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Autore: _Hayls    22/05/2012    1 recensioni
Aaron pose quella domanda, anche se ne conosceva già la risposta. Era facile per gli abitanti di quelle zone riconoscere uno straniero.
Parlava con un tono freddo e distaccato che lasciava trasparire il desiderio che aveva di scappare, di terminare quella conversazione il più presto possibile e di ritornare a casa.
Le labbra del giovane si inarcarono istintivamente in un sorriso tenue ma rassicurante che non appena venne notato dalla ragazza fu capace di sciogliere qualsiasi paura, infondendole un senso di sicurezza che le fece allontanare quella voglia di fuggire al punto da dimenticarsene.
Fu quella la prima conversazione di Lena ad Aaron, ma non fu sicuramente l’ultima.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Breathe into me.
Lena non era americana. I suoi genitori, un tempo, erano stati dei grandi imprenditori a Berlino.

Il successo per loro aveva significato tutto, probabilmente più di quanto avrebbe realmente dovuto.
In fin dei conti però, a cosa aveva portato? Qualche anno di fama, macchine di lusso, case al mare, ma poi? Il lastrico più totale. In fondo è sempre così, è proprio questo il rischio del settore dell’imprenditoria; sei sulla cima del monte, sei quasi al massimo, ma basta un minimo per buttarti a terra. E da lì, dal nulla, dalla miseria, non si riemerge più.
Aveva diciassette anni quando la sua famiglia le disse che a breve si sarebbero dovuti trasferire in America, che la loro vita avrebbe subito una svolta radicale. Lena non riusciva a capire cosa i suoi genitori volessero dire, ma a breve non avrebbe più necessitato di spiegazione alcuna.
Il Bronx è comunemente conosciuto come uno dei grandi quartieri di New York, ma in realtà è talmente grande da rappresentare una vera e propria provincia. Esso costituisce la periferia della città e comprende tutte le zone più malfamate del luogo. Probabilmente è meglio diffidare dall’entrarvi se non si è in buona compagnia.
Risse, sparatorie, furti, lì sono all’ordine del giorno.
Ma, un lato positivo di quel quartiere è che gli affitti sono bassi, così bassi che chiunque potrebbe realmente trovare un appartamento in quelle zone. “Appartamento”, è forse un termine eccessivo. Si tratta per lo più di monolocali, catapecchie sporche e mancanti di molti componenti che nelle normali case dovrebbero essere presenti. E’ importante ricordare che queste case sono tutte fornite di porte blindate e sbarre, non si sa mai chi potrebbe fare irruzione nel cuore della notte.
E’ proprio in uno di questi appartamenti, in questo quartiere squallido e povero, tanto quanto pericoloso, che la famiglia di Lena decise di trasferirsi. Fu una decisione dolorosa per  genitori, ma d’altronde non avevano altra possibilità, inoltre marito e moglie erano sempre stati delle persone fiere di se stesse e terribilmente orgogliose. Come avrebbero fatto a farsi vedere in giro dai loro ricchi amici?
Il fratellino di Lena aveva solo sei anni, non aveva ben compreso cosa fosse successo in realtà ed era riuscito a cogliere il tutto in maniera abbastanza positiva, come tutti i bambini sono soliti percepire ogni genere di novità gli si presenti davanti.
Lena invece aveva dovuto affrontare grandi difficoltà sin dall’inizio. Non era facile per una ragazza abituata al lusso più estremo, a borse costose e istituti privati, integrarsi in una scuola pubblica dove uno studente su dieci era stato al riformatorio, se non in carcere.
Veniva derisa dai ragazzi e dalle ragazze per i suoi modi di fare, per il suo caratterino frivolo e spesso cinico, per la sua mania dell’ordine. Nessuno si impegnava ad intrattenere una conversazione con lei, era sola. Lo era a scuola come si sentiva nella vita. Una ragazza che per diciassette anni aveva avuto tutto e, di punto in bianco, si ritrovava a dover ricominciare da zero.
A Berlino aveva un ragazzo. Si chiamava Joseph e frequentava il suo stesso corso di matematica. Era un ragazzo bellissimo: biondo, carnagione diafana, occhi color nocciola e lineamenti fini e delicati, ma allo stesso tempo virili e degni di un uomo.
Ovviamente, quando Lena venne a conoscenza del trasferimento, fu costretta ad inventare menzogne su menzogne e a rompere la storia con lui. Non avrebbe mai avuto il coraggio di rivelargli ciò che le era realmente accaduto, non perché se ne vergognasse, ma perché conosceva bene quel ragazzo e la sua mentalità, ed in fin dei conti era un po’ come lei. Sarebbe stato lui ad allontanarsi lentamente, anche se non ci fosse stato bisogno di trasferirsi. Un tipo come lui non avrebbe mai potuto stare con una poveraccia.
I giorni passavano, le stagioni cambiavano, ed il sole iniziava a tramontare più tardi la sera.
La situazione per Lena non cambiava: si svegliava la mattina presto, all’alba. Si lavava la faccia e si vestiva con qualche vecchio indumento, ciò che le era rimasto. Si affrettava ad uscire di casa, e iniziava a correre per attraversare il vicolo stretto nel quale abitava. Spesso veniva colta da rumori improvvisi: bottiglie che si infrangevano sul pavimento, grida, strani versi e perché no, spari.
Il cuore le faceva un balzo, le sue gambe si muovevano automaticamente. Tutto ciò che desiderava era raggiungere quell’edificio malandato, entrarvi e chiudersi in una classe per riprendere fiato.
Quando ritornava a casa era la stessa storia, anche se si sentiva più al sicuro se per le strade si faceva vedere qualche automobilista di tanto in tanto.
Il resto del pomeriggio lo trascorreva dentro, nella stanza che divideva con suo fratello. Spesso studiava, spesso dormiva, spesso restava seduta sul letto a fissare il soffitto, pensando a quanto fosse dura.
Sapeva che i ragazzi della sua scuola, abituati da sempre al circolo malavitoso del quartiere e al caos che ogni giorno le metteva paura, spesso si incontravano il pomeriggio. C’era una vecchia piazza vicino casa sua, ed era lì che spesso le capitava di osservare quei ragazzi. Non l’avrebbero mai accettata nel loro giro, era troppo diversa.
Una piccola pista da skateboard sporca di vernice sbiadita dovuta ai vecchi graffiti, un canestro arrugginito e malandato ed alcune panche prive di schienale componevano quel modesto spiazzale.
I ragazzi ridevano, scherzavano tra di loro, fumavano e spesso si picchiavano. Ma non erano risse pericolose, erano semplici litigate tra amici che spesso evolvevano andando oltre il linguaggio verbale, ma dopo un po’ tutto ritornava alla normalità. Lena pensava che i ragazzi di quella zona erano forti, pensava che non avrebbero mai potuto lasciare un amico. Erano tutti accomunati dalla stessa sorte, sorte che li aveva uniti, rendendoli fratelli, come se fossero stati tutti membri di un’unica famiglia, come se dovessero farsi scudo a vicenda.
Delle volte Lena avrebbe voluto appartenere a quella “famiglia”.
Tra tutti quei ragazzi c’era anche Aaron. Lena lo notò sin da subito, probabilmente perché si distingueva dagli altri. Il colore della sua pelle era poco più scuro rispetto al resto del gruppo, era alto, aveva un corpo tonico e muscoloso, gli occhi erano neri quasi come la pece. Sarebbe stato difficile distinguere la pupilla in mezzo a quella piccola oscurità. Le labbra sembravano disegnate: scure anch’esse, carnose e con i contorni ben marcati.
Lo guardava spesso giocare a basket con i suoi amici il pomeriggio, mentre ritornava a casa da scuola.
Delle volte anche lui notava la sua presenza, la sua ombra silenziosa che tranquilla camminava per quella strada senza recare alcun fastidio a nessuno, come se volesse evitare di attirare l’attenzione, come se volesse che nessuno la guardasse. Gli sembrava insicura, ma soprattutto gli sembrava spaventata.
Era la prima settimana di Maggio quando Aaron parlò per la prima volta a quella strana ragazza. Con il passare dei giorni quell’osservarla silenziosamente l’aveva incuriosito al punto da rivolgerle la parola, senza un motivo preciso.
Era una giornata afosa, nonostante fossero già le cinque del pomeriggio il sole splendeva e riscaldava come se fosse solo mezzogiorno.
Quasi tutti erano tornati a casa, non era sicuro rimanere fuori dopo un certo orario, nemmeno per loro che conoscevano quel quartiere meglio delle loro tasche.
Lena attraversava quello spiazzale, camminando però lateralmente come al solito, non voleva che si infastidisse nessuno ne che qualcuno la deridesse. Prima di trasferirsi non era mai stata così insicura di se stessa o timida, era sempre stata una ragazza allegra e loquace, tendente a socializzare con chi rispecchiasse i suoi canoni.
Aaron era in procinto di spingere la palla all’interno del canestro, facendo un salto maestrale ed imbucandola al primo colpo sotto lo sguardo attento dei due amici che erano rimasti insieme a lui.
Non appena la palla toccò il pavimento iniziò a rotolare lentamente in direzione di Lena.
Sarebbe stata l’occasione adatta per il ragazzo di rivolgerle la parola, di sapere perlomeno il nome di quell’ombra silenziosa.
Lena maledisse mentalmente quella palla più e più volte non appena vide che il moro non si mosse, in attesa che lei gliela passasse. Fu costretta a chinarsi, afferrando tra i piccoli palmi delle mani quella sfera arancione decisamente troppo pesante per i suoi gusti, incamminandosi subito dopo a passi incerti verso il centro dello spiazzale dove il ragazzo la attendeva, senza perdere occasione di scrutarla interamente con lo sguardo interessato.
- Ti ringrazio. - Il ragazzo pronunciò quelle parole non appena Lena, senza sporsi troppo e mantenendo una certa distanza tra le due figure così diverse, gli porse la palla, allungando entrambe le braccia in sua direzione.
- Prego. - Disse piano in risposta, quasi come una sorta di mormorio impercettibile che però Aaron fu capace di cogliere.
Pensava di avercela fatta, pensava che fosse il momento giusto per voltare le spalle a quel ragazzo e svignarsela, ma lui non glielo permise.
- Come ti chiami? - A quelle parole Lena sollevò lo sguardo che fino a quel momento aveva tenuto rigorosamente rivolto ai propri piedi, incontrando in tal modo quegli occhi neri.
Era evidentemente imbarazzata dalla situazione, nessuno le aveva mai chiesto come si chiamasse da quando si trovava lì, nemmeno gli insegnanti a scuola.
Sollevò una mano per raggiungere l’altezza del proprio viso minuto, lasciando che le dita affusolate scostassero da questo una ciocca arancione di capelli che il vento aveva volontariamente scompigliato.
- Mi chiamo Lena. - Il moro sorrise nel sentire le parole della ragazza che, finalmente, aveva un nome.
Scrutò con attenzione il suo viso, come se volesse passarne in rassegna ogni tratto semantico, studiandolo.
Il naso e gli zigomi erano totalmente ricoperti da chiare lentiggini arancioni che su quella pelle bianca davano un senso di delicatezza ed innocenza, gli occhi castani erano grandi, enormi, erano la prima cosa che si notava quando si ci trovava a quella distanza.  Le labbra non erano carnose come le sue, ma lo erano quanto bastasse per renderle in totale armonia con il resto del viso.
- Non sei americana, vero? - Aaron pose quella domanda, anche se ne conosceva già la risposta. Era facile per gli abitanti di quelle zone riconoscere uno straniero.
- No, sono tedesca. - Parlava con un tono freddo e distaccato che lasciava trasparire il desiderio che aveva di scappare, di terminare quella conversazione il più presto possibile e di ritornare a casa.
- Io sono Aaron, piacere. - Le labbra del giovane si inarcarono istintivamente in un sorriso tenue ma rassicurante che non appena venne notato dalla ragazza fu capace di sciogliere qualsiasi paura, infondendole un senso di sicurezza che le fece allontanare quella voglia di fuggire al punto da dimenticarsene.
Fu quella la prima conversazione di Lena ad Aaron, ma non fu sicuramente l’ultima.
Da quella fatidica giornata primaverile i due ragazzi iniziarono a trascorrere molto tempo insieme, al punto quasi da incontrarsi ogni giorno.
Si vedevano non appena la ragazza usciva da scuola, si sedevano in una panchina, mangiavano patatine sottomarca che compravano al supermercato, e insieme cercavano di trovare un senso a tutto quel caos che era la loro vita.
Fu la prima persona con cui fu davvero sincera su quello che le era capitato, raccontando tutti i drammi che la sua famiglia fu costretta ad attraversare, confidandosi con lui sul suo stato d’animo, su come si fosse sentita quando la sua vita cambiò in un modo così radicale.
Era facile parlare con lui, era disposto ad ascoltare, e non emetteva mai giudizi, su nessuno.
E a lui piaceva ascoltare la voce di Lena, così fine e delicata. Gli piaceva il modo in cui sorrideva imbarazzata, diventando rossa in viso non appena lui faceva una battuta, gli piaceva il momento in cui entrambi scoppiavano a ridere senza un motivo davvero valido, e gli piaceva abbracciarla, stringere le sue esili spalle quando sapeva che di lì a poco sarebbe scoppiata in lacrime.
Quando stavano insieme erano talmente concentrati l’uno sull’altra da dimenticarsi tutto ciò succedesse intorno a loro, al punto da non accorgersi nemmeno che finalmente l’estate era arrivata.
E con l’estate, era arrivato anche il loro primo amore.
Eppure, non si accorsero nemmeno di questo. Aaron la amava, ma non lo aveva ancora ammesso a se stesso. Era chiaro che l’amasse, si notava nell’espressione che assumevano i suoi occhi non appena Lena lo salutava con un cenno della mano, avvicinandosi a lui per abbracciarlo.
L’amore nasce, cresce a scoppia come un fuoco, soprattutto negli animi di due adolescenti così diversi ma così simili allo stesso tempo.
Lena fu la prima a capire che ciò che provava per Aaron era qualcosa di forte, qualcosa che l’avrebbe tenuta stretta a lui in un legame indissolubile, qualcosa che le avrebbe permesso di andare avanti nei momenti in cui si fosse trovata sola con se stessa.
Era una bella sensazione, ma al contempo era capace di spaventarla e renderla fragile.
Non pensò si trattasse di amore, ma lei lo amava. Era quel genere di amore che non ti lascia scampo, che ti prende d’improvviso dal nulla e ti aiuta a riemergere, ti da speranza ed alimenta la tua forza.
Le settimane passavano, il caldo si faceva già sentire ad Luglio era già alle porte.
Aaron aveva “rubato” la macchina a suo fratello e aveva deciso di portare la ragazza in un piccolo boschetto fuori città. Era facile da raggiungere, non si sarebbero persi.
Era bello trovarsi lì, da soli, sdraiati sull’erba ad osservare come le poche nuvole che c’erano nel cielo prendessero forme strane, tentando quindi di indovinare a cosa potessero vagamente somigliare.
Era bello persino il profumo di verde che invadeva le narici dei due ragazzi, quell’aria fresca che era difficile da respirare in città, in mezzo a tutto quel caotico via vai di automobili.
-Hai mai fatto l'amore?- Aaron si trovò spiazzato dalla domanda della ragazza e dal tono sicuro che aveva usato per pronunciare quella frase. Cosa voleva intendere con “hai mai fatto l’amore?”, perché voleva saperlo?
Aggrottò le sopracciglia folte, guardando il suo viso famigliare con aria confusa ed interrogativa.
-Si.. insomma.. sei mai stato con qualcuna?-
-Perché me lo chiedi?-
Lena alzò le spalle, lasciandosi ricadere con la schiena sull’erba, poggiando la propria nuca sulle gambe del ragazzo e chiudendo gli occhi.
- Si, molte volte, tempo fa. -
- E’ stato bello?-
- Uhm, non lo so, a volte lo è stato, a volte meno. Tu, invece? Hai mai fatto l’amore? -
Sulle labbra della ragazza iniziò a farsi vedere un leggero sorriso divertito ma imbarazzato al contempo .
- No, non l’ho mai fatto. -
- Ah.. va bene. - Il moro era spiazzato, non sapeva davvero cosa dire, non riusciva ad immaginare Lena tra le braccia di qualcun altro, non riusciva ad immaginare mani estranee che la toccassero.
Lei sollevò il busto, poggiando i palmi delle mani sull’erba calda, voltando il viso per incontrare lo sguardo penetrante del giovane sul quale si soffermò per qualche secondo. Infine si sporse in avanti, e lo baciò.
Fu il loro primo bacio, il loro primo vero incontro, fu una dichiarazione d’amore indiretta.
Le loro labbra si cercavano, desiderose di averne sempre di più, bramose di quel contatto. Le mani del ragazzo si spostavano lente ma vogliose sul magro corpo di Lena, facendo in tal modo trasparire il desiderio che provava nei suoi confronti.
Fecero l’amore, per la prima volta, su quell’erba calda e sporca, senza vergogna, senza pudore, senza mai stancarsi di quel calore che infondevano l’uno all’altra.
 
E poi il caos, quell’articolo sul giornale locale, quella notizia così improvvisa.
Avvenne il giorno dopo quella volta al bosco. Aaron aveva detto a Lena che quel pomeriggio non avrebbero potuto vedersi, doveva aiutare suo fratello con alcune “faccende”.
Il fratello non era mai stato un tipo okay. Aveva venticinque anni, era una persona un po’ spossata, senza troppi freni inibitori, un ribelle. Veniva spesso coinvolto in risse quando era un’adolescente, e alla morte del padre era caduto in un circolo vizioso, quello della cocaina, e purtroppo si sa che una volta entrati uscirne è una bella sfida.
 
“Ragazzo ucciso in una rissa armata. Due colpi di pistola dritti al cervello, non c’è stata speranza.”
 
Erano quelle le parole che il giornalista aveva usato per indicare la morte tragica di quel ragazzo.
Si era trattato di soldi, di debiti, di droga. Non ce l’aveva fatta ad uscirne vivo, Aaron.
Si, era lui il ragazzo ucciso, era lui che aveva tentato di prendere le parti del fratello in quella rissa, era lui che lo avrebbe difeso fino alla morte, ed era lui che aveva perso la vita senza non aver fatto nessuno sbaglio se non quello di amare troppo.
Quando Lena venne a conoscenza di ciò che era accaduto, fu arrabbiata, fu furiosa.
Avrebbe tanto voluto andare a casa di quel fratello, di quell’uomo che l’aveva messo ingiustamente in quel casino, avrebbe tanto voluto spaccargli la faccia ed urlargli contro quanto fosse stato vigliacco.
Avrebbe voluto urlargli contro il suo dolore, la sua disperazione, la sua tragedia.
Ma in fin dei conti non provava davvero rancore verso il fratello, avrebbe semplicemente rappresentato una valvola di sfogo, qualcosa su cui scaricare tutta quella rabbia, qualcosa a cui addossare la colpa.
Non poteva essere morto, non aveva mai fatto nulla di male, non poteva essere successo davvero.
La sua casa era diventata un carcere nella quale trascorreva le ventiquattro ore della giornata, le sue lacrime bagnavano continuamente la sua pelle nivea e delicata, rigandole senza sosta il viso, e nessuno aveva il coraggio di parlare, di chiederle se avesse bisogno di qualcosa, di darle la forza che le era stata strappata via senza preavviso, senza motivo.
Era sola, ancora una volta, sola. Era capace di odiare il mondo, di odiare la sua famiglia, di odiare tutta quella violenza che le aveva portato via l’unica speranza che la vita le avesse dato, la speranza di sorridere ancora, di farsi forza, di credere che ci fosse ancora qualcosa di bello.
Passò un mese esatto e finalmente qualcosa cambiò, qualcosa le diede il coraggio, qualcosa fece riaccendere quella speranza dentro il suo cuore, quella speranza che la spingeva ancora a credere che esistesse un mondo migliore che valeva la pena di vedere, di vedere cosa ci sarebbe stato dopo.
Quel qualcosa sono io.
Sono passati dieci anni, e non ho mai visto mia madre piangere ripensando al passato, nemmeno quando per sbaglio si trovava ad osservare una vecchia foto che li rappresentava insieme, seduti su quella panchina, sorridenti come non mai.
Non so molto di mio padre, ma sono sicura che l’amore che provava per mia madre era davvero qualcosa di forte, qualcosa che avrebbe dimostrato al mondo che tutto lo schifo che c’era, tutto il dolore, tutto il male, tutta la violenza, non contavano nulla. Nulla a paragone di un amore così grande.
Delle volte mia madre si avvicina a me, si mette in ginocchio così da raggiungere la mia modesta altezza, posa un mano su una delle mie guance e mi guarda. Punta il suo sguardo sui miei occhi scuri, e sulle sue labbra un sorriso compare come istintivamente, come se lo sapessi già. E poi, prima di mettersi in piedi, mi sorride ancora una volta e mi dice che questi occhi neri sono la cosa più bella che Aaron avesse mai potuto lasciarle.
  
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