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Autore: PiccolaWriter    22/05/2012    2 recensioni
Una vita passata insieme, col tempo che lascia i segni del suo passaggio; e poi dimenticare tutto, farsi spazzare via la memoria da una malattia terribile, e, senza rendersene conto, non poter far altro che rivivere tutto, tutto, come se non fosse mai iniziato, ma con la voglia di ricominciare. Come accade ogni giorno per Bella.
Storia ispirata da un bellissimo cortometraggio di Francesco Felli, incentrato sulla patologia dell'alzaheimer, intitolato appunto "Ogni Giorno".
( http://www.youtube.com/watch?v=U_IVuJkH81M )
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Isabella Swan, Jacob Black | Coppie: Bella/Jacob
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
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Come Ogni Giorno

Bella aprì lentamente gli occhi, nel silenzio della sua camera.
Le lancette rosse della vecchia sveglia segnavano le sette in punto.
Un sospiro le sfuggì dalle labbra e, dopo qualche minuto, acquisite le forze necessarie, Bella s’alzò. Si sedette, poi lasciò scivolare le gambe di lato, giù, con una certa fatica. Si stiracchiò, la schiena le doleva fastidiosamente, anche le spalle. Passò con lentezza davanti alla finestra, osservò il cielo plumbeo e si sentì scivolare addosso una strana quanto insensata malinconia. Come un brutto presentimento. Le provocò una sorta di fastidioso mal di pancia. Le gravò sulle spalle già curve sotto il peso degli anni trascorsi.
Mise le pantofole ai piedi e raccolse gli occhiali dal comò, uscendo dalla stanza vuota. Lo specchio del bagno raccolse e le restituì l’immagine del suo volto stanco, stropicciato dal tempo. Agli angoli dei suoi occhi affioravano alcune rughe, ormai calcavano la sua pelle come piccole crepe. Si passò con cura le dita sulle tempie, massaggiandosi l’attaccatura dei capelli, là dove molte ciocche sottili cominciavano a sbiadire, ad illuminarsi di grigio. Bella sospirò, si sciacquò il viso con acqua gelida e poi provò a distendere la pelle morbida con i polpastrelli, tentando vanamente di ricordare come fosse stata liscia un tempo quella sua pelle. Nella penombra del piccolo bagno, inforcò gli occhiali da vista, fissò i suoi occhi riflessi nello specchio dietro quelle lenti, fissò le palpebre appena appesantite dagli anni, fissò le sue iridi scure, color della terra. Solamente quelle non si erano fatte cambiare per nulla dal tempo.


Anche se non era assolutamente certa del perché, Bella sentiva che quel giorno era molto importante.
Bevve il caffè di fretta, guardò distrattamente l’orologio appeso alla parete del suo soggiorno: erano le nove e qualche minuto. La lancetta dei secondi avanzava e d’improvviso Bella si ricordò cosa doveva fare quel giorno. Rimase immobile, con le mani tremanti lungo i fianchi per un momento eterno, un groppo a stringerle forte la gola.
Coraggio, si disse.
Lanciò un’altra occhiata all’orologio. Forse era troppo presto, rifletté. Ma immediatamente rimosse quel pensiero, dandosi della stupida. Nei giorni importanti contava non arrivare troppo presto, ciò che contava era esserci il prima possibile. Lavò con una certa fretta una tazza che si trovava nel lavandino - strano, non ricordava di aver bevuto del latte, la sera precedente - e non appena finì, deliberatamente, decise di non controllare l’ora e di imboccare il corridoio, diretta all’ingresso, con passo piuttosto deciso.
Lei che non aveva mai dato troppa rilevanza all’abbigliamento, sentì il bisogno di controllare il proprio riflesso nel vetro di un quadro dell’ingresso, per assicurarsi che la camicetta blu cadesse bene sui pantaloni neri. In quel momento si sentì un bel po’ stupida, ma sapeva che nei giorni importanti contava essere almeno presentabile. Anche per questo, prese dall’appendiabiti e indossò una giacca scura sulla camicia, si legò i capelli in una coda bassa e prese la borsa sottobraccio, con le chiavi tra le mani, prima di lasciare che la porta si chiudesse alle sue spalle.


La vecchia riserva di LaPush era rimasta identica a se stessa. Sembrava che gli anni le fossero scivolati intorno, senza sfiorarla, senza cambiarla mai. La foresta che la circondava era rigogliosa come un tempo, con i suoi alti abeti sitka e la ricca vegetazione del sottobosco. La cittadina aveva conservato le stesse strade, quasi gli stessi negozi, i piccoli supermercati. Tornare alla riserva era come tornare indietro nel tempo.
Bella guidava il suo Pick-Up, lanciando qualche occhiata fuori dal finestrino. Il motore rumoroso del Chevy brontolava. Sul parabrezza opaco cominciarono a picchiettare sottili gocce di pioggia, mentre in radio trasmettevano un vecchio successo di James Taylor. Bella guidava con calma, anche se dentro di sé avvertiva una grande impazienza. Si guardò riflessa di sbieco nello specchietto retrovisore, un po’ scheggiato ai lati: aveva le labbra arrossate perché continuava a maltrattarle coi denti, poi le guance chiazzate di rosso: per una donna della sua età, erano qualcosa di insopportabilmente imbarazzante.
Attese che il semaforo ad un incrocio diventasse verde, tamburellando nervosamente le dita sul volante. Cercò di ricordare le parole di quella vecchia canzone, ma non le venivano in mente. Si limitò a mugolare la melodia a bocca stretta e finì col pestare con troppa foga l’acceleratore quando il semaforo s’illuminò di verde. Per poco non mise sotto un povero micio innocente, che ebbe la prontezza di scansare le ruote del Chevy.
Calma, s’impose Bella, prendendo un respiro lento.
Incollò gli occhi all’asfalto, cercando di concentrarsi sulla guida. Quello era un giorno troppo importante, non poteva rovinarlo investendo un gatto o uccidendosi per la strada.


Claire si fermò davanti il garage, chiudendo l’ombrello e scrollandolo un po’. Con una mano reggeva una busta della spesa dall’aspetto non molto leggero, che la costringeva a stare così, appena sbilenca, con una spalla più in giù dell’altra. Lanciò un’occhiata in giro, con espressione scocciata, scandagliando l’ambiente in penombra e le carcasse di automobili che occupavano tutti gli angoli del garage. Probabilmente riuscì a sentire il rumore metallico che proveniva dal fondo della stanza, perché senza dir nulla avanzò verso una Ford dal cofano aperto.
- Quil non c’è - disse una voce profonda, prima che lei potesse aprire bocca. La fece sussultare di paura.
L’ombrello le cadde via di mano, rotolando accanto ai suoi stivali fradici di pioggia. Lei fece per riprenderlo, ma colpì col piede un secchio che a sua volta fece ribaltare un pezzo metallico poggiato lì accanto, forse una marmitta arrugginita.
- Ops, scusa, non volevo farti paura, Claire - continuò la voce, ironica, percependo quel piccolo fracasso.
La ragazza poggiò la busta a terra, sbuffando, accanto ad una cassetta d’attrezzi sporchi d’olio, e fece una risatina sarcastica. Lanciò un’occhiataccia all’ombrello, ma non osò avvicinarsi per riprenderlo.
- Non mi spavento per così poco, Jacob. Forse dimentichi che ho sposato un uomo lupo - puntualizzò, con un sorrisetto sarcastico.
- Mpf. Dettagli.
Jacob sbucò da dietro l’auto in fase di riparazione. Si stava pulendo le mani macchiate di grasso con uno strofinaccio lercio, e avanzava verso di lei sorridendo. In viso aveva la solita espressione buona e stanca. Claire ebbe un improvviso moto di compassione per Jake, ma cercò di scacciarlo via immediatamente, perché sapeva che se lui se ne fosse accorto, be’, come minimo l’avrebbe cacciata via di malo modo. Tutti i membri del branco sapevano che tra le cose che Jacob non sopportava assolutamente, rientrava il fatto di essere compatito da tutti loro.
Ed era impressionate come riuscisse a scovare nelle loro espressioni, nelle loro parole o nei modi di fare un’accenno della loro fastidiosa pietà. Della loro triste comprensione.
Jacob non ne voleva, non la sopportava. Loro non avevano bisogno di quella compassione.
- Dove l’hai posteggiato il marmocchio? - domandò Jacob.
- L’ho lasciato con Seth: immagino che l’avrà torturato per riuscire a fare un giro con la sua nuova moto. Ero venuta a cercare Quil perché pensavo che Seth poi l’avesse portato qui, dato il tempaccio improvviso che s’è scatenato.
La pioggia cadeva fitta fitta per strada, quasi invisibile. L’asfalto era nera e lucida come pece, i marciapiedi quasi brulicavano, occupati da pedoni frettolosi, in cerca di riparo, sotto ombrelli più o meno colorati o provvidenziali giornali piegati in due sulla testa. Il cielo era molto cupo, quella mattina. Era ingombrato dai grossi nuvoloni bigi, gonfi di pioggia. Avrebbe piovuto tutto il giorno.
Jacob sospirò e si mise a frugare in una cassetta colma d’attrezzi.
Senza farsi vedere da Claire, lanciò un’occhiata veloce all’orologio bianco appeso al muro. Segnava le dieci meno qualche minuto, probabilmente era già per strada, probabilmente da un momento all’altro sarebbe arrivata. Jacob cominciò a sentirsi a disagio, ritornando a fissare Claire, e cercò di elaborare uno stratagemma per mandarla rapidamente via, con una certa gentilezza.
- Non so che dirti. Saranno andati da Billy - ricordò, d’improvviso: - Oggi tornava Leah.
Claire sgranò gli occhi, presa in contropiede dalla notizia.
Jacob finse disinteresse, ma dentro di sé si sentì sollevato per aver trovato quel pretesto perfetto.
- Oh, è vero. L’avevo dimenticato.
- Che aspetti? Raggiungili. Non vorrai mancare alla rimpatriata - ghignò, teso.
La ragazza soffocò una risata scettica, ma un attimo dopo si chinò per prendere l’ombrello e la busta della spesa.
- Già, adesso vado. E’ una vita che non vedo Leah.
Leah era scomparsa da tempo, s’era presa una bella vacanza. Era partita subito dopo il matrimonio di Sam ed Emily, dopo che il suo cuore ed i suoi sentimenti avevano subito l’ultima, la più straziante umiliazione: s’era dovuta immolare come damigella d’onore al matrimonio dell’uomo che amava, e che non avrebbe mai potuto riavere.
Quel pensiero gli mise addosso un po’ di tristezza. Jacob si passò una mano macchiata d’olio sui jeans già sporchi e afferrò una chiave inglese. Mentre Claire si avviava verso l’uscita aveva preso a stringere dei bulloni.
- Ci si vede, Jake.
- Ciao, Claire.
- Salutami Bella - disse lei, con naturalezza, in un moto di gentilezza, di abitudine. Poi, rendendosi conto di ciò che le era appena uscito dalla bocca, tacque improvvisamente. Jacob la sentì trattenere il respiro per un bel po’. L’aveva detta grossa, Claire temeva che si sarebbe arrabbiato sul serio, adesso: per questo si fermò e rimase così, sul ciglio del garage, e continuava a fissarlo con la coda dell’occhio.
Poi sentì di nuovo la voce di Jacob.
- Certo, se me ne ricorderò.



Il petto le andava su e giù troppo velocemente.
Avvertiva di nuovo le guance calde, troppo calde, scottanti, e perfino le labbra secche. Non c’era niente di peggio di avere le labbra secche. La lingua le si incollò al palato, mentre si malediceva mentalmente. Era una donna adulta, aveva una sua età, doveva assolutamente darsi un contegno. Era una donna adulta, per la miseria.
Tirò via la chiave dalla toppa ed il vecchio Pick-Up si spense con un borbottio non molto rassicurante. Chissà se al suo ritorno si sarebbe riacceso, o l’avrebbe piantata lì in asso. Rifiutò di pensarci, scosse la testa come a liberarsi di quel pessimismo; Bella si ritrovò a guardare fuori dal finestrino rigato dalla pioggia. Si sforzò di mandare giù un respiro decente e si gettò l’ultima occhiata allo specchietto. La visione del suo volto paonazzo non contribuì a rasserenarla, ma fece finta di niente e afferrata la borsa tentò di scendere dal mezzo senza slogarsi alcuna giuntura.
Il garage distava una decina di passi, poteva vedere benissimo la saracinesca alzata ed il cartello appeso al muro. Era scritto maldestramente a penna, su un cartoncino plastificato: open, diceva. Vide che una donna stava uscendo dal garage proprio in quel momento, probabilmente una cliente. Portava faticosamente una busta della spesa, con l’altra mano reggeva invece l’ombrello: forse aveva bisogno d’una mano. Bella scosse la testa e tornò a concentrarsi su ciò che doveva fare. Il suo cuore cominciò a picchiarle forte dentro il petto, ma s’incamminò e continuò ad avanzare con passo misurato, controllando bene che non ci fossero tombini o buche o altri ostacoli che potessero metterla in pericolo di vita.
Oltre ai suoi occhi marroni, l’unica cosa che non era cambiata col tempo era il suo scarso senso dell’equilibrio.


La vide fermarsi davanti l’ingresso del garage. La vide guardarsi attorno col fiato corto, la vide stringere nervosamente le dita attorno alla borsa che teneva sottobraccio. La vide con i suoi capelli legati, con i suoi occhi grandi e spaventati, con le sue guance morbide macchiate di rosso scarlatto, la vide ferma lì, le vide le labbra torturate dai denti. Il collo bianco, il profilo delle sue spalle piccole. Qualche goccia di pioggia le era caduta sulle ciglia nere, ma lei non sembrava farvi caso, batteva le palpebre e assottigliava lo sguardo per riuscire a scorgere qualcosa nell’ombra del garage.
Poi Jacob emerse dall’ombra. Le andò incontro a passi lenti, con un sorriso buono che si allargava sulle sue labbra scure, carnose. Labbra che Bella guardò, labbra che desiderò sfiorare con le proprie. Quel pensiero la travolse come una folata di vento caldo, la fece rabbrividire di desiderio. Fissò i propri occhi sgomenti in quelli di Jacob: sembravano fatti di carbone, di brace ardente, sembravano volerla inghiottire. Le venne voglia di rabbrividire ancora, ma riuscì a recuperare alcune briciole di autocontrollo e subito si schiarì la voce, si allontanò da quei pensieri. Era una donna adulta, o no? Perché non riusciva a controllarsi? Era riuscita a crescere almeno un po’, dopo tutto quel tempo?
Conosceva la risposta.
Probabilmente no.
Qualcosa cominciò a pungolarla all’altezza della bocca dello stomaco. Sentì di dover fare quello per cui si era svegliata quel giorno, quello per cui si era agghindata così ridicolmente, quello per cui stava lentamente morendo sotto quello sguardo.
- Buongiorno, Jacob - mormorò, sforzandosi di stamparsi un sorriso decente in volto.
- Buongiorno, signorina Swan. In cosa posso esserle utile?
La sua voce bassa, rauca, le mise una strana sensazione addosso. Sentì le ossa delle ginocchia tremare pericolosamente, minacciandola di farla cadere in terra, inerme, da un momento all’altro.
- Il mio Pick-Up fa degli strani... versi - disse, impacciata, indicando l’auto posteggiata fuori.
Tornò immediatamente a guardarlo, trattenendo il respiro, in attesa di una sua risposta. In realtà non era venuta affatto per far controllare il suo vecchio trabiccolo, no. Il suo intento era un altro. Strinse le dita intorno al manico della borsa, facendosi coraggio, e si ripromise di essere concisa, di dirgli ciò che realmente era venuta a dirgli.
Jacob annuì piano, sorridendo un po’. Non le staccava gli occhi di dosso.
- Forse sarebbe opportuno dargli una controllatina.
Bella annuì, tornando a respirare, a mordicchiarsi le labbra già arrossate. Jacob le girò intorno, guardandola di sottecchi, avvicinandosi ad uno scaffale da cui trasse alcuni attrezzi. Le fece cenno di attendere solo un momento e, ignorando la pioggia che aveva preso a cadere più forte, più fitta di prima, attraversò a grandi passi la strada vuota e si avvicinò al cofano del Chevy.


- Non c’è alcun problema - disse Jacob, tornando nel garage.
Bella, al sentire quella voce profonda, si girò ed arrossì violentemente, ed in quel momento un desiderio si avventò su Jacob, un desiderio talmente forte da sembrare quasi doloroso: guardò la sua esile figura, che sembrava essere diventata pià fragile col passare del tempo, e desiderò poterla stringere a sé, poter passare le dita su quelle guance bollenti, tracciare il profilo di ogni piccola ruga coi polpastrelli. Desiderò poter toccare quelle labbra maltrattate per saggiarne la morbidezza. Desiderò poterle sciogliere i capelli, liberarli dalla presa prigioniera di quel semplice elastico, passare una mano in quella chioma sbiadita, che un tempo era stata scura, scura come un cielo di notte, mentre adesso cominciava a schiarirsi come un’alba.
Ma respirò forte, strinse un pugno e si trattenne, come sempre, frenando il tremore bollente che voleva scuotergli la spina dorsale. Con quella sua espressione buona, calma, stanca, le si avvicinò.
- Lo sapevo - disse d’un fiato Bella, abbassando lo sguardo, piena di vergogna - non ero venuta qui per questo, in realtà.
Jacob incrociò le braccia al petto, in attesa. Il cuore gli batteva forte nel petto, sembrava volergli spezzare le costole per sgusciargli via dal petto. Mandò giù un altro respiro e la guardò.
- Io... volevo invitarti. Volevo invitarti per pranzo, Jacob. Ti andrebbe di... ti andrebbe di mangiare qualcosa? Qualcosa... insieme?
Balbettò quell’invito, torturandosi le mani, con fare impacciato, con quelle guance ancora più rosse di prima, con le ciglia basse, ad ombreggiarle metà del viso pallido, bello nonostante il tempo vi avesse lasciato le sue impronte, le linee delle ore e degli anni trascorsi. Trascorsi insieme.
- Certo, Bella - sorrise Jacob, allungando una mano verso la sua, liberandola dalla presa nervosa della borsa per accoglierla nella sua, per stringerla nel suo palmo bollente e scuro.
Lei gli sorrise di rimando, emozionata, qualcosa di indefinibile negli occhi, in quelle iridi di terra, che parevano essersi illuminate. Sembrava che brillassero di luce loro.
- Sai - mormorò Jacob, tirandola appena verso di sé, chiudendo gli occhi e respirando il suo odore, l’odore pulito e caldo della sua pelle, l’odore che lasciava sul cuscino, l’odore che gli riempiva i polmoni ogni notte - Ti stavo aspettando.
Bella non capì, ma strinse di più la sua mano.
- Mi stavi aspettando?
- Come ogni giorno.

   
 
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