenziosa come un vecchio guardiano stanco.
Katniss/Peeta, con accenni di Katniss/Gale| Introspettivo, Triste| One Shot, Spoiler!|
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Una volta, nel bosco.

Post-Mockingjay





La prima volta che porto Peeta nel bosco lui sembra tornare un bambino.
Sorride meno di come avrebbe sorriso il vecchio Peeta, ma stringe più forte la mia mano, le sue dita intrecciate alle mie e il pollice che disegna cerchi invisibili sulla mia pelle per tranquillizzarmi.
Camminiamo piano nel lasciarci alle spalle il Prato e la recinzione, che resiste ancora nonostante sia crivellata di buchi e pressoché inutile.

Come me. Come Peeta.

Non si sa bene come abbia resistito ai bombardamenti. Come sia sopravvissuta e con quale forza sia rimasta lì, in piedi, a vigilare silenziosa come un vecchio guardiano stanco. Io e Peeta siamo passati da uno dei buchi nuovi, di quelli più facili da attraversare, di quelli più grandi ed ora siamo qui, immersi nel verde e nel castano caldo delle cortecce degli alberi.
Camminare qui dentro senza un arco in mano, ma solo con la stretta di Peeta come unica arma mi fa sentire a disagio, insicura. Il bosco era un luogo di solitudine, non di contatto. Il bosco era un porto sicuro, l’unico sbocco di libertà.

Il bosco era mio e di Gale.

Fa ancora male pensare a lui, alla sua presenza alle mie spalle e alle sue trappole, che ora sanno troppo di lacrime e di sangue per potermi apparire come realmente sono. La mia stretta sulla mano di Peeta si intensifica, mentre le immagini di Prim –Prim che si gira e mi guarda, prima di sparire nel boato, Prim che mi chiede di cantare, Prim con le mane piene di sangue dei feriti- mi scorrono davanti agli occhi, cercando di impedirmi di avanzare.
Ho iniziato ad avere dei flash, di tanto in tanto, che sostituiscono gli incubi scappati via dopo che ho ricominciato a dormire con Peeta. Sono flash brevi, privi di logica, privi di suono. Solo flash, volti, sorrisi, lacrime. Sangue. Ho imparato a respirare profondamente, quando arrivano, e ad aspettare in silenzio e senza respirare che passino.
Una volta ho dovuto contare fino a quaranta prima di poter respirare di nuovo.
E’ stato quando ho rivisto Prim e la sua coda da paperella passarmi davanti alla Mietitura.

-Katniss, se non stai bene possiamo tornare indietro. Torneremo un altro giorno, io non ho fretta...- mi dice Peeta e io mi accorgo di essere caduta e di avere le mani e le ginocchia ricoperte di foglie secche e di muschio. Scuoto la testa e rimango a terra, trattenendo un conato che minaccia di squassarmi ancora di più.
Come se il male fisico tentasse di competere con quello mentale.
-Andiamo. Voglio farti vedere una cosa...- borbotto, rialzandomi e stringendo la mano che Peeta mi porge un istante dopo avermi sentito parlare. Avanziamo più velocemente, spinti da una frenesia che ci consuma le gambe. Mi accorgo solo dopo che stiamo scappando.
Dalla recinzione, o forse da noi stessi.

La seconda volta che mi ritrovo per terra, la colpa non è mia.
O almeno, non direttamente.
Peeta è più avanti di me, le mani sulle orecchie, come faceva Annie, e gli occhi chiusi e la bocca contratta. Io lo guardo, sentendo il mio palmo che brucia, vuoto, mentre non riesco a trovare la forza di rialzarmi. Sussurro il suo nome, una, due cento volte. E alla fine lui smette di tremare e apre gli occhi, guardandomi, mentre le sue mani si abbassano e lui crolla, esattamente come ho fatto io.
Vorrei urlare, urlare la mia rabbia perché chi ci ha resi questo, due relitti umani che strisciano cercando di avanzare, deve sapere che cosa ha fatto. Non urlo, ma mi avvicino a Peeta spingendomi sulle ginocchia e lo abbraccio, cullandolo come facevo quando Prim aveva un incubo e si svegliava piangendo.

-Canta per me...- mormora, o forse sono io che voglio sentire quelle parole, mentre i suoi capelli biondi si intrecciano davanti ai miei occhi e la sua camicia pende fuori dai pantaloni.
Mentalmente confusa.
Mi sembra quasi di sentire il braccialetto che avevo nel 13, quello che mi condannava, quello che mi metteva davanti la pura verità. Ero e sono solo un pedone che ha avuto il coraggio di fare scacco al re, ritrovandosi però da solo sul fondo della scacchiera.
No, non da sola. Non sono sola, non ancora.
Stringo Peeta più forte, mentre intono le quattro note di Rue e poi inizio a cantare la Canzone degli Impiccati. I suoi muscoli si rilassano, la mia presa si allenta, e alla fine della canzone posso sentire distintamente l’eco delle Ghiandaie sopra la mia testa.
-Che cosa dovevi mostrarmi?- domanda lui, mentre allontana le mie braccia da lui per potersi rialzare. Non mi parla mai dei suoi flashback. Non dice cosa vede, non dice di cosa ha paura. Ogni tanto tira ancora in ballo la storia del Vero o Falso, ma sembra farlo più per abitudine che per convinzione. E io lascio che sia così, perché vorrei solamente che tutto tornasse normale.
Vorrei solamente che tutto ciò che ho amato tornasse.
Questa volta sono io a prenderlo per mano e a spingerlo a camminare, accorciando i passi per permettere alla sua gamba di metallo di farsi strada tra rovi e foglie morte. Riusciamo a non cadere più, anche se a volte siamo costretti a fermarci, mentre i ricordi tornano e ci travolgono, come la pioggia di sangue nella seconda arena. Ci sorreggiamo a vicenda, sembrando due ubriachi che cercano la strada di casa.
E non la trovano.
Ricordo che un tempo, quando io ero piccola e mio padre cantava ancora per le Ghiandaie, c’era una coppia di anziani qui nel 12. Lei era cieca, lui zoppicava. Insieme, attraversavano la piazza più volte al giorno, guidandosi a vicenda e facendosi scudo l’un l’altra.
Come me e Peeta.

Il Lago si apre davanti ai miei occhi e sento le lacrime pizzicare, prima di iniziare a scendere a fiotti lungo le guance. Peeta è in silenzio e guarda continuamente l’acqua, che scintilla sotto la luce del sole.
Ho paura che quel brillio sulla superficie venga scambiato per un’allucinazione, all’improvviso, e mi volto, per cercare dei segni sul suo volto.
Ma l’unica cosa che trovo sono le sue labbra contratte e una cicatrice lungo la fronte.
Tiro fuori dalla bisaccia un pezzo di pane e glielo porgo, iniziando a mangiare in silenzio.
E poi, il fiume.
Gli racconto di mio padre, che mi portava qui e che mi ha insegnato a nuotare, delle sue canzoni preferite e della volta in cui trovammo una cerva con il cerbiatto appena nato. Gli racconto della volta in cui incontrai Gale e persino la storia vera della capra di Prim.
Parlo anche di lei, delle sue manine delicate e delle volte in cui faceva di tutto pur di farmi ridere. E alla fine dentro di me c’è un vuoto consolante, che non evidenzia la mia solitudine, ma anzi, la nega.
Peeta si gira e mi bacia, premendo le labbra sulle mie con insicurezza per qualche secondo, poi si alza e si toglie le briciole dai pantaloni, porgendomi una mano per farmi rialzare.
Non parliamo per tutto il ritorno ed è ormai buio quando entriamo in casa, con ancora delle tracce di foglie addosso, che scompaiono a poco a poco mentre ci muoviamo, preparando la cena.


Andiamo nel bosco anche i giorni successivi e rifacciamo sempre la stessa strada. Iniziamo a variarla con il tempo e permetto a Peeta di scoprire angoli del bosco che non avrebbe mai immaginato.
Non lo porto al recinto delle fragole. Quando torno a casa e gliene porgo, lui non dice niente, sorride e basta. Non potrei spiegargli il motivo del mio rifiuto di parlarne e lui non potrebbe capirlo, così come io ho rinunciato a chiedergli perché ha riaperto la pasticceria e a volte entra di mattina ed esce a sera tarda.
Certe cose, come i ricordi, vanno lasciate in pace.








Ed eccomi qui.
Alla mia seconda storia sugli Hunger Games (dovrò inserire questo fandom tra quelli della presentazione, damn it!).
Triste e priva di senso.
Ma avevo questa immagine in mente, quella di Katniss e Peeta che camminano barcollando immezzo al bosco, prigionieri dei loro ricordi.
E l'ho voluta scrivere.
Non mi piace, non mi convince e tutta questa roba qui.
So che non vi piacerà, che direte che non ha senso. Vero, verissimo.
Ma dovevo scriverla.
Mockingjay mi ha lasciata con l'amaro in bocca.
Per chi mi conosce, sa che amo Gale.
E infatti, Gale, qui dentro c'è. Sta a voi cercarlo e trovarlo, anche dove non pensate che sia.
I flash di Katniss li ho immaginati molto simili a quelli di Peeta, solo che si tratta solo di immagini vere, che portano con sè la consapevolezza di essere avvenute. Non dico perchè Katniss porta Peeta nel bosco. Non penso sia necessario, ma se devo esplicitarne la ragione, credo sia dovuto al fatto che Katniss voglia tornare a vivere. E lei, nel bosco, ci vive, fa parte di lei.
Penso si ambienti in quell'arco di tempo in cui nel libro dice che Katniss e Peeta scrivono un libro (pardon per la ripetizione). Niente.
Ditemi se non vi è piaciuta o se vi è piaciuta.
Un bacio
Writ
   
 
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