Io avevo
sempre odiato i tatuaggi. Specie quelli grandi, un po’
confusionari, che magari
non hanno neanche un senso; sono stati sparati lì a caso,
come le macchie di
colore buttate su una tela di un finto astrattista. In ogni caso, i
suoi
tatuaggi, oltre che ad essere belli, avevano anche un ordine. Non erano
neanche
tantissimi –o almeno io così la vedevo-. Entrambe
le braccia, tutta la schiena,
un po’ sul petto, un po’ sul fianco, uno sul collo,
e poi sulla mano destra. Il
più bello era sicuramente quello sulla sua schiena. Lo
mostrava sempre, in
pubblico, con orgoglio. Era un bodhisattva che pareva praticamente
dipinto. Una
volta, dopo aver finito di fare un qualcosa vagamente simile
all’amore, gli
chiesi se potevo guardarlo bene, quel tatuaggio. Mi regalò
una smorfia, si mise
a sedere e mi diede le spalle. Io accesi la luce fioca del comodino.
Inginocchiata, iniziai dapprima a guardare l’opera, poi presi
a tracciare i
contorni con un dito. Ogni tanto lo sentivo rabbrividire e ridere
appena.
Lui si odiava. Si odiava in tutti i sensi. Me l’aveva
confermato –perché era
cosa risaputa- intanto che eravamo a letto, come sempre. Me lo aveva
detto con
tranquillità, seduto, poggiato alla testata, intanto che
fumava. Lo diceva con
tranquillità solo in quel momento, questo era più
che scontato. Lo diceva
perché aveva bisogno di dirlo, esattamente come feci io un
minuto dopo. Non lo
faceva per sentirsi dire “Non hai bisogno di
odiarti”, oppure “Io ti apprezzo
così per come sei. E mi piaci anche”. No. Lo
diceva perché per lui era un dato
di fatto. Com’era un dato di fatto che più volte,
quasi ogni giorno, spesso
sentiva il bisogno di farsi a pezzi, mentre gridava l’odio
che aveva nei
confronti della sua persona, del suo essere e del suo corpo. Io
ascoltavo in
silenzio. Col mio silenzio concordavo con ciò che diceva.
Poi si voltava e mi
diceva grazie con lo sguardo.
Immagino che, per non urtarci a vicenda, nel momento in cui facevamo
quelle
specie di confessioni, tacevamo le considerazioni che avevamo
l’uno per
l’altra. Nel momento in cui diceva che si odiava, non avrei
di certo potuto
controbattere dicendo che di lui apprezzavo anche i denti storti, ad
esempio.
Avrei potuto dire, di getto, che li trovavo carini. In quel caso mi
sarei
trovata buttata giù dal letto in meno di un secondo, ma,
più che per non
rischiare la vita, non lo facevo per rispetto. Per non deluderlo. La
gente
parla tanto, dice un sacco di cose inutili. Credo che parlare di
sé non lo sia.
Nel momento in cui si sentono altre storie, invece, penso che qualunque
commento
sia superfluo. Su questo argomento, però, avevamo avuto un
lungo dibattito.
Eravamo delusi, sfiduciati, tristemente esseri umani che si
discostavano dalle
bestie tutt’intorno. Eravamo disperati. E talmente era grande
la disperazione,
che neanche si rifletteva all’esterno. Avevamo rinunciato a
gridare. O, almeno,
io avevo rinunciato completamente. Lui gridava su un palco, diceva
parole, ne
diceva tante, tante. Era insoddisfatto di ognuna di loro. Il suo
gridare parole
corrispondeva al mio piangere lacrime in incognito, in silenzio, in
solitudine.
Chi vedeva le mie lacrime non poteva capire. Chi ascoltava le sue
parole non
poteva capire. È impossibile descrivere l’universo
intero riuscendo a far
vedere agli altri soltanto il Sistema Solare o poco più.
Così era per noi
impossibile far capire a chi desideravamo il mare profondo che eravamo.
Eravamo
un mare, un oceano. Più che altro eravamo un abisso.
Più si nuotava in basso,
più diventava buio. Buio, freddo, profondo, ma calmo. Un
abisso è molto diverso
dall’universo. Nell’universo ci si appiglia alle
stelle.
In compenso, io avevo iniziato ad aggrapparmi a lui. Quando ci univamo
gli
vomitavo addosso un po’ di dolore ogni volta, e lo stesso
faceva lui con me. Mi
stringeva, lo stringevo. Ogni tanto capitava che piangessi. Si fermava,
mi si
metteva accanto e continuava a stringermi. Che era quello che cercavo
da anni
gliel’avevo detto. Questo doveva saperlo. Mi sentivo
compresa, apprezzata. Non
aveva fatto una piega per quanto riguardava la mia eccessiva magrezza.
Una
volta, però, aveva detto che ero bella. In tono duro, subito
dopo, aveva detto
che non voleva sentirmi dire nulla del genere su di lui. Ed io non lo
feci,
anche se mi costò molto, come tutte le altre volte dopo.
Quello che era singolare era il fatto che lui fosse un uomo piccolino,
però, a
mio avviso, con un corpo da far invidia a molti. Poi, la bellezza
è negli occhi
di chi la vede. Mi ero sentita in pace fra le sue braccia, che non in
quelle di
qualche altro uomo, oggettivamente bello, oggettivamente alto, ed
oggettivamente qualsiasi altra cosa, personalmente
noioso. Lui, in ogni caso, non lo amavo. Avevo con lui lo stesso
rapporto che
avevo col dolore. Mi era indispensabile, mi ci rifugiavo, mi ci
cullavo, ma non
potevo dire di amarlo. Onestamente, credo che l’amore sia una
cosa molto,
molto, molto più semplice.
Fra le altre cose, immagino che sentir cantare colui o colei che si ama
debba
far emozionare, far scoppiare il cuore di gioia, deve far rimanere
letteralmente estasiati. Spesso cantava, sempre in quel letto. Cantava
parole,
le solite parole inutili. Vaghe, così vaghe che mi facevano
male. Erano tanto
vaghe da riuscire a crearmi immagini in testa che non avevano
né capo né coda.
Rimanevano lì senza uno scopo. Quando prendevano forma,
iniziavano ad aver
senso, rischiavo di soffocare. Gli chiedevo di smetterla. Avrei voluto
tuffarmi
nel suo petto, nuotare, nuotare, nuotare, e nel mentre raccogliere
tutte quelle
parole. Portarle in fondo, fino alla fine dell’abisso, dove
avrei trovato il
senso. Avrei voluto fare questo. Mi limitavo ad accovacciarmi accanto a
lui.
Poi a circondarlo con le braccia e aggrapparmi alla sua schiena.
Una volta, dopo aver cantato per tutta la sera, tornammo a casa
–a casa sua-. Mi
aveva detto che aveva bisogno di me. Certamente, se qualcun altro
l’avesse
sentito, avrebbe pensato ad un evento raro, ad una faccenda
sconcertante. Non
avrebbe mai detto nulla del genere, lui. Io, invece, rimanevo
impassibile.
Aveva bisogno di me, sì, ma per vomitare dolore, come al
solito. Eppure, rimasi
scossa, quella volta. I suoi occhi scuri si muovevano frenetici, era
teso,
troppo teso. Pressava le bende sulle ferite che aveva sul petto.
Eravamo seduti
in un taxi, un normale taxi. Lo guardai tutto il tempo.
Quando arrivammo a casa lo feci sedere sul letto. Dovetti guidarlo io.
Chinata
gli dissi di attendermi, ed andai a prendere quello che serviva per la
medicazione.
Gliel’avevano già fatta, però volevo
curarlo io. Gli tolsi quelle bende. Era
stato in grado di scrivere “Mirai”*. A dir la
verità ci misi un po’ per capire i
kanji. Quanto può essere facile scrivere sulla propria
carne, secondo voi? Sanguinava
ancora un po’. Lui, intanto, non faceva una piega, anche
quando raccolsi delle
gocce con la punta dell’indice, senza neanche sfiorare la
pelle. Ne sentii il
sapore. Era aspro e duro. Dopo un po’ era dolce. Mi chiesi se
fosse davvero
sangue. Puntai lo sguardo al suo ventre, incantata. Lui fissava
chissà dove da
un po’ di tempo. Mi alzai dopo poco, con un lieve giramento
di testa. Lo avvolsi
con le braccia che, quel giorno, erano più deboli del
solito. Comunque, gli
feci poggiare il viso sul mio petto. Forse pianse due lacrime, ma non
lo
sentii, come sempre.
Mi decisi a provvedere alla medicazione. Ci misi la cura che impiega
una madre
con un bambino. Mi disse grazie, a voce. Mi fece rabbrividire. Che
bisogno
aveva di dirlo? Che bisogno aveva di dire quella parola? Rimasi
sconvolta e
turbata. Mi bastò quell’istante per comprendere
che qualcosa s’era spezzato.
Per tutto il tempo che ci eravamo stretti, non dicemmo una sola parola,
come
sempre. Le luci erano spente, come sempre. Ci illuminavano dei lampioni
distanti, come sempre. E la tenda bianca fluttuava, come sempre. Lui,
però,
come sempre non era. Tremava, addirittura. Era come se quella forza e
sicurezza
che mi aveva mostrato in quei due anni fosse completamente scomparsa.
Raggiunsi l’orgasmo a fatica, piangendo, avvinghiandomi a lui
come non avevo
mai fatto. Almeno aveva percepito che lo feci in maniera diversa.
Parlammo. Il blu, il blu profondo dove ci cullavamo, ormai aveva posto
le
coltri su di lui. Così aveva detto. Ma aveva detto anche,
tempo prima, che
dovevamo solo dormire, sul fondale dell’oceano. Dovevamo
dormire, ogni tanto
aprire gli occhi. Dovevamo aprirceli a vicenda, passarci ossigeno.
Avevo forse
sbagliato? Lo avevo lasciato dormire troppo? Cosa mi ero persa? Come
avevo
fatto distruggere quell’equilibrio che ci teneva vivi, in
qualche modo? Avevo
perso lui?
Era tornato calmo e sicuro come sempre. Gli occhi neri erano tornati
profondi;
non più quelli di un pazzo –perché,
d’un tratto, come tali mi erano apparsi-.
Da lucido, mi disse che non mi aveva perso. Sarei dovuta andare nel
blu, con
lui. Sarei entrata in lui, e lui in me. Accettai senza esitazioni.
L’equilibrio
prima o poi sarebbe andato rotto. Non potevamo rimanere in dormiveglia
per
sempre.
Ci stringemmo un’ultima volta, come sempre. Avevo dolore al
petto, al cuore. Un
presagio che mi appesantiva. Poi subentravano le sue braccia.
Uscimmo di casa.
Dalla scogliera il blu sotto di noi era profondo ed accogliente. Una
specie di
bozzolo ci aspettava. Diedi un’ultima occhiata alle stelle,
che parevano l’esatto
opposto di noi. Le salutai. Per molto tempo avevo parlato con loro.
Facevamo
delle conversazioni interessanti, vi dirò.
Salutai anche lui. Più che altro fu lui a salutare me. Un
bacio. Fu talmente
amaro che continuò ad occuparmi la testa anche durante il
salto, anche mentre
stringevo la sua mano. La sua mano che quella volta riuscì
ad afferrare il
senso nel blu profondo. Nel blu profondo dove profondamente dorme.
*Vuol dire "Futuro" in giapponese.
NdA:
Aaaaah-ahhahahahahah. Non so cosa dire, ad essere sincera. E'
la prima volta che scrivo dopo mesi ed è venuta fuori questa
cosa che non saprei come definire. Non è scritta da Dio,
specialmente l'ultima parte (Volevo assolutamente finirla,
però sono a pezzi, non troppo ispirata, quindi fa schifo
LOL), però ci sono abbastanza affezionata, ecco. Sono
affezionata all'idea generale ed ai personaggi. Se
qualcuno vuole farmi sapere se ci ha visto qualcuno, in
questi due (gente reale, tipo), o se li vedete come
semplice oggetto di metafora, allora fatemelo sapere. Questo ci terrei
a capirlo, ecco.