Film > The Phantom of the Opera
Segui la storia  |       
Autore: Alkimia    23/05/2012    1 recensioni
"C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la stagione della pazzia."

Anno 1871: non è più Parigi, non è più l'Opera Populaire, niente più angeli o muse, eppure l'uomo che si cela dietro la maschera sa che deve andare avanti, anche se non sa più il perché. Anno 1892: un giovane straniero arriva in Francia, con un vecchio diario da leggere e una storia di cui scoprire i misteri.
E sulle loro vite aleggiano i medesimi fantasmi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo sedicesimo
Parole


~ Parigi, 14 maggio 1892 ~

Per molti anni in quei sogni c'era stato solo dolore.
Quando di tanto in tanto le capitava di tornare in quel luogo mentre era addormentata, Christine si sentiva soffocare dalla sofferenza che permeava da quelle pareti di pietra spoglia, poi, lentamente, anno dopo anno, era sopraggiunto un senso di calma gelida, come un sonno indotto dai farmaci, come il silenzio innaturale dei cimiteri... dopotutto, quello era il mausoleo della sua giovinezza e delle sue illusioni.
Ad ogni modo, dopo tanto tempo, la viscontessa De Chagny non aveva ancora capito se quei sogni fossero un bene o un male. Forse erano solo la prova che certi ricordi non l'avrebbero mai abbandonata, ma del resto lei lo aveva sempre saputo. Lo aveva saputo nello stesso istante in cui aveva chiuso le sue dita attorno alla mano – una mano incredibilmente gelida – del suo Angelo della Musica nel momento in cui gli aveva restituito l'anello, prima di voltarsi e lasciarlo. Prima di lasciare che quel sogno divenuto incubo si dissolvesse nelle luci del mattino che stava sbocciando su Parigi dopo quella notte di fuoco, sangue e follia.
Aveva sognato per la prima volta la Dimora sul Lago il giorno in cui era nato suo figlio, quando il parto l'aveva quasi uccisa. Il dolore dei ricordi le aveva dato la forza per sopravvivere, per salvarsi senza perdere il bambino. Poi c'erano stati altri sogni, perché, che lo volesse o meno, c'era un pezzo della sua anima rimasta in quei sotterranei, quella parte di affetto, di amore, che niente avrebbe potuto cancellare, nemmeno l'orrore.
Ora era tornata lì, era stata una discesa terribile, come una caduta vorticosa in un pozzo senza fondo. C'era voluta un'eternità di buio prima che quella discesa si arrestasse e la conducesse in quel luogo.
L'acqua del lago sotterraneo era gelida, si aggrappava alle sue vesti e le rendeva pesanti, togliendole la forza di continuare a camminare verso la riva.
A lottare con quei ricordi, Christine non era mai stata brava.
Ma non c'era dolore, non c'era nemmeno la calma gelida e silenziosa. Ora c'era la musica, era ovunque, sembrava sgorgare nel gocciolio della cera delle candele, muoversi tra le pieghe dei tendaggi, serpeggiare tra le venature del legno... c'era la sua musica, la loro musica.   
E il dolore era solo il suo, di Christine. La donna lo sentì salì dal cuore agli occhi, lo sentì diventare calde lacrime che scivolavano quasi tagliandole le guance, ma lei non aveva il coraggio di singhiozzare, perché temeva che se avesse fatto rumore avrebbe spezzato l'incantesimo. Perché per troppo tempo aveva anelato di ascoltare ancora quella melodia...
Quando la sua mente riemerse dalle nebbie della commozione, la donna si rese conto che adesso la musica proveniva da un punto preciso, da dietro le tende del baldacchino del letto intagliato.
Lui non c'era mai nei suoi sogni, non lo aveva più rivisto, lo aveva solo sentito parlare alle volte, quasi come quando era bambina e lui cantava dietro lo specchio. Possibile che fosse tornato?
Christine fu consapevole del peso schiacciante di quell'emozione, del fatto che se non fosse stato solo un sogno ne sarebbe morta. Lentamente, come attratta da un magnetismo istintivo, si mosse verso le tende, restò qualche secondo con la mano sospesa a mezz'aria, esitante. Infine scostò il pesante drappo di velluto.
Non era il suo Angelo della Musica quello che stava suonando, in piedi accanto alla sponda del letto a forma di cigno. Era Louis, con il violino sulla spalla, gli occhi chiusi, rapito dalle sue stesse note.
Provò a chiamarlo più volte, urlò il suo nome, ma il ragazzo continuò a suonare, incapace di sentirla...
Certo, lui non apparteneva a quel luogo, lui non aveva niente a che fare con quei ricordi, apparteneva a giorni di luce e non a notti infinite. Non aveva niente a che fare con lei. Era solo un caso, un bizzarro, crudele tiro mancino del fato che quel ragazzo fosse capitato nella sua vita. Perché, e dopo averlo sentito suonare Christine ne era certa, Louis non poteva essere altri che il figlio di Erik.

*

Louis camminava avanti e indietro lungo quel breve tratto di corridoio, con ostinazione, quasi con rabbia, come se avesse voluto scavare un solco sul parquet di ciliegio.
I rettangoli di luce disegnati dal sole che batteva contro i vetri in stile inglese stavano sbiadendo, minuto dopo minuto diventavano sempre più simili alle ombre proiettare dalle tende semichiuse.
Louis continuava a camminare. Si fermava di tanto in tanto a fissare la porta chiusa dalla quale era entrato il dottore, poi continuava a fare su e giù, mordendosi il labbro, borbottando nervosamente tra sé e sé.
Si era già detto e ripetuto almeno dieci volte che lui non c'entrava niente, ma non riusciva a togliersi dalla testa la convinzione che il malessere di Christine fosse stato colpa sua, che in qualche modo era stato lui a provocarlo.
La sua mente aveva argomentato, confutato e smontato questa ipotesi in una miriade di ragionamenti folli, eppure Louis si sentiva in colpa. E non vedeva l'ora che quella dannata porta si aprisse e che qualcuno gli dicesse qualcosa, che Gustave spuntasse con in faccia un sorriso sollevato a dirgli che andava tutto bene, che non era accaduto niente, che sua madre si sarebbe ripresa.
«Che idiozia, dovrei essere io a confortare lui, semmai!» esclamò, fermandosi accanto alla finestra e scuotendo la testa, fino a quando non sentì su di sé il peso di uno sguardo. Si voltò e vide un cameriere in livrea che lo fissava perplesso.
«Oh... scusate, monsieur» squittì il domestico, prima di dileguarsi verso il fondo del corridoio, così in fretta che il giovane non fece nemmeno in tempo a trovare una scusa plausibile o a dire qualcosa a riprova del fatto che non fosse pazzo.
«Forse lo sono. Forse tutta questa storia mi sta facendo impazzire... il diario, mio padre, Gustave, il visconte, Christine... non posso essere stato io, non è colpa mia».
Il ragazzo si allentò il nodo del cravattino, appoggiò i palmi delle mani sul davanzale e guardò fuori. Da quel punto della casa, si vedeva solo un rettangolo di prato perfettamente falciato; in lontananza c'erano ancora i gazebo che si alzavano sull'erba come enormi funghi bianchi. Tutti gli ospiti se n'erano andati, mandati educatamente via dal visconte che sembrava preoccupato solo e soltanto della salute di sua moglie, come se non avesse avuto altro al mondo.
Louis aprì la finestra, inspirò una boccata di aria tiepida e guardò verso il cielo: una tavola di azzurro perfettamente tersa, appena velata dalle ombre che preannunciavano il tramonto.
Nel silenzio della casa, nella quiete immobile del giardino deserto, il ragazzo alzò gli occhi e cominciò a pregare. Pregò Dio per un filo di luce, non sapeva bene cosa aspettarsi, non era sicuro di ciò che desiderava in quel momento, voleva solo che giungesse qualcosa a portar via un po' di ombra.

*******

~ Napoli, 06 maggio 1872 ~

Quella era la sua serata.
Erik chiuse gli occhi e restò fermo davanti a quella tenda per un tempo lunghissimo, quasi gustando il silenzio che si riempiva lentamente del brusio delle persone che cominciavano ad arrivare. I passi felpati sulla moquette, i borbottii eccitati, le parole a mezza voce...
Quella era la sua serata, un'altra battaglia vinta in partenza tra i confini del suo dominio. Che il cuore pulsante appartenesse all'uomo o al fantasma non aveva importanza, ciò che contava era quella sensazione inebriante di trionfo.
Erik scostò piano una tenda che dava sulla platea e guardò il teatro riempirsi di gente. Di gente comune, come aveva voluto. Persone che non avrebbero mai potuto mettere piede nel San Carlo se non si fosse deciso di aprire il teatro a tutti per una sera.
Erano per lo più mercanti e lavoratori del porto quelli che stavano entrando nella platea, camminando piano tra le poltrone di velluto, con i nasi per aria e gli sguardi un po' smarriti, quasi si sentissero schiacciati dalle occhiate degli dei nell'affresco. Una miriade di visi cotti dal sole sotto lo sfavillio dei candelabri, labbra serrate in un silenzio rispettoso come quello di chi entra in una chiesa.
Erik notò un ragazzetto magro, con indosso quello che doveva essere il suo vestito buono della domenica, accarezzare rapito le nappe di seta lucida di una tenda.
Sorrise. Quella era la sua serata, ma non soltanto la sua...
«Siete sicuro di quello che state facendo, vero, Maestro?» domandò Guglielmo Marchesi, comparendo alle sue spalle e guardando con aria preoccupata i ragazzi e l'uomo con un immacolato costume da Pulcinella intenti ad accordare gli strumenti.
«Oramai non è più rilevante: è già fatto» replicò Erik voltandosi verso di lui.
Marchesi controllò il suo orologio da taschino e lanciò qualche occhiata nervosa verso il corridoio.
«Non verrà» lo informò Erik.
«Come dite?»
«La signorina Rovesti, non verrà».
Come da copione, Marchesi diventò più rosso delle tende del sipario. Ripose l'orologio nella tasca interna del doppiopetto e si lisciò i sottili baffi scuri.
«Voi dite?» chiese, ostentando un disinteresse del tutto falso.
«Abbiamo avuto una piccola divergenza, ragion per cui dubito che allieterà una serata fortemente voluta dal sottoscritto con la luce della sua presenza. Ora, se volete scusarmi, devo andare ad assicurarmi che sia tutto in ordine».
Quella era decisamente la sua serata. Ma era anche la serata della piccola Luisa, anche se lei non lo sapeva ancora.

*

Il duca Giusso osservò lo strano spettacolo davanti a sé, la platea del san Carlo piena di gente comune – i nobili e i ricchi si erano sistemati nei palchi, lontano dal popolo, tanto per non perdere occasione di sentirsi al di sopra. Era un bello spettacolo, un buffo, insolito, straordinario bello spettacolo.
Anche lui era in un palco, quello centrale del primo ordine, era lì che lo aveva sistemato Erik, ma gli sarebbe piaciuto mescolarsi alla gente comune e godere del loro stupore. E chissà quanto ne stava godendo il suo amico francese, lui che tanto amava sorprendere!
Luisa si sistemò sulla poltrona accanto al parapetto, il suo abito di seta frusciava come un tappeto di foglie in autunno e... oh, buon Dio! Cos'era quello che aveva sulle guance? Belletto?
Mariano Giusso fece un profondo respiro osservando con la coda dell'occhio sua figlia posare elegantemente in grembo le mani guantate che reggevano il ventaglio di pizzo. Come una vera signora.
Stava diventando una donna, molto in fretta, più in fretta di quanto avrebbe dovuto, purtroppo.
Il duca si sedette su una sedia alle sue spalle, lasciando gli altri due posti liberi alle altre persone che avrebbero dovuto occuparli. Luisa gli batté una mano sul braccio.
«E-r-i-k?» scandì con le labbra.
L'uomo scrollò le spalle,
«Non credo si unirà a noi durante lo spettacolo, tesoro. Immagino se ne starà rintanato da qualche parte a sogghignare di soddisfazione fino a domattina».
Luisa sorrise divertita e scosse il capo.
Un attimo dopo la porta del palco si aprì e fece il suo ingresso una donna. Indossava un elegante abito da sera, blu con i merletti neri, ma non portava gioielli.
Il duca non la riconobbe subito, ma si alzò al suo ingresso, come ordinava l'etichetta, per salutarla.
«Buona sera, signor duca» la donna rispose al suo saluto con un sorriso che sembrava persino un po' imbarazzato.
A quel punto l'uomo la riconobbe, doveva trattarsi certo di Lucia Aiello. E se Lucia Aiello era lì in quel palco quella sera, allora, dedusse Giusso, le voci che correvano su di lei e il Maestro francese dovevano essere vere e avevano viaggiato anche più in fretta di quanto accadesse di solito.
Il duca sorrise cordiale e l'aiutò galantemente ad accomodarsi, senza far trapelare la sua perplessità. Doveva riconoscerle una certa attrattiva, era una giovane donna graziosa, eppure si chiese come mai Erik, con la sua immensa ritrosia e con la sua totale sfiducia nel mondo, avesse scelto lei. Poi si ricordò dell'incendio in cui la ragazza era rimasta coinvolta, delle ustioni e quasi si sentì uno sciocco per non esserci arrivato subito.
«Spero non vi dispiaccia se, ehm...» farfugliò la ragazza.
Il duca allargò il suo sorriso gioviale,
«Signora, ho già avuto il piacere di condividere un palco con voi una volta, rammentate? Regalaste il vostro fermaglio a mia figlia in quell'occasione».
Lucia Aiello annuì e sorrise, ma nei suoi occhi c'era qualcosa che sembrava gridare a gran voce che quelle erano altre circostanze, che quelli erano altri tempi.
«Piuttosto, avete una vaga idea di che genere di spettacolo si tratti?» domandò Giusso dopo qualche secondo. Anche Luisa si voltò incuriosita per sentire la risposta.
«Oh, ne ho un'idea piuttosto precisa, ma sono sicura che il Maestro preferirebbe se continuasse a restare una sorpresa ancora per qualche minuto» rispose la giovane donna con aria divertita. «Comunque, sono assolutamente certa che vi piacerà».
«Ah, lo sapete. Dunque con voi si confida...». Giusso la fece apparire come un'esclamazione casuale, sfuggita per caso e del tutto ironica e innocente, ma la verità era che voleva saperne di più.
Tutto ciò che sapeva di Erik e le donne lo aveva saputo da Madame Giry la sera dell'incendio all'Opera Populaire, era stato un racconto molto confusionario e angosciante, e tuttavia era una storia terribile. Per questo sentiva che ora, con quella ragazza, non poteva concedersi il lusso della delicatezza e della diplomazia. Forse Lucia Aiello era solo una prostituta con la quale Erik aveva sentito una sorta di strano legame per via di certi problemi fisici, ma se fosse stato qualcosa di diverso, lui avrebbe voluto saperlo, avrebbe voluto essere pronto.
Ad ogni modo, se la ragazza aveva trovato indiscreto il suo commento non lo diede a vedere. Lucia Aiello poteva anche essere solo una prostituta, ma conosceva le buone maniere.
«Credo, signore, che Erik non si confidi davvero con nessuno. Tuttavia, parliamo spesso, sì. E abbiamo parlato anche di questa serata» disse.
Parlavano? Il duca Giusso non aveva mai sperimentato la compagnia di una cortigiana, aveva amato sua moglie ed era rimasto fedele alla sua memoria come era stato fedele alla sua persona quando era in vita, tuttavia non credeva che Erik e Lucia Aiello parlassero spesso. Cominciava persino a sentirsi confuso adesso.
«Immagino siate un'ottima compagnia» replicò, per poi rendersi conto solo un attimo dopo di quanto sciocca e ambigua suonasse la sua frase. Probabilmente arrossì e sperò che nella penombra del placo la cosa non venisse notata.
Lucia non disse niente perché in quel momento, grazie al cielo, la porta si aprì di nuovo ed entrò un trafelato Guglielmo Marchesi, con la faccia di un uomo che sente sulle proprie spalle il peso dell'universo.
Il direttore del San Carlo si appoggiò con i palmi delle mani allo schienale della sedia e sembrò trovare a fatica la forza necessaria a salutare i presenti.
«Buona sera» biascicò con la voce flebile, appena udibile.
«Guglielmo, mio caro, sedete prima che vi venga un attacco» fece il duca additandogli l'ultima poltrona libera.
«Signor duca, in nome del cielo, voi sapete niente di tutto ciò?» disse Marchesi mettendosi seduto.
«No, la signora qui ne è al corrente, ma in qualità di buona confidente del nostro amico francese, si rifiuta di dirci alcunché»
«Adesso mi mettete in difficoltà, duca» replicò Lucia con fare bonario. «Lo spettacolo non inizierà che tra pochi minuti e allora saprete tutti di che si tratta».
Guglielmo Marchesi strabuzzò gli occhi. Se ne stava premuto contro lo schienale della sedia, come se si aspettasse di ricevere una bastonata da un momento all'altro, teneva la testa talmente incassata tra le spalle che quando la muoveva sembrava un enorme esemplare di tartaruga.
«Signora, per la mia pace... potete dirmi qualcosa di più?» balbettò, guardando Lucia con fare implorante.
La ragazza sembrò stupita, come se non si aspettasse di essere davvero la sola a conoscere i progetti di Erik.
«Signor Marchesi, rilassatevi. Vi assicuro che stasera non vedrete nulla che possa dispiacervi o danneggiarvi».
Poi non poté aggiungere altro perché le luci in sala cominciarono a spegnersi. E non ci fu più tempo per parlare, c'era solo da ascoltare. Da ascoltare una famiglia di musicisti che suonavano la musica di Napoli, che cantavano quelle canzoni fatte di fango e sangue come i cuori della gente di quella città. Tra una canzone e l'altra il signor Bandiello, il primo tenore del teatro, recitava delle poesie, testi insoliti che nessuno tra i presenti aveva mai udito prima, insiemi di parole che grondavano speranza e forza.
Il duca aveva la bocca aperta in una O precisa di perfetto stupore. Lui le conosceva quelle poesie perché le aveva lette. Lentamente, come se temesse che un movimento troppo brusco potesse rompere qualcosa di quell'incanto, si voltò verso sua figlia.
Lo sguardo lucido di Luisa era inchiodato al palco, inchiodato a quelle parole che aveva scritto e che fino a quella sera non avevano mai avuto voce. Una lacrima di commozione – che era indiscutibilmente la lacrima di una donna, le solcava la guancia, arrivando fino all'angolo del suo sorriso stupito e soddisfatto.

____________________________________________________________________________________________

Here, I have a note...

D'accordo, tutta la faccenda di Christine fa un po' Conte di Montecristo ed è... da crudeltà mentale. Ma se anche io e la mia penna non fossimo riuscite a metterci d'accordo, avrei scritto comunque questa fanfiction solo per scrivere la scena in cui lei sente la musica di Erik suonata da Louis e sviene... e tutto quello che ne Il capitolo è un po' un fritto misto di POV e a me di solito non piacciono i capitoli così, ma questo è venuto fuori in questo modo perché evidentemente così s'aveva da fare. E non è venuto fuori nemmeno troppo facilmente.

Siamo quasi in dirittura d'arrivo con questa storia e avrei bisogno di rallentare un po', quindi aggiornerò con cadenza bisettimanale. Avviso, perché non sopporto di essere in ritardo ed è inutile promettervi il capitolo nuovo per il prossimo mercoledì quando so bene che non riuscirò ad averlo pronto.

I remain, gentlemen, your obidient servant.


   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Phantom of the Opera / Vai alla pagina dell'autore: Alkimia