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Autore: Ortensia_    21/05/2012    1 recensioni
Dodici, e le lancette scorrono.
Qualcosa li ha condotti al numero 50 di Berkeley Square, e non vuole più lasciarli andare.
Vive nelle fondamenta, nel vuoto. Si nutre della paura e spezza quei sentimenti che riescono a toccarsi con dolcezza nella casa spettrale di Londra.
...
Cos'è? Chi è?
...
Genere: Dark, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Allied Forces/Forze Alleate, Altri, Austria/Roderich Edelstein, Bielorussia/Natalia Arlovskaya, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Can you hear the World?'
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XIV - Cecità



«Antonio! Alfred!» l’ispanico e lo statunitense si affrettarono a sollevare la porta rotta e lasciare il bagno, raggiungendo Feliciano che ora piagnucolava nel bel mezzo del corridoio.
«Anche la porta di Arthur è chiusa!»
Senza dire una parola, Alfred, gli passò accanto e si diresse alla biblioteca, seguito subito dopo dagli altri due.
«Arthur?!»
«Alfred! Apri questa fottuta porta!»
Sì, stava bene, ed Alfred non poté che tirare un sospiro di sollievo, quando ne ebbe la conferma.
Dopo diverse spallate, anche la porta della biblioteca cedette e si abbatté a terra.
L’inglese vi passò sopra senza troppi complimenti, uscendo dalla stanza.
«Ho sentito uno sparo, cosa è stato?»
«In biblioteca eh?!
Maledetto bastardo!»
Arthur si ritrovò in un attimo con la schiena aderente al legno scheggiato della porta, lo zigomo pulsante e l’occhio completamente chiuso, a causa del pugno che gli si era appena schiantato sul viso, le mani del prussiano strette al collo, il viso rabbioso dell'albino a sovrastare il proprio.
«Nascondevi le tue chiavi, vero?!
Mai mettersi contro la Magnifica Prussia!»
Era davvero arrabbiato.
Arthur sentì il legno squarciare la camicia, e poi penetrare nella pelle, il respiro mancare.
Cercò di tossire, aprire anche l’occhio ferito, portando le mani a quelle del prussiano, ma in un attimo, lo spagnolo e l’americano, glielo strapparono di dosso e si misero fra loro.
«Du Bastard!»
«F-fuck …» Arthur sibilò come un serpente affamato avrebbe fatto contro la propria preda, senza poter contrastare la voce roca del prussiano, come quella di un corvo rabbioso a cui hanno rubato la carcassa.
«Gilbert! Calmati adesso-!» Antonio si chinò sull’amico, adagiandogli pesantemente le mani sulle spalle.
«È lui-! È lui che ha rinchiuso Ivan lì dentro e ha preso le chiavi! Le ha nascoste nella biblioteca!»
«Tsk-! Ti prego Prussia, tappati quella bocca.»
Alfred afferrò l’inglese per un braccio, aiutandolo a sorreggersi in piedi, rivolgendo poi una rapida occhiata al prussiano e allo spagnolo.
«Io credo piuttosto che sia il tuo amico, il colpevole.»
«Antonio?» Feliciano rivolse un’occhiata sorpresa all’ispanico, che osservò confuso l’americano, poi l’inglese, scostando le mani dalle spalle dell’albino e tornando retto con la schiena.
«Cosa? Perché dovrei essere io?»
«Sei tu quello che girava in corridoio mentre io, Feliciano ed Arthur eravamo ancora rinchiusi nelle stanze.»
«Allora potrebbe anche essere Gilbert, visto che nessuno l’ha liberato ed era già fuori dalla stanza prima di noi …» l’italiano bofonchiò appena.
«Certo Alfred! E sono io che ho ammazzato Lovino!
Ma sei idiota?! Piuttosto potresti essere tu! Visto che Arthur non è ancora morto-»
«E io avrei ucciso mio fratello? E poi Arthur cosa c’entra?»
«Lo sappiamo tutti che te lo vorresti portare a letto.»
«È stato Feliciano, avanti! Lo sappiamo tutti!» l’inglese interruppe il dibattito dell’americano e dello spagnolo con la voce rotta dal dolore all’occhio, che già ora iniziava a gonfiarsi, arrossato dal colpo duro col pugno di Gilbert.
«I-io?»
«Sì, visto che io non ho ancora accusato nessuno e tu sei l’unico a cui non è stato puntato il dito contro, ora forse è l’ora che qualcuno inizi a sospettare anche di te, no Italia?» poi rivolse un’occhiata rabbiosa ad Alfred e Antonio «dateci un taglio, cazzo. Chiunque potrebbe essere l’assassino, idioti.»
Arthur si separò dal gruppo e fece per dirigersi verso l’uscita della sala, ma subito, una mano pesante lo bloccò, premendogli forte la spalla, quasi fino a sopprimere la sensibilità dei nervi.
«Ah-»
«Dove vai? Mi occupo io di Ivan, England.»
Alfred si occupò di separare di nuovo Gilbert ed Arthur, lasciando uscire il primo dalla sala e portando dopo poco Arthur in cucina.

«Come può essere Alfred? Lui non è l’eroe?» l’italiano rivolse un’occhiata triste allo spagnolo, che era rimasto solo con lui nella sala, ancora scosso dall’accaduto; poi rimase in silenzio.
«E come può essere Gilbert? Che adora suo fratello ed ama Ivan?
Feliciano … è impossibile capirlo. Tutti qui abbiamo perso una persona cara, e tutto ciò è fin troppo sviante. C’è qualcuno che mente, che riesce a farlo perfettamente, e che non si cura delle persone che gli stanno a cuore, ma potrebbe essere chiunque. Chiunque.»

Gilbert si fermò di colpo.
Le iridi di sangue scivolarono lungo le sclere candide, le pupille di pece rimasero fisse per qualche attimo su qualcosa di sottile e brillante sul pavimento.
Quando si chinò sulle gambe per afferrarlo ed esaminarlo, concluse si trattasse di un filo trasparente.
«E questo …?»
Poi, la sua attenzione, si soffermò su un piccolo pezzo di fil di ferro vicino alla porta di Feliciano, e velocemente si rialzò sulle gambe, tornando indietro per esaminare il pavimento vicino alla cucina.
Tastò solo per qualche attimo il pavimento, poi sentì di nuovo quel filo sottile ma resistente ed appena elastico fra le dita.
Ecco il trucco: complimenti davvero, genio delle serrature.

Avrebbe dormito da solo in camera sua, quella notte.
Dormire: che parolone!
Dopo essersi obbligato ad occuparsi personalmente del corpo di Ivan non aveva fatto altro che lasciarsi cadere sul letto e rimanere in silenzio, concentrandosi solo sul proprio respiro, sul diaframma che tanto lentamente e profondamente si alzava e si abbassava, osservando con gli occhi ancora arrossati dalle lacrime il proiettile argentato che stringeva fra le dita di una mano.
La sentiva ancora impregnata di sangue, quella mano, così come l’altra, e non gli importava se in quella stanza, ogni fantasma della casa, urlava i propri dolori ed i propri tormenti.
Non avrebbe dormito nella camera in cui era morto Ivan. Preferiva lì, dove avevano passato una notte abbracciati, dove era riuscito ad innamorarsi di lui.

«Feliciano?» Antonio bussò flebilmente alla porta dell’italiano, e dopo poco, la porta gli fu aperta.
«Antonio, cosa c’è?»
«Prima di tutto: mangia.» Antonio gli porse un pacchetto di biscotti che, a giudicare dal volume, ne doveva contenere si e no cinque o sei, ma dopo ore e ore di digiuno, anche qualche biscotto integrale sbriciolato era invitante.
«Ormai siamo rimasti in cinque.» poi, lo spagnolo, gli tese una mano.
«Non credo che Gilbert voglia fidarsi di qualcuno, in questo momento, ed io so di per certo che tu non puoi aver ucciso tuo fratello e Germania, perciò … voglio che ci alleiamo.»
Feliciano aggrottò appena la fronte, confuso dalla proposta dello spagnolo. Poi rimase ad osservare quella mano tesa davanti a lui.
«Oh, se non vuoi non-»
Quando lo spagnolo fece per ritirare la mano, quella fredda dell’italiano, andrò a stringergliela, interrompendo le sue parole.
«Tu non faresti mai del male a Romano.
Mi fido di te.» Feliciano accennò un piccolo sorriso, per poi tornare cupo e silenzioso, tornando a sedersi sul suo letto con un sospiro rassegnato.
«Per questa notte ti tengo compagnia io, vuoi?»
«Va bene-»
Antonio gli sorrise appena, annuendo in risposta, per poi sedersi sull’altro letto e coricarsi pigramente, adagiando la testa sul cuscino con un’evidente espressione di sollievo stampata in viso.
«Allora buona notte, Feliciano.»
«Buona notte, Antonio …»
Si fidavano davvero l’uno dell’altro? O era solo una ricerca disperata di un piccolo appoggio?
Davvero non lo sapevano.

«Dove ho sbagliato?» Arthur sussurrò appena, interrompendo il tagliente silenzio creatosi fra lui e l’americano.
«Cosa intendi?» Alfred fece aderire cautamente l’impacco di ghiaccio sullo zigomo gonfio dell’inglese.
Aveva perfino ritrovato le chiavi nel suo cassetto, quando era tornato in camera: lui non le aveva prese, né nascoste in biblioteca. Lui non le aveva riposte nel cassetto subito dopo, quasi come fosse una presa in giro.
«Guarda come mi sono ridotto …
Non mi sento più la spalla, chissà poi quante schegge di legno ho conficcate nella schiena, mi fa male il collo, la guancia … e ho quest’occhio gonfio, non ci vedo quasi più niente.
Ho perfino ancora il segno di Natalia-» bofonchiò, spalancando la propria mano davanti al viso, osservando il lungo taglio ormai secco che, però, chiudendo le dita in un pugno, faceva ancora terribilmente male.
«E non ho neppure reagito.
Una persona dalla coscienza pulita che viene accusata di averla sporca dovrebbe soltanto reagire, non starsene in silenzio come ho fatto io.
Ah-!» mugugnò appena, quando l’americano fece aderire l’impacco freddo al punto del gonfiore che, dal rosso scuro, sembrava avviarsi verso una strana tonalità violacea.
«Non hai sbagliato da nessuna parte …» l’americano continuò, più delicatamente, poi Arthur rivolse un’occhiata al letto vuoto in cui qualche notte prima aveva dormito il francese.

Quando Alfred vide nell’occhio verde, dolorante e socchiuso, che stava tentando di curare, una lacrima, non poté che fermarsi e circondare il corpo dell’inglese con le braccia.
«Sei una nazione forte.»
«Non mentirmi, America.» si ritrovò a fissare il vuoto, indebolito dal dolore. Fisico, mentale.
«Non ti mento Arthur. Mai.» e il viso dell’americano sprofondò lentamente contro la sua spalla.
Per un attimo, ad Arthur, sembrò perfino che Alfred stesse piangendo.

«Ngh-!» l’inglese brontolò a denti stretti, ma fu sollevato quando l’americano gli disse che quella era l’ultima scheggia di legno rimasta conficcata nella pelle pallida della sua schiena.
«Mi dispiace che tutto ciò ti abbia impedito di andare a dormire prima …» Alfred guardò la sveglia: ormai l’una di notte era passata.
«A proposito, credo … credo sia meglio che io vada a dormire in un’altra stanza, ora.»
«Eh? E perché?»
«Vorrei … vorrei restare un po’ solo …»
«Mh- d’accordo. Se hai bisogno sono qui.» l’americano sorrise appena, per poi posargli un bacio quasi impercettibile sullo zigomo arrossato ma un po’ meno gonfio.
«Good night!»
«Good night-» ma Arthur si ritirò dalla stanza come solo un cane bastonato avrebbe potuto fare.

Provò inizialmente a coricarsi sulla schiena, ma il bruciore alla pelle lo spinse a rannicchiarsi su un fianco.
Era cosciente del fatto che non avrebbe chiuso occhio: lo zigomo pulsava, la testa faceva male, ed anche il suo stesso respiro sembrava rimbombare violentemente in essa.
Chiuse gli occhi, quando gli tornarono in mente i gesti e la rabbia di Gilbert; poi pensò alle parole dello spagnolo: “Piuttosto potresti essere tu! Visto che Arthur non è ancora morto-”
“Ti prego Alfred, non mi mentire. Non mi piacciono le bugie.”
Una lacrima calda attraversò la sua guancia, bruciando la pelle tumefatta e livida come fosse stata di veleno, morendo poi nel tessuto ingiallito del cuscino.

“Perché Arthur? Apri il cassetto e le chiavi spariscono. Lo riapri dopo qualche ora e sono di nuovo lì.
Perché dovevi andare in biblioteca, oggi? E perché volevi tanto stare solo, stanotte?
Cosa … cos’hai?
Non mi mentire.”

Le dita dell’americano si strinsero intorno a quel cilindro di legno ancora ricoperto a fatica di vernice colorata, soprattutto blu e rossa, osservandolo con gli occhi stanchi, socchiusi, tristi.
Era uno dei suoi soldatini.
Uno di quelli che Inghilterra gli aveva regalato quando era piccolo.
Giochi da bambini, oggetti futili e sciocchi; eppure ne portava sempre uno con sé, quando Arthur non era al suo fianco.
   
 
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