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Autore: _maya96_    21/05/2012    2 recensioni
Era accaduto tutto così velocemente, neanche mi ero resa conto di cosa fosse realmente successo. Una serie di immagini sfocate, a cui cercai di dare un senso, mi trapassò la mente, mentre chiudevo gli occhi, forse per l’ultima volta.
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Klaus, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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-Lost-


 
 
 
Mi chiusi violentemente la porta alle spalle. Sbarrai tutte le finestre, con ancora il fiatone per via di quella folle corsa.
La paura mi aveva condotto fino a casa. Non so per quanto tempo avevo corso, volevo solo lasciare quel posto e scordarmi di quel volto che avevo visto.
Ma non ci riuscii.
La sua immagine mi era impressa nella mente, come una fotografia e non aveva intenzione di lasciarmi. Avevo il terrore di chiudere gli occhi, anche solo per un singolo istante, anche solo per un misero secondo.
Non volevo ricordarmi di quello sguardo terrificante, di quegli occhi neri come la morte, di quel ghigno malefico, di quel volto perfetto da sembrare un angelo, ma che in realtà, nascondeva un demone.

Ma che cosa voleva da me?

Perché mi perseguitava? Perché ogni volta che mi voltavo me lo ritrovavo di fronte e poi spariva nel nulla?
Forse stavo diventando pazza. Forse tutto quel dolore che provavo era come una malattia, che mi divorava la mente, così piano da non farmene accorgere, ma così inevitabile, da non avere altra scelta.

Un’altra scelta. Vi è sempre un’altra scelta, solo che forse è così difficile da prendere che non ci fermiamo neanche a pensare. Agiamo d’istinto, scegliamo la via più facile, la prima che ci viene in mente, senza neanche chiederci se è quella giusta o sbagliata o se ce ne sono delle altre.

La paura. La paura non ci fa pensare, ci rende ciechi, stupidi, di fronte alle conseguenze, di fronte agli atti che compiamo, senza riflettere ai danni che le nostre scelte possono procurare.

Se mi fossi fermata a pensare, se solo non fossi scappata da quel bosco, se solo non avessi lasciato che quella paura mi dominasse. Forse a quest’ora sarei morta, forse avrei scoperto che era tutto solo uno scherzo che la mia mente mi giocava, che quel volto non era nessuno, ma solo l’incarnazione del mio terrore. Forse.
La mia vita era tutto un forse. Non ho mai preso la decisione giusta e ho sempre vissuto con i rimorsi. Con quella sensazione che ti logora all’interno, ma non ti ferisce esteriormente, così nessuno si accorge che stai soffrendo e tu rimani da sola, senza nessuno a cui chiedere aiuto.


Perché la vera solitudine non è quando ti trovi da solo in una stanza buia, ma quando sei circondata da tantissima gente, ma sei come invisibile. Come se tu urlassi, ma nessuno ti sentisse, come se ti agitassi, ma nessuno ti vedesse.

Aprii il getto caldo della doccia e lasciai che quell’acqua bollente mi colpisse con furia.
Mi sembrò di stare meglio, come se quell’acqua facesse scorrere via anche i miei pensieri, come se mi liberasse da quell’opprimente peso, che mi gravava sul cuore, mentre quelle gocce mi scorrevano lungo tutto il corpo, per poi cadere ai miei piedi mischiandosi con altre, creando un mare di pensieri che volevo dimenticare.

I capelli, che da bagnati erano ancor più lunghi, mi coprirono l’intera schiena, piegandosi a quel forte getto che li sottometteva. Li presi tra le mani, li misi tutti dalla stessa parte del collo e li strinsi lievemente, per liberarmi da quell’enorme peso causato dall’acqua.

Mi appoggiai con le spalle nude alle mattonelle bianche dietro di me e un brivido di freddo si scontrò con il calore dell’acqua, che ancora scorreva senza fermarsi.

Le lacrime mi scesero copiose dagli occhi chiusi, mentre piegavo la testa verso l’alto, per farle confondere con le gocce d’acqua, ingannando anche me stessa, che quelle lacrime non esistessero, che tutti quei problemi non fossero reali, ma solo incubi e che bastava risvegliarsi da quel lungo sonno, per cancellarli definitivamente, ma io avevo paura che fosse tutto così dannatamente reale.

Ero così presa dai miei pensieri, che non mi ero accorta di non avere più la mia collana appesa al collo.

Uscii dalla doccia e l’aria fredda mi sfiorò la pelle bagnata. Indossai un accappatoio e me lo strinsi forte attorno al corpo tremante. Mi piegai sulle ginocchia, stringendo i denti per il forte dolore, che quella ferita mi procurava e perlustrai ogni singolo angolo della stanza, cercando la mia collana, ma niente, non la trovai da nessuna parte.

 

* * * *
 

Guardai attraverso le tapparelle della mia finestra. Quella collana doveva trovarsi la fuori. Ma dove? Dove diavolo poteva essere? Avevo cercato per tutta la casa, ma sembrava sparita.
Pensai all’ultima volta che me l’avevo vista indosso.
Nel bosco.
Mi venne subito in mente quella folle corsa contro il tempo e quella caduta. Sicuramente l’avevo persa quando ero inciampata su quella pietra e poi mi ero ferita.

Forse era meglio lasciar perdere, infondo era solo una collana, neanche avesse tutto questo valore. Perché tornare in quel luogo spaventoso solo per cercarla? Magari non la trovavo neanche.
Però mi sentivo vuota senza di lei, l’ho sempre avuta indosso da che ho memoria, non me ne separavo mai, era una parte di me, che era rimasta, quando i miei genitori mi avevano lasciata. Non potevo perdere anche lei.

Afferrai la maniglia della porta con forza, decisa di uscire per andare a cercarla. Feci un lungo respiro, preparandomi a ciò che avrei potuto vedere e l’aprii velocemente facendola sbattere al muro dietro di me.
Urlai.
Urlai quando mi trovai davanti una figura incappucciata che tese le mani verso di me. Urlai per quel pianto di sottofondo, che superava il forte rumore del vento, che si era alzato incredibilmente, da quando ero tornata a casa.
Urlai di nuovo, quando quella misteriosa figura si tolse dal viso quel cappuccio, che le nascondeva il volto dal sole, che stava tramontando dietro di noi e il vento le mosse i capelli, scostandoglieli dal viso.

“Si può sapere perché stai urlando in questa maniera?”  Mi disse mia zia cogliendomi alla sprovvista.

Tirai un sospiro di sollievo non appena la vidi e sentii la sua voce leggera. Ma non risposi, non dissi niente. Non riuscivo a parlare, scossa ancora da quella paura di poco prima che mi aveva fatto sobbalzare il cuore nel petto e mi aveva tolto il respiro, che adesso cercavo di recuperare, piegandomi su me stessa e tenendomi allo stipite della porta.

“Mi-mi dispiace” riuscii alla fine a dire, alludendo al piccolo Joseph che non smetteva un attimo di piangere, perché l’avevo sicuramente svegliato e spaventato con le mie grida di poco prima.

“Non ti preoccupare” disse sorridendomi lei visibilmente stanca, mentre lo prendeva in braccio, cercando di farlo calmare.

Mi spostai da un lato e mi schiacciai alla porta facendomi piccola per farli passare, dopodiché diedi una fugace occhiata intorno a me.

Il buio sembrava avesse inghiottito il cielo e avesse nascosto quel tramonto stupendo, che solo in quel luogo si poteva vedere. Dei nuvoloni scuri presagivano un violento temporale, mentre la terra era invasa da ombre oscure, che facevano paura. Quel vento sembrava non volesse smettere di colpirci con il suo gelo, rompendo il silenzio tranquillo, che mi aveva accompagnato per tutto il giorno.

Dovevo ancora abituarmi a quei cambiamenti che interessavano la città. Dove al mattino quel tiepido sole si rifletteva nell’aria, regalandoci il suo calore, e poi alla sera quel forte vento spezzava senza pietà, quell’illusione che ci eravamo creati.

Un po’ come la vita. Dove si crede di vivere in pace e serenità e senza pensare a ciò che invece potrebbe capitare. Poi arriva quella folata di vento tanto potente, quanto inaspettata, che porta via tutto. Tutti i sogni, tutti quei desideri che hai sempre sperato si avverassero, ma che ora invece, sono solo un tenue ricordo, sepolto in chissà quale parte della mente, che cerca in tutti i modi possibili di ritornare in superficie, e a volte, un po’ per stanchezza, un po’ per solitudine, gli permettiamo di riaffiorare, assaggiando il dolore e la gioia, che esso ti porta.

Mi chiusi la porta alle spalle, zittendo quel vento, che continuava a gridare.
Chiusi per un attimo gli occhi, assaporando di nuovo quel silenzio, che però durò solo pochi istanti. Joseph si rimise a piangere, ancor più forte di prima, costringendomi a tappare le orecchie, per non far aumentare quel forte mal di testa, che mi aveva colpito, quando ero nel bosco.

“Siamo tornati prima, perché Joseph si sentiva poco bene” disse mia zia, rispondendo alla domanda che era rimasta nella mia mente, ma che lei, non so come, aveva sentito.

“Che cos’ha?” Chiesi preoccupata io, avvicinandomi al bambino che piangeva ancora.

“Non ne ho idea, è tutto il giorno che fa così. Domani lo porto dal medico”  

Mi feci ancora più vicina e lo presi tra le braccia, cercando di calmarlo. Era così piccolo, che avevo paura di fargli del male, ogni volta che lo sfioravo. Quella pelle così morbida che profumava di borotalco, quei riccioli biondi che incorniciavano quel viso così minuto, quelle guance rosee e quegli occhi grandi e verdi che aveva sicuramente preso dalla mia famiglia. Così innocente da far intenerire chiunque lo guardasse, ma con quella vocetta squillante, che ti fracassava i timpani, ogni volta che voleva qualcosa.

Lo dondolai delicatamente tra le braccia, cantando una leggera melodia per farlo addormentare, con parole di cui non conoscevo il significato.
Erano più suoni che frasi. Lievi sussurri melodici, che si contrapponevano tra loro, che si rincorrevano giocosi, portando quiete a ciò che ci circondava.
Raccontavano una storia, di cui non conoscevo né l’inizio, né la fine, ma immaginavo fosse la custode di una cultura lontana, che veniva tramandata per far rimanere vivo il suo ricordo, per non farla morire, ma per farla continuare a vivere tra i secoli, nella speranza che un giorno, potesse essere compresa.

Joseph si calmò e chiuse piano i suoi occhi verdi, il suo respiro divenne più regolare, mentre quella piccola bocca dalle labbra rosse, che prima gridava, ora taceva.
Il suo capo si posò delicatamente sulla mia spalla, come se fosse guidato da quella leggera cantilena, che lo stava accompagnando nel mondo dei sogni.
La stretta della sua minuta mano sul mio dito, divenne sempre più leggera, fino a diventare nulla, non appena finì quella magica melodia.

“È bellissima, dove l’hai sentita?” Mi sussurrò mia zia, che era rimasta per tutta la durata della canzone ad ascoltarmi in silenzio.

“Non ne ho idea, non conosco neanche il significato” ammisi io sempre sussurrando, per non svegliare Joseph.

“È davvero stupenda” continuò lei sorridendomi e riprendendosi lentamente il bambino tra le braccia.

“Grazie” le risposi abbozzando un mezzo sorriso.

La vidi lasciare la stanza, per poi scomparire dietro la porta, con la sua ombra, che lentamente la seguiva.


* * * *
 

Fui svegliata di soprassalto da delle forti urla.
Aprii di scatto gli occhi spaventata, ma il completo buio mi circondava. Mi misi seduta sul letto, cercando di ritornare in me, perché quel sonno spezzato così improvvisamente, mi aveva confusa.

Tastai il comodino con la mano, cercando il pulsante della lampada e dopo un po’ di tempo lo trovai. Quella calda luce inondò la stanza, dando una forma e un colore a ciò che prima era solo un’ombra. Sbattei più volte le palpebre, cercando di abituarmi a quel bagliore accecante.

Un altro urlo.

Mi alzai di scatto dal letto, inciampando nel lenzuolo che si era arrotolato sul pavimento e gemendo di dolore, quando il mio ginocchio toccò per terra. Mi rimisi subito in piedi, barcollando leggermente, per quel modo brusco con cui ero stata svegliata e mi fiondai nelle scale.

Quelle urla e quel pianto si facevano sempre più vicini, cercai di capire da dove provenissero. Mi diressi nella cucina, dove la luce era accesa e delle ombre si muovevano all’interno.

Joseph piangeva come mai lo avevo sentito prima. Le sue urla erano assordanti, il suo pianto era isterico e lo costringeva a fargli fare delle brevi pause, per riprendere fiato, tra un grido e l’altro. Ma poi continuava ansimante, le sue piccole mani si agitavano nell’aria e stringevano quei morbidi ricci biondi per poi tirarseli a sé, il suo viso rosso per via delle lacrime, si contorceva lamentoso e i suoi occhi verdi restavano serrati, privandoci della loro bellezza.
Mia zia cercava di calmarlo, ma niente, fu tutto inutile, lui non smise un attimo di gridare.

“Che cos’ha?” le chiesi spaventata avvicinandomi a loro.

“Non lo so, non sta bene. Enry non c’è, è al lavoro e io non so cosa devo fare, ho provato di tutto”.

Mi si strinse il cuore a vedere quella ragazza, non tanto più grande di me, così in difficoltà, mi avvicinai e lo presi tra le braccia, non con poca fatica, perché continuava ad agitarsi, tanto che avevo paura di farlo cadere e incominciai a cantare di nuovo, quella canzone priva di senso.
Questa volta però, lui non smise di piangere, anche se sembrava essersi un po’ calmato.
Decisi così di andare alla farmacia più vicina, per vedere se avevano qualcosa.

Presi il cappotto, me lo infilai sopra il pigiama e indossai le solite scarpe da ginnastica sopra i piedi nudi.
Aprii la porta e una folata di vento mi scompigliò i capelli, che tenevo sciolti sulle spalle.
Mi strinsi ancor di più nel cappotto e mi incamminai verso la farmacia.


* * * *
 

Ci volle un po’ prima che arrivai. Non tutte le farmacie erano aperte a quell’ora, ma alla fine l’avevo trovata, anche se non era tanto vicina.

Camminai lungo la strada inghiottita dal buio, che ogni tanto veniva spezzato dal faro di luce di qualche lampione.
Il vento soffiava impetuosamente su di me e da quei nuvoloni neri, che nascondevano la luna, incominciò a cadere qualche goccia di pioggia.
Dannazione.

Allungai il passo, mentre quel vento che correva opposto a me, mi trafiggeva. Il rumore dei miei passi rimbombava nell’aria e il mio respiro creava delle nuvole bianche, che scomparivano dopo pochi secondi.

Svoltai l’angolo di corsa, quando la pioggia si fece più forte. Piccoli battiti mi rimbalzavano sulla testa, mentre quell’acqua mi bagnava i capelli e i vestiti.
La busta con le medicine che tenevo in mano, oscillava velocemente, mentre correvo. La strinsi fra le mani fredde, per non far cadere nulla, di ciò che si trovava al suo interno.

Poi mi fermai di scatto e cambiai strada, quando senti il vociferare di qualche ragazzo, probabilmente ubriaco, dall’altra parte della strada. Cercai di non farci caso e continuai ad andare avanti, ma quelli sembravano essersi accorti di me e li sentii parlare tra loro.

Camminai velocemente, cercando di far in fretta, mentre sentivo le loro voci farsi sempre più forti e vicine.

Cambiai di nuovo strada, quando sentii i loro passi e i loro respiri, dietro le mie spalle.
Poi sentii la loro voce roca, mi chiamavano e mi dicevano di fermarmi con loro, ma io non li ascoltai, non mi voltai neanche e incominciai a correre spaventata.

Anche loro cominciarono a correre dietro di me. Tutto divenne una gara, a cui io non dovevo assolutamente perdere.
Le mie gambe si muovevano veloci, cercando di sconfiggere la forza del vento, la pioggia incessante e quel dolore che mi attanagliava il ginocchio.

La paura mi guidava alla cieca, non mi faceva pensare, non sapevo dove andare o a chi chiedere aiuto. La voce non mi usciva dalla bocca, mi si spezzava in gola e nessuno ascoltava i miei gridi silenziosi.

Come in alcuni sogni, dove non si riesce né a parlare, né a correre, così rimani immobile, cercando di sconfiggere quell’incubo. Ma questa era la realtà, non potevo svegliarmi e far cessare tutto quanto.

Dovevo essermi persa, svoltavo alla prima strada che trovavo, mentre quegli uomini si facevano sempre più vicini, traendo a loro vantaggio la mia paura, che mi faceva agire d’impulsività.

Cambiai ancora una volta strada, ma mi trovai davanti uno di quegli uomini che m’inseguivano. Allargò le braccia per bloccare la mia fuga, sapendo che non potevo scamparmela. Mi afferrò per un braccio e mi tirò a sé.
Mi scontrai con il suo corpo, mentre le sue braccia mi tenevano ferma e io lo imploravo di lasciarmi andare, ma la mia voce era rotta dal pianto e lui parve ridere di questo.
Non so come, ma riuscii a colpirlo alla gamba, con una forza tale, che solo la paura poteva darmi. Lui mollò la presa per un attimo, ma che bastò per darmi il tempo di liberarmi dalla sua possente stretta.

Mi voltai per riprendere la mia corsa, ma gli altri mi raggiunsero e mi tirarono per i vestiti, bloccando ogni mio tentativo di fuga.

La busta con le medicine per Joseph mi cadde dalle mani e un rumore di vetro rotto scavalcò quello del vento.
Venni tirata indietro e sbattei la testa allo spigolo del muro di una casa, mentre dalla fronte incominciò a fuoriuscire un rivolo caldo di sangue.

Loro mi afferrarono, cercando di fermare ogni mio movimento e incominciarono a ridere, per quella mia ostinazione.
Una risata che faceva male, che mi ricordava, che questa volta era davvero finita, che non potevo più far niente. Mesi e mesi cercando di andare avanti, cercando di dimenticarmi di quell’incidente e di quella morte a cui ero sfuggita.
Ma questa volta non avevo scampo.
Ma non volevo arrendermi, volevo almeno provare. Volevo lottare per quella vita, di cui avevo scoperto solo ora il suo valore.

Poi sentii un urlo.

Uno di quegli uomini si accasciò al suolo senza vita, con il petto insanguinato. Gli altri si alzarono, mentre uno di loro mi teneva per un braccio. Si avvicinarono all’amico, ma sobbalzarono dalla paura, quando lo videro morto. Incominciarono a guardarsi intorno ed ad agitarsi per ogni minimo rumore.

Anche io avevo paura. Quell’uomo era morto senza spiegazione, ma riuscii comunque a trovare il coraggio per provare a liberarmi, approfittando della situazione. Ma quello che mi teneva, non me lo permise. Strinse ancor di più la sua presa, facendomi urlare per il dolore.
Il mio grido fece sconcertare gli altri due, che voltarono lo sguardo verso di noi, allarmati.

Poi sentii un altro urlo. Mi voltai verso il punto da cui proveniva e notai che uno di loro era scomparso. Era svanito nel nulla e ora solo il buio occupava il suo posto.
Qualche secondo dopo il suo corpo, con il collo lacerato, cadde davanti ai nostri occhi, che si inorridirono alla vista di quell’immagine.

Non avemmo nemmeno il tempo di correre via o di dire qualsiasi cosa, che l’altro ragazzo venne afferrato per le spalle e fatto cadere a terra. Qualcuno nell’ombra lo prese per le gambe e incominciò a tirarlo a sé, mentre quello urlante si aggrappava all’amico rimasto, per cercare aiuto, che però si liberò dalla sua presa e lasciò che le tenebre lo inghiottissero, insieme alle sue urla strazianti.

L’uomo che mi teneva e l’unico a non essere sparito, mi liberò dalla sua stretta, e preso dalla paura cominciò a correre senza meta, come io poco prima, non sapendo che andava incontro alla morte.

Una figura mi passò accanto. Lo capii dall’aria che venne spostata di colpo, e chiusi gli occhi, pensando che fosse arrivato il mio turno. Ma lui non si fermò accanto a me, proseguì dritto fino a prendere quell’uomo che stava correndo, per poi ucciderlo senza pietà.

Vidi tutta la scena, perché illuminata dalla tenue luce di quel lampione. Quell'ombra si piegò su quell’uomo, afferrandolo per il collo e poi lo morse succhiandoli via la vita. Quello si accasciò a terra, emettendo il suo ultimo grido, mentre quello finiva la sua opera, per poi liberarsi di quel corpo, gettandolo a terra.

Non ebbi il coraggio di muovere un singolo muscolo, come se fossi sotto l’effetto di qualche sorta d’ incantesimo. Rimasi immobile per tutto il tempo di quella macabra esecuzione, di cui ero la spettatrice e forse dopo, la prossima vittima.

Mi si bloccò il respiro, quando si voltò verso di me. La luna si liberò da quelle nuvole e illuminò il suo volto.

L’angelo dagli occhi di ghiaccio.

Restammo per qualche attimo a fissarci. Lui la mia paura e io quegli occhi neri, che pian piano tornavano azzurri e la sua bocca sporca di sangue. Quelle labbra scarlatte vennero accentuate dal pallido chiarore della luna, che assisteva a quella scena impotente.

Feci un passo indietro, quando lui ne fece uno avanti e poi un altro ancora.
Brividi mi pervasero la schiena, mentre vedevo quel volto, così perfetto e spaventoso, che portava solo morte e paura.

Poi trovai quel coraggio di voltarmi indietro e correre via, come per provare a sfuggire a quella mia fine imminente, un’altra volta. Ma lui, con una velocità assurda per un essere umano, si materializzò davanti a me. Mi fermai di scatto, per non scontrarmi con il suo petto, ma caddi all’indietro, perdendo l’equilibrio. Le pietruzze della strada mi si conficcarono nelle mani, che mi erano servite come sostegno, mentre cadevo.

La pioggia continuava incessantemente ad imbattersi su di noi e quelle gocce d’acqua li cadevano tra i capelli chiari, per poi scorrere lungo la pelle candida del viso, dai lineamenti marcati, mentre un lampo illuminò il cielo a giorno e brillò nei suoi occhi di ghiaccio, rendendoli argentei.

Arretrai, mentre lui si avvicinava lentamente.
Non gli serviva la forza o la velocità, poteva uccidermi in qualsiasi momento, senza usare la minima fatica e sembrò che volesse allungare, quella mia terribile agonia.

Le mie spalle si scontrarono con il muro della casa di prima, arrestando quel mio patetico tentativo di salvarmi la pelle.
Non avevo vie di fuga, non potevo muovermi o andare da nessuna parte, lui si avvicinava sempre di più e ogni suo passo, mi portava sempre più vicina alla morte.

Si piegò su di me e avvicinò il suo viso al mio.
Il suo freddo respiro soffiava sui miei occhi, mentre il mio sembrava avesse paura di uscire.
Sentivo il mio cuore battermi così forte nel petto. Era l’unico rumore che sentivo, quello della pioggia e del vento, erano spariti.

Eravamo io e lui. Il nulla ci circondava e il tempo si era fermato.

Allungò la sua mano verso la mia fronte e le sue dita affusolate e gelide passarono sulla mia pelle, creando una scia di ghiaccio, che mi fece per un attimo chiudere gli occhi, per cercare di combattere, quella strana sensazione. Le sue dita poi, si sporcarono del mio sangue, per poi portarsele alla bocca carnosa.

Una sensazione di ribrezzo mi assalì, mentre la paura cresceva sempre di più e mi costringeva a tremare e a piangere involontariamente davanti alla sua immagine, davanti alla sua bocca rossa, che si allargò in un terribile sorriso, mentre le sue labbra scarlatte assaggiavano il mio sangue.

Poi allontanò la sua mano dalle labbra e si avvicinò pericolosamente a me.
La distanza che ci separava era quasi nulla, provai ad allontanarmi, ma lui m’incatenò il viso fra le sue gelide mani, non permettendomelo. Una serie di brividi mi percorsero tutto il corpo, mentre quella sensazione gelida, provocata dalle sue mani, mi investiva.

Chiusi gli occhi, quando i suoi pollici mi accarezzarono le guance, cercando di asciugare le mie lacrime che si confondevano tra la pioggia, ma che lui comunque aveva scorto.
Il suo sguardo tagliente m’immobilizzava, mentre le sue pupille, nelle quali mi riflettevo, si dilatarono.

Ti dimenticherai di tutto.

La sua voce, da un forte accento marcato, mi giunse alle orecchie. Mi invase il corpo, attirandomi a sé, come una falena dalla luce.
Mi si insinuò nella testa non dandomi scampo e mi penetrò nel cervello, cancellandomi ogni ricordo di questa notte, senza che io potessi far nulla per impedirlo.

Ti dimenticherai di me.

Un’altra lama mi trafisse la testa in una morsa letale, mentre cominciavo a vorticare tra le sue mani, che mi tenevano salda.

I suoi occhi, incredibilmente vicini, non smisero un attimo di fissare i miei, mentre ripetevo come una macchina ciò che lui mi aveva detto.
Il buio m’inghiottì, mentre cadevo in quelle tenebre, che circondavano quell’incubo, fino a farlo soccombere lentamente.

Chiusi gli occhi, che mi bruciavano per quelle parole di ghiaccio. Le sue mani mi tenevano ancora la testa delicatamente, come per non farmi del male e il sonno mi raggiunse, mentre quella paura scompariva insieme ai ricordi, nella più totale oscurità.

Poi più nulla.
  
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