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Autore: Emi Nunmul    22/05/2012    1 recensioni
Da lucido, mi disse che non mi aveva perso. Sarei dovuta andare nel blu, con lui. Sarei entrata in lui, e lui in me. Accettai senza esitazioni. L’equilibrio prima o poi sarebbe andato rotto. Non potevamo rimanere in dormiveglia per sempre.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Io avevo sempre odiato i tatuaggi. Specie quelli grandi, un po’ confusionari, che magari non hanno neanche un senso; sono stati sparati lì a caso, come le macchie di colore buttate su una tela di un finto astrattista. In ogni caso, i suoi tatuaggi, oltre che ad essere belli, avevano anche un ordine. Non erano neanche tantissimi –o almeno io così la vedevo-. Entrambe le braccia, tutta la schiena, un po’ sul petto, un po’ sul fianco, uno sul collo, e poi sulla mano destra. Il più bello era sicuramente quello sulla sua schiena. Lo mostrava sempre, in pubblico, con orgoglio. Era un bodhisattva che pareva praticamente dipinto. Una volta, dopo aver finito di fare un qualcosa vagamente simile all’amore, gli chiesi se potevo guardarlo bene, quel tatuaggio. Mi regalò una smorfia, si mise a sedere e mi diede le spalle. Io accesi la luce fioca del comodino. Inginocchiata, iniziai dapprima a guardare l’opera, poi presi a tracciare i contorni con un dito. Ogni tanto lo sentivo rabbrividire e ridere appena.
Lui si odiava. Si odiava in tutti i sensi. Me l’aveva confermato –perché era cosa risaputa- intanto che eravamo a letto, come sempre. Me lo aveva detto con tranquillità, seduto, poggiato alla testata, intanto che fumava. Lo diceva con tranquillità solo in quel momento, questo era più che scontato. Lo diceva perché aveva bisogno di dirlo, esattamente come feci io un minuto dopo. Non lo faceva per sentirsi dire “Non hai bisogno di odiarti”, oppure “Io ti apprezzo così per come sei. E mi piaci anche”. No. Lo diceva perché per lui era un dato di fatto. Com’era un dato di fatto che più volte, quasi ogni giorno, spesso sentiva il bisogno di farsi a pezzi, mentre gridava l’odio che aveva nei confronti della sua persona, del suo essere e del suo corpo. Io ascoltavo in silenzio. Col mio silenzio concordavo con ciò che diceva. Poi si voltava e mi diceva grazie con lo sguardo.
Immagino che, per non urtarci a vicenda, nel momento in cui facevamo quelle specie di confessioni, tacevamo le considerazioni che avevamo l’uno per l’altra. Nel momento in cui diceva che si odiava, non avrei di certo potuto controbattere dicendo che di lui apprezzavo anche i denti storti, ad esempio. Avrei potuto dire, di getto, che li trovavo carini. In quel caso mi sarei trovata buttata giù dal letto in meno di un secondo, ma, più che per non rischiare la vita, non lo facevo per rispetto. Per non deluderlo. La gente parla tanto, dice un sacco di cose inutili. Credo che parlare di sé non lo sia. Nel momento in cui si sentono altre storie, invece, penso che qualunque commento sia superfluo. Su questo argomento, però, avevamo avuto un lungo dibattito. Eravamo delusi, sfiduciati, tristemente esseri umani che si discostavano dalle bestie tutt’intorno. Eravamo disperati. E talmente era grande la disperazione, che neanche si rifletteva all’esterno. Avevamo rinunciato a gridare. O, almeno, io avevo rinunciato completamente. Lui gridava su un palco, diceva parole, ne diceva tante, tante. Era insoddisfatto di ognuna di loro. Il suo gridare parole corrispondeva al mio piangere lacrime in incognito, in silenzio, in solitudine. Chi vedeva le mie lacrime non poteva capire. Chi ascoltava le sue parole non poteva capire. È impossibile descrivere l’universo intero riuscendo a far vedere agli altri soltanto il Sistema Solare o poco più. Così era per noi impossibile far capire a chi desideravamo il mare profondo che eravamo. Eravamo un mare, un oceano. Più che altro eravamo un abisso. Più si nuotava in basso, più diventava buio. Buio, freddo, profondo, ma calmo. Un abisso è molto diverso dall’universo. Nell’universo ci si appiglia alle stelle.
In compenso, io avevo iniziato ad aggrapparmi a lui. Quando ci univamo gli vomitavo addosso un po’ di dolore ogni volta, e lo stesso faceva lui con me. Mi stringeva, lo stringevo. Ogni tanto capitava che piangessi. Si fermava, mi si metteva accanto e continuava a stringermi. Che era quello che cercavo da anni gliel’avevo detto. Questo doveva saperlo. Mi sentivo compresa, apprezzata. Non aveva fatto una piega per quanto riguardava la mia eccessiva magrezza. Una volta, però, aveva detto che ero bella. In tono duro, subito dopo, aveva detto che non voleva sentirmi dire nulla del genere su di lui. Ed io non lo feci, anche se mi costò molto, come tutte le altre volte dopo.
Quello che era singolare era il fatto che lui fosse un uomo piccolino, però, a mio avviso, con un corpo da far invidia a molti. Poi, la bellezza è negli occhi di chi la vede. Mi ero sentita in pace fra le sue braccia, che non in quelle di qualche altro uomo, oggettivamente bello, oggettivamente alto, ed oggettivamente qualsiasi altra cosa, personalmente noioso. Lui, in ogni caso, non lo amavo. Avevo con lui lo stesso rapporto che avevo col dolore. Mi era indispensabile, mi ci rifugiavo, mi ci cullavo, ma non potevo dire di amarlo. Onestamente, credo che l’amore sia una cosa molto, molto, molto più semplice.
Fra le altre cose, immagino che sentir cantare colui o colei che si ama debba far emozionare, far scoppiare il cuore di gioia, deve far rimanere letteralmente estasiati. Spesso cantava, sempre in quel letto. Cantava parole, le solite parole inutili. Vaghe, così vaghe che mi facevano male. Erano tanto vaghe da riuscire a crearmi immagini in testa che non avevano né capo né coda. Rimanevano lì senza uno scopo. Quando prendevano forma, iniziavano ad aver senso, rischiavo di soffocare. Gli chiedevo di smetterla. Avrei voluto tuffarmi nel suo petto, nuotare, nuotare, nuotare, e nel mentre raccogliere tutte quelle parole. Portarle in fondo, fino alla fine dell’abisso, dove avrei trovato il senso. Avrei voluto fare questo. Mi limitavo ad accovacciarmi accanto a lui. Poi a circondarlo con le braccia e aggrapparmi alla sua schiena.

Una volta, dopo aver cantato per tutta la sera, tornammo a casa –a casa sua-. Mi aveva detto che aveva bisogno di me. Certamente, se qualcun altro l’avesse sentito, avrebbe pensato ad un evento raro, ad una faccenda sconcertante. Non avrebbe mai detto nulla del genere, lui. Io, invece, rimanevo impassibile. Aveva bisogno di me, sì, ma per vomitare dolore, come al solito. Eppure, rimasi scossa, quella volta. I suoi occhi scuri si muovevano frenetici, era teso, troppo teso. Pressava le bende sulle ferite che aveva sul petto. Eravamo seduti in un taxi, un normale taxi. Lo guardai tutto il tempo.

Quando arrivammo a casa lo feci sedere sul letto. Dovetti guidarlo io. Chinata gli dissi di attendermi, ed andai a prendere quello che serviva per la medicazione. Gliel’avevano già fatta, però volevo curarlo io. Gli tolsi quelle bende. Era stato in grado di scrivere “Mirai”*. A dir la verità ci misi un po’ per capire i kanji. Quanto può essere facile scrivere sulla propria carne, secondo voi? Sanguinava ancora un po’. Lui, intanto, non faceva una piega, anche quando raccolsi delle gocce con la punta dell’indice, senza neanche sfiorare la pelle. Ne sentii il sapore. Era aspro e duro. Dopo un po’ era dolce. Mi chiesi se fosse davvero sangue. Puntai lo sguardo al suo ventre, incantata. Lui fissava chissà dove da un po’ di tempo. Mi alzai dopo poco, con un lieve giramento di testa. Lo avvolsi con le braccia che, quel giorno, erano più deboli del solito. Comunque, gli feci poggiare il viso sul mio petto. Forse pianse due lacrime, ma non lo sentii, come sempre.
Mi decisi a provvedere alla medicazione. Ci misi la cura che impiega una madre con un bambino. Mi disse grazie, a voce. Mi fece rabbrividire. Che bisogno aveva di dirlo? Che bisogno aveva di dire quella parola? Rimasi sconvolta e turbata. Mi bastò quell’istante per comprendere che qualcosa s’era spezzato.
Per tutto il tempo che ci eravamo stretti, non dicemmo una sola parola, come sempre. Le luci erano spente, come sempre. Ci illuminavano dei lampioni distanti, come sempre. E la tenda bianca fluttuava, come sempre. Lui, però, come sempre non era. Tremava, addirittura. Era come se quella forza e sicurezza che mi aveva mostrato in quei due anni fosse completamente scomparsa.
Raggiunsi l’orgasmo a fatica, piangendo, avvinghiandomi a lui come non avevo mai fatto. Almeno aveva percepito che lo feci in maniera diversa.
Parlammo. Il blu, il blu profondo dove ci cullavamo, ormai aveva posto le coltri su di lui. Così aveva detto. Ma aveva detto anche, tempo prima, che dovevamo solo dormire, sul fondale dell’oceano. Dovevamo dormire, ogni tanto aprire gli occhi. Dovevamo aprirceli a vicenda, passarci ossigeno. Avevo forse sbagliato? Lo avevo lasciato dormire troppo? Cosa mi ero persa? Come avevo fatto distruggere quell’equilibrio che ci teneva vivi, in qualche modo? Avevo perso lui?
Era tornato calmo e sicuro come sempre. Gli occhi neri erano tornati profondi; non più quelli di un pazzo –perché, d’un tratto, come tali mi erano apparsi-. Da lucido, mi disse che non mi aveva perso. Sarei dovuta andare nel blu, con lui. Sarei entrata in lui, e lui in me. Accettai senza esitazioni. L’equilibrio prima o poi sarebbe andato rotto. Non potevamo rimanere in dormiveglia per sempre.
Ci stringemmo un’ultima volta, come sempre. Avevo dolore al petto, al cuore. Un presagio che mi appesantiva. Poi subentravano le sue braccia.
Uscimmo di casa.

Dalla scogliera il blu sotto di noi era profondo ed accogliente. Una specie di bozzolo ci aspettava. Diedi un’ultima occhiata alle stelle, che parevano l’esatto opposto di noi. Le salutai. Per molto tempo avevo parlato con loro. Facevamo delle conversazioni interessanti, vi dirò.
Salutai anche lui. Più che altro fu lui a salutare me. Un bacio. Fu talmente amaro che continuò ad occuparmi la testa anche durante il salto, anche mentre stringevo la sua mano. La sua mano che quella volta riuscì ad afferrare il senso nel blu profondo. Nel blu profondo dove profondamente dorme.












*Vuol dire "Futuro" in giapponese.


NdA:  Aaaaah-ahhahahahahah. Non so cosa dire, ad essere sincera. E' la prima volta che scrivo dopo mesi ed è venuta fuori questa cosa che non saprei come definire. Non è scritta da Dio, specialmente l'ultima parte (Volevo assolutamente finirla, però sono a pezzi, non troppo ispirata, quindi fa schifo LOL), però ci sono abbastanza affezionata, ecco. Sono affezionata all'idea generale ed  ai personaggi. Se  qualcuno vuole farmi sapere se ci ha visto qualcuno, in questi due (gente reale,  tipo), o se li  vedete come semplice oggetto di metafora, allora fatemelo sapere. Questo ci terrei  a capirlo, ecco.

   
 
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