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Autore: Marciux    22/05/2012    5 recensioni
Cinque anni prima della lotta per salvare il mondo. Sephiroth è convocato a Nibelheim per la sua ultima missione da SOLDIER, ma non può immaginare che cosa il destino abbia in serbo per lui. Un personaggio insospettabile trama alle spalle degli altri, celato nell'ombra. Il Pianeta è vittima di minacce ben diverse da quelle contro cui Cloud e gli altri combattono.
Genere: Azione, Generale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aeris Gainsborough, Sephiroth, Un po' tutti, Vincent Valentine
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII
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Attenzione! Chiedo scusa a voi lettori, ma questo capitolo presenta una discordanza con quello precedente. Nel capitolo "Visita Medica", infatti, Sephiroth in una delle prime battute afferma che Gaiana ed Eydìs son fuori casa. Per scelte di trama, mi son trovato costretto a cambiare questo particolare: Eydìs è ancora a letto e non andrà a scuola perché sta sviluppando l'influenza. Provvederò a modificare lo scorso capitolo, mi scuso ancora e farò in modo che non accada più. Buona lettura :)


Capitolo X

 

Con tre giri di chiave, la porta della cantina scatta in avanti, permettendomi di accedere all'ambiente buio e freddo, inviolato ormai da diversi anni. La mia mano corre alla parete di fianco e incontra l'interruttore della luce. La lampadina al neon che penzola dal soffitto si illumina, gettando un freddo bagliore sui mucchi di scatoloni e oggetti sparpagliati nella decina di metri quadri in cui conservo i miei numerosi segreti. Cercando di mantenere la calma, rovisto tra i pacchi sigillati, sino a trovarne uno familiare, che rispetto agli altri ha resistito meglio all'umidità. Strappo via il nastro sigillante e le Materia si riversano sulle mattonelle del pavimento, con un tintinnare vetroso. Le lascio rotolare via, poi mi faccio strada tra le scatole, spingendole via, sino a che non trovo, in un angolo, una lunga e stretta imballatura di nastro adesivo e buste imbottite. Tiro fuori dalla tasca dei jeans il coltellino a serramanico che ho portato con me e dilanio con gesti secchi carta e pezzi di plastica, sino a che non stringo in mano Masamune.


 

Il mio cuore batte all'impazzata. La pallida luce al neon si riflette sulla lunga e sottile lama, attraverso uno strato opaco di polvere. Ha bisogno di una lucidata e, magari, anche di un'affilatura. Ma è lei. La sento pesante, tra le mie mani, come se avessi perso tutta la forza delle mie braccia, ma anche come se lei non fosse più abituata a danzare silenziosamente, fendendo l'aria per ferire le sue prede.

Racimolo diverse Materie da terra – una del fuoco, una di cura e una di protezione – e abbandono la cantina, senza tralasciare di richiudere la porta con più giri di serratura. Attraverso di fretta la piccola aiuola fiorita, gesto che, commesso di fronte a mia moglie, mi varrebbe come minimo uno schiaffo, e rientro in casa. Vado alla finestra e, con cautela, osservo la situazione del vicinato. A quest'ora del mattino non corro troppi rischi, ma non vorrei che quei coniugi pettegoli che abitano nella casetta di fronte abbiano visto troppo. Sembrerebbe tutto a posto.


 

Mi fiondo nella mia camera e tiro fuori dall'armadio una vecchia sacca in cui infilare le Materie. Recupero tra la biancheria la cintura speciale alla quale posso assicurare la katana, poi corro in cucina e scarabocchio sulla lavagna magnetica un breve messaggio, in cui avviso che ho impegni urgenti di lavoro. Poi torno nell'atrio, indosso una giacca a vento e recupero le mie chiavi di casa, pronto per uscire, quand'ecco che i miei piani crollano tutto d'un colpo.


 

«Papà?»


 

Il mio primo istinto è di infilare Masamune nel portaombrelli, poi mi volto verso la bambina ed esibisco un rigido sorriso, il cuore che batte all'impazzata. Come ho potuto dimenticarla?


 

«Tesoro, che c'è?»

«Stai uscendo?» chiede lei, sorpresa. Si dondola sulle gambe, stretta nel suo pigiamino in pile.


 

Rifletti, non dare risposte affrettate.


 

«Ma certo, tesoro! Ti accompagno a scuola, oggi è lunedì!» esclamo io, aggrappandomi alla prima idea che mi balza in mente.

«Scuola? Ma la mamma ha detto che mi sto ammalando, ho un po' di tosse»


 

Tosse? Non ci si metterà anche lei, adesso. Come posso fare?


 

«Ma quale tosse! Sei sanissima. Vai a vestirti, Didi, io... devo prima fare una cosa»


 

***


 

La distanza che separa Kalm e Midgar è abbastanza ridotta, ma la caffettiera che guido al momento mi fa rimpiangere di non averla affrontata a piedi. È una macchina che usa Gaiana esclusivamente per accompagnare Eydìs a scuola e altri saltuari impegni, dato che lei lavora in un ufficio di fianco a casa. Comprarne un'altra sarebbe solo uno spreco di soldi, ma le rare volte che mi metto al volante mi maledico per non averlo ancora fatto. Se non altro, il portabagagli è spazioso, punto che gioca a mio favore.

Lancio uno sguardo allo specchietto retrovisore e incontro lo sguardo un po' confuso di Eydìs.


 

«Papi, ma perché sei uscito così

«Perché oggi papi aveva voglia di uscire così»


 

Gli occhiali da sole non mi hanno mai donato granché, e questo modello è pure fuori moda da un pezzo. Ho raccolto i capelli in una coda, cercando di contenerli al minimo volume possibile, e ho indossato un cappellino blu, prezioso regalo di compleanno da parte della mia adorata suocera. Ma ciò che mi rovina sul serio è la barba; se avessi progettato questa uscita qualche giorno fa, avrei anche potuto cercare di farla crescere, senza dover ricorrere alla matita nera di mia moglie che, oltretutto, mi sta dando allergia. Le guance mi prudono da morire, ma ho paura che il trucco, costato mezz'ora di fronte allo specchio, possa sbavare al minimo tocco. Spero che questa sia la prima e l'ultima volta.

Sephiroth. Il grande Soldier dalla barba finta. Improvvisamente mi viene in mente che dovrò farmi vedere da Hojo in questo stato. Tremo al pensiero.


 

«Papi, io non posso andare a scuola! Ho la tosse!»

«Stai tossendo? No. E allora?»


 

La sagoma di Midgar si staglia sull'orizzonte e si avvicina molto, molto lentamente. Parecchie auto mi superano, strombazzando con furore e, qualche volta, lanciandomi contro qualche epiteto indistinto.


 

«E se la mamma si arrabbia?»

«Perché dovrebbe?»

«Lei ha detto che oggi non devo andare a scuola!»

«Si arrabbierebbe di più se ti lasciassi a casa da sola»

«Non potevo andare dalla nonna?»

«Lei ha molta più tosse di te. Così sì che ti ammaleresti!»


 

Purtroppo Eydìs è appena entrata nel momento delle domande. Non si fermerà sino a che non l'avrò mollata a scuola. Premo più a fondo il piede sull'acceleratore.


 

«Ma tu che cosa devi fare?»

«Devo andare a comprare qualcosa da mangiare per pranzo. Oppure vuoi i cavoli

«No, i cavoli no!»


 

Tanto meglio. Non piacciono neppure a me.


 

«Devi fare uno scherzo al negozio? O alla mamma?»

«Di quale scherzo stai parlando?»

«Tutta quella barba lunga lunga... fai paura!»

«Ah sì? Meglio così»


 

Quindici minuti più tardi siamo nel bel mezzo di Midgar e mi oriento per le strade dei diversi Settori, gli otto quartieri che costituiscono la città. Perdo molto tempo girando a vuoto per le vie, scoprendo che in questi anni molti sensi di circolazione son cambiati. Neanche avessi affrontato secoli di isolamento! Finalmente giungiamo alla scuola elementare, riconoscibile soprattutto per gli infantili schiamazzi che la infestano. Accosto in seconda fila e spengo il motore, riflettendo sul da farsi.


 

«Didi, vai pure! Io ti guardo da qui» dico io, speranzoso.

«Ma la mamma mi accompagna sempre alla porta e suona il campanello!»

«Non puoi suonarlo tu?»

«Io non ci arrivo!»


 

E va bene...!

Scendo dalla macchina, con aria disinvolta, e aiuto la bambina a scendere a sua volta. Camminiamo verso il portone e, con un discreto batticuore, premo il dito sul tasto del citofono.


 

«Perfetto, ora vado! Ti aspetto da...»

«Eydìs! Che ci fai qui?»

Il cigolare del portone e la voce tintinnante mi interrompono, segnando un definitivo colpo al cuore. Una ragazza giovane sorride alla bambina, scompigliandole i capelli, poi solleva lo sguardo e l'espressione gioviale dipinta nei suoi occhi scuri si trasforma in sorpresa.


 

«Ah, salve! Mi aspettavo di trovare la mamma, come al solito... ma che strano, lei mi ha chiamato per dirmi che Eydìs stava male...»

«... e invece eccola qui!» esclamo io, con un cenno della testa. «Vai, Didi tesoro. A più tardi, eh?»

«Aspetti un minuto, accompagno Eydìs in classe e sono subito da lei per due chiacchiere!»


 

Due chiacchiere. Potrei morire per la vergogna. Avrei dovuto prevedere una situazione simile, quando mi conciavo in questo modo ridicolo. Maledizione, che vergogna!

La ragazza sparisce dietro la soglia della porta, trascinando con sé Eydìs. I secondi passano e io mi asciugo il sudore della fronte, temendo di danneggiare il trucco. Peraltro, l'allergia si fa sempre più fastidiosa e cresce il pizzicore su tutto il viso. Il mio cervello lavora faticosamente, cercando un modo di farmi sembrare meno ridicolo. Era da tanto che non mi trovavo in una situazione così ansiogena.


 

«Bene, bene! Piacere di conoscerla, signor...?»


 

La voce squillante mi fa sobbalzare.


 

«Signor... Gainsborough» rispondo io, stringendo la mano tesa della ragazza.


 

Lei è carina. Ha i capelli castani raccolti in una coda di cavallo e la carnagione è chiara e pulita. Tuttavia, qualcosa nel suo sguardo mi dà un'idea di antipatia. Soprattutto quando indugia sulla parte inferiore del mio viso.


 

«Ah» mormora lei, un po' interdetta. «Credevo che lei fosse il padre di Eydìs»

«No, no! Sono... lo zio! Il... marito della sorella del padre. Zio acquisito. Qualche volta... accompagno mia nipote»

«Strano, non l'avevo mai vista qui»

«A scuola non l'avevo ancora accompagnata! La accompagno... come ha detto che si chiama, mi scusi?»

«Say. Faccio l'educatrice qui a scuola» risponde lei, inarcando lievemente le sopracciglia.


 

Io annuisco e getto un'occhiata alle mie spalle per controllare che il vecchio macinino sia ancora al suo posto. Anche Say rivolge lo sguardo all'interno dell'edificio, come sentendo il richiamo del lavoro. Ormai la conversazione è durata abbastanza, mi son reso fin troppo ridicolo.


 

«Capisco, capisco. Beh, Say, a presto! Io devo proprio andare!»


 

La ragazza ricambia il saluto e ognuno va per la propria strada. Io torno a sedermi di fronte al volante, chiedendomi quanto starà soffrendo Masamune chiusa nel bagagliaio. Lancio un ultimo sguardo disgustato allo specchietto retrovisore, osservando il volto ormai paonazzo per il prurito.

Via, devo resistere ancora per poco. Risistemo lo specchietto e accendo il motore. Prossima tappa: la ShinRa.

  
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