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Autore: Ortensia_    23/05/2012    2 recensioni
Dodici, e le lancette scorrono.
Qualcosa li ha condotti al numero 50 di Berkeley Square, e non vuole più lasciarli andare.
Vive nelle fondamenta, nel vuoto. Si nutre della paura e spezza quei sentimenti che riescono a toccarsi con dolcezza nella casa spettrale di Londra.
...
Cos'è? Chi è?
...
Genere: Dark, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Allied Forces/Forze Alleate, Altri, Austria/Roderich Edelstein, Bielorussia/Natalia Arlovskaya, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Can you hear the World?'
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XV - Alleanze



Quando aprì gli occhi, anzi, l’occhio, e sollevò il viso, l’inglese rantolò debolmente, mettendosi lentamente a sedere e portando cautamente le dita allo zigomo e all’occhio, rabbrividendo nel sentirli incredibilmente gonfi.
«Ah-» scostò subito le dita, non appena sentì la pelle bruciare e pulsare sotto il proprio tocco.
Sospirò appena, alzandosi dal letto. L’improvviso giramento di testa causato dal dolore sbilanciò il suo equilibrio, spingendolo a sorreggersi penosamente al muro.
«Shit-» sibilò flebilmente, trascinandosi fino alla porta; quando avrebbe visto Antonio gli avrebbe detto di aver dormito nella sua stanza, ma ora … ora voleva solo bere un tè caldo.
Arrivò fino alla cucina, trovandola vuota, e massaggiandosi la fronte con le dita aprì le vecchie ante della piccola credenza della cucina.
Quando trovò lo scaffale vuoto, ebbe davanti ai propri occhi la sola conferma delle scorte di tè ormai giunte alla loro fine.
«…» richiuse le ante ed arretrò, per poi sedersi al tavolo con un sospiro, chinando il viso e portando le mani fra i capelli biondi, quasi tirando appena le ciocche fra le dita.
Rimase chiuso nel suo silenzio, con anche l’occhio destro socchiuso a causa della fatica che le ferite al sinistro gli provocavano.
Senza tè. Bene, il suo senno sarebbe presto crollato.
Per un attimo sentì il bisogno di aver Alfred lì con lui, ma si ricordò della sua decisione, della promessa fatta a sé stesso quella stessa notte: si sarebbe scostato da lui, e da tutti gli altri. Sarebbe rimasto lontano da tutti, fino alla morte dell’assassino. E se in quella casa era destinato a rimanere solo lui, col loro carnefice, l’avrebbe ucciso.
«Sono proprio un bastardo, lo so.»
Si rigirò fra le mani una pistola piuttosto piccola, di un grigio scuro: quella che nascondeva fin dall’inizio, quella che non aveva mai usato, ma sulla quale non avrebbe esitato, se si fosse trovato di fronte l’assassino.
Rimanere solo, senza potersi confidare con nessuno, senza un amico che potesse cancellare le sue lacrime e con la consapevolezza di essere un ipocrita bugiardo: ecco quali erano le sue scelte.

Gilbert non mosse un muscolo neppure quando sentì bussare alla porta.
Anche schiudere le labbra per parlare sembrava ormai una cosa estranea, e aveva paura di aver dimenticato come fare, di sentire la propria voce percossa dalla tristezza e spezzata dal dolore.
Non aveva chiuso occhi tutta la notte, ed ora se ne rimase immobile sul letto, lasciando che bussassero una seconda volta.
«Gilbert, ci sei?»
Quando l’albino sentì la voce dell’americano oltre la porta aggrottò la fronte confuso: veniva a difendere la sua bella? Tsk!
«Sì?»
Come sospettava: la sua voce risuonò terribilmente spenta, vuota e tremante, più roca e sforzata del normale.
«Devo parlarti.»
«Entra pure …»
Si trascinò faticosamente sul letto e si sedette pigramente, ascoltando il leggero rumore della porta che veniva aperta e richiusa subito dopo.
«Non sarei mai voluto arrivare a questo punto, ma credo che tu … che tu abbia ragione …»
Gilbert rimase in silenzio per qualche attimo, poi si schiarì la voce «che intendi?»
«Ieri sera, quando sono tornato in camera con Arthur, le chiavi erano di nuovo dentro al cassetto …» l’americano sospirò «posso sedermi-?»
Le chiavi erano di nuovo nel cassetto? A quelle parole, Gilbert, sentì una nuova rabbia ribollirgli dentro.
Il prussiano annuì e così, il biondo, si sedette al suo fianco, senza scostare gli occhi dal pavimento.
«Non ha perso nessuno di caro.
Forse Francis aveva ragione a sospettare di lui …
Era già qui quando siamo arrivati, per ciò che riguarda questa casa sa sempre molte più cose di tutti noi altri messi insieme-»
«Un momento. Francis è caro ad Arthur, ne sono sicuro.»
«Lo detesta.» Alfred tagliò corto, tornando in piedi e rivolgendo poi un’occhiata asettica al prussiano «senti Gilbert …»
«Was-?» Francia era suo amico. Per Dio, quante cose aveva sentito dire sul conto di Inghilterra e su scappatelle e cose varie: come poteva, l’inglese, non tenere a Francis? Sotto sotto, grattando via quella solida maschera d’acciaio, Arthur considerava Francia più che un amico e questo non era neppure da mettere in dubbio.
Decise solo di far capire ad Alfred di muoversi con le proprie tesi e le proprie ipotesi; neppure riusciva a spiegarsi il motivo per il quale le stesse confidando proprio a lui.
«Cosa peggiore è che ieri notte ha voluto a tutti i costi andare a dormire da solo.»
«America, sputa il rospo.»
«Ho provato a difenderlo. Ho provato a lasciar perdere per un po’ le tesi di Francia e a cercare di seppellire la faccenda di mio fratello fingendo di stare bene, ma più i giorni passano, più credo che Arthur mi stia mentendo, che stia nascondendo qualcosa.
Gilbert, so per certo che non puoi aver ucciso tuo fratello, né tanto meno Ivan.»
«Cosa? Guarda che io quello lo od-»
La mano dell’americano si tese velocemente verso il prussiano, fendendo l’aria e falciandola in un gesto inaspettato.
«Non possiamo rimanere divisi.»
«Cos’è? Una proposta di matrimonio, America?»
«Ahahah! L’eroe sposa solo belle fanciulle~☆!» Gilbert dovette socchiudere gli occhi ed aggrottare la fronte, per quanto risuonò brusca e squillante quella risata, ma per sua fortuna, l’americano, tornò subito serio, e anche lui decise di abbandonare la sua aria spavalda ed arrogante.
«Prussia, la questione è delicata.»
«Lo so.» gli occhi infuocati del prussiano si soffermarono su quelli dell’americano, di un azzurro come quello del mare che, verso l’orizzonte, si dipinge di un blu acceso e profondo.
«Tu non vivi con tuo fratello come io faccio con West, ma so che vi vedete spesso. Canada non è mai troppo contento del tempo che passate insieme, dice che sei un po’ troppo materiale per i suoi gusti, ma … ma ti vuole anche molto bene, come io lo voglio a West.
Io mi fido di mio fratello, e Canada si fidava di te, quindi …»
«Quindi?»
«Mhpf-» il prussiano sbuffò appena, ancora indeciso sul da farsi, ma comunque fiducioso dei rapporti tra fratelli e della fiducia che può crearsi fra due persone dello stesso sangue che sono cresciuti l’uno contando sulle forze dell’altro.

«Affare fatto.» con una rapida stretta di mano, Gilbert ed Alfred, segnarono la loro alleanza al cospetto degli spiriti.

«Arthur! Come stai?»
La voce di Antonio lo scosse, e subito, l’inglese, buttò un colpo d’occhio oltre le proprie spalle, scorgendolo in compagnia di Feliciano: ieri sera non era in camera sua, ed ora spuntava quasi a braccetto dell’italiano.
Che cosa stavano combinando?
Si allontanava un secondo da ogni cosa, ed ecco che iniziavano a formarsi bizzarre alleanze alle sue spalle.
Oh, ma dopotutto, la sua decisione, era stata quella di rimanere solo.
«Mhpf-» sbuffò appena, scostando il proprio sguardo dai due e tornare a fissare la superficie vuota del tavolo, senza rispondere.
«Antonio, stanotte ho dormito in camera tua. Spero non ti dispiaccia.»
«Umh? No, no! Figurati!» lo spagnolo sorrise sereno, per poi tornare improvvisamente serio, assottigliando il proprio sguardo e lasciando che le labbra si incrinassero in una smorfia nervosa.
Feliciano gli rivolse un’occhiata confusa, portandogli subito una mano al braccio: per qualche strana ragione, aveva la sensazione che Antonio fosse … arrabbiato.
«Dove hai dormito?»
«In camera tua. Sei sordo, forse?»
«Arthur.»
«What-?!»
Che problema c’era, adesso?
L’inglese si alzò stancamente dalla sedia, voltandosi verso di due.
«Dove-hai-dormito?»
Per qualche strano motivo, quella frase scandita e quegli occhi di smeraldo puntati rabbiosamente su di lui gli stavano suonando come una minaccia perfino temibile.
«Nel letto di Romano.»
Antonio rimase in silenzio, per poi assottigliare maggiormente il proprio sguardo, sibilando rabbioso alla fine «credo proprio che ti ucciderò.»
In un attimo, lo spagnolo, si avventò all’inglese, piegandogli un braccio all’indietro.
«Ahn-!»
«Antonio!» per quanto debole fosse, Feliciano, cercò subito di scostare lo spagnolo dal corpo dell’inglese, ma non dovette sforzarsi troppo.
«Antonio! Arthur!»
Quando la voce dell’americano risuonò alle sue spalle, lo spagnolo, lasciò velocemente il braccio dell’inglese che, sentendolo seriamente dolorante ed intorpidito, si preoccupò di muoverlo con lenta cautela per qualche attimo.
«Ha dormito nel letto di Lovino!»
Gilbert rimase in silenzio ed afferrò l’amico per un braccio, conducendolo lentamente all’uscita della cucina e, di conseguenza, all’entrata della sala.
Arthur rivolse un’occhiata ad Alfred, massaggiandosi ancora il braccio: evidentemente, non avendo altra scelta, aveva scelto come proprio alleato Gilbert.
Pensare che il giorno prima erano stati proprio lui ed Antonio a togliergli di dosso il prussiano rabbioso.
«C’è dell’altro ghiaccio in frigo …» Alfred sapeva benissimo che Arthur, ormai, aveva deciso di ritirarsi nel suo silenzio e nella sua solitudine, aveva chiuso tutti i ponti, ma quel braccio, ora, poteva anche essere lussato e sul suo viso c’erano ancora i segni lasciatigli dal pugno di Gilbert: doveva mettersi subito dell’altro ghiaccio in quei punti, se non voleva stare davvero male.
«Grazie.»
Nemmeno quando lui si era preso la sua indipendenza avevano instaurato una conversazione così fredda fra loro: Alfred non poté che sospirare flebilmente, voltandosi lentamente e dirigendosi in silenzio verso la sala dove Gilbert ed Antonio si erano già accomodati.
«Scusami Inghilterra, non sono riuscito a bloccarlo …»
Arthur guardò in cagnesco l’italiano rimasto solo con lui in cucina, per poi sibilare appena.
«Non sai quanto ti invidio, Italia.»
«Eh? Perché?»
«Perché nessuno sospetta di te, nessuno ti malmena, nessuno progetta alleanze alle tue spalle, nessuno ti costringe ad allontanarti dai tuoi amici e, soprattutto … tutti ti vogliono bene.» Feliciano si sorprese delle parole dell’inglese, e rimase ad osservarlo per qualche attimo, incapace di continuare quella conversazione.
«Mi dispiace …» si limitò a dire, per poi arretrare lentamente.
Arthur non gli prestò più attenzione: aveva già detto abbastanza.
Si sedette sospirando, e tornò a chiudersi nel suo silenzio.
Feliciano uscì dalla cucina, congedandosi con un lieve cenno della testa, e si diresse verso le scale, ignorando il vocio proveniente dalla sala dove Gilbert ed Alfred stavano evidentemente ancora cercando di calmare lo spagnolo.

Ora, Feliciano, percepiva chiaramente le vecchie scale di legno cigolare sotto i propri piedi, quel suono sinistro vibrare nel silenzio. Gli parve perfino di sentire i vetri delle finestre tremare, quando si ritrovò al secondo piano davanti alla porta spalancata di Gilbert.
Domani, un altro di loro, sarebbe morto, e dunque era quello il momento migliore per stare un po’ solo con se stesso, per quanto potesse suonare agghiacciante.
Sì, il momento migliore. Forse.
Non c’era problema né per il pranzo, né per la cena, perché ormai lì dentro nessuno vi dava più importanza. Nessuno aveva più fame.
Solo paura, odio, tristezza e risentimento.
Curioso del fatto che quella notte Arthur avesse deciso di dormire nella ormai abbandonata camera di Antonio e Lovino, decise di avvicinarsi a quella che doveva essere stata la sua stanza fino alla sera prima, per capire se anche l’americano non si fosse spostato altrove, ma i suoi passi dovettero arrestarsi molto prima, e la sua attenzione venne catturata da qualcosa di apparentemente estraneo alla casa, al centro della stanza dove, come ricordava ora, con un brivido profondo lungo la schiena, era morta la bielorussa.
«Cos’è …?» si soffermò sulla soglia della stanza, osservando quell’oggetto troppo bello, pulito e candido per essere parte di una casa fatta di legno marcio, dove i suoi fratelli stavano morendo tutti uno ad uno, come un effetto domino che si abbatte inesorabile sul mondo.
Compì solo un passo: con quella casetta di legno alta più o meno cinquanta centimetri, pitturata di un bianco luminoso, e con rifiniture, finestre e porticine di legno, ci avrebbe potuto giocare una bambina. Magari una bambina ricca e le sue bambole dai boccoli biondi e dalle vesti in pizzo.
Si schiarì appena la voce, avvicinandosi ancora un poco.
«C’è qualcuno?»
Che domanda idiota, Feliciano. In una casa pullulante di fantasmi e spiriti, poi.
Voltò la testa a destra, poi a sinistra, trovando i due estremi della casa vuoti e bui, polverosi e sinistri. Solo quella luce al centro, quella luce che inspiegabilmente lo stava attirando a sé, passo dopo passo.
Sembrava emanare perfino tepore, quella casetta di legno.
Quando vi fu davanti, l’italiano, sentì il bisogno di chinarsi appena per spiare le stanze all’interno di quella piccola casa.
Provò ad aprire la porta con un dito, ma la trovò chiusa. Così come le finestre, al suo secondo tentativo.
Poteva vedere solo attraverso i sottilissimi vetri di queste ultime.
Era così bella all’esterno, ma all’interno c’erano vecchie scale di legno molto probabilmente cigolanti, stanze piene di scatoloni impolverati, letti dalle coperte ingiallite e mobili che a fatica riuscivano ancora a reggersi in piedi, senza che le ante delle mensole si staccassero e si riversassero sul pavimento cupo.
Feliciano deglutì appena, pensando sembrasse davvero l’interno di Berkeley Square.
Quando poi si soffermò sulla cucina, ne ebbe la conferma.
Sentì il cuore scoppiare nel petto, e ora la gola pulsare: al vecchio tavolo della cucina era seduto un piccolo fantoccio triste. Aveva i capelli biondi ed indossava una semplice divisa verde torbido.
Velocemente, scostò il viso dalle finestre della cucina e lo portò a quelle alla sua sinistra: nella sala, dodici candele, di cui solo cinque avevano ancora colore il colore del sangue in dosso, erano sistemate su una lunga tavolata sormontata da un sottile strato di vetro.
Lì a capotavola, dove stava la sua sedia, c’era un fantoccio in piedi: anche lui era biondo, ma indossava una giacca di un marrone piuttosto scuro. Sulla sedia vicino a lui era seduto un fantoccio dalla divisa beige ed i capelli castani scuro, poi un altro in piedi, con la mano sulla spalla dell’altro, i capelli come neve ed in dosso una divisa blu scuro.
Feliciano deglutì ancora, ma la saliva fece fatica a scivolare via, bloccandosi nella gola secca e dolorante.
Gli occhi dell’italiano seguirono le scale, arrivando al piano di sopra: c’erano delle stanze ed una in particolare aveva appena attirato l’attenzione.
Assottigliò appena il proprio sguardo, osservando attentamente il fantoccio dai capelli castani, vestito di blu chiaro, intento ad osservare una piccola casetta bianca al centro della stanza, illuminata dalla luce proveniente dalla finestra.

C’era qualcuno, alle spalle dell’ignaro fantoccio, e si stava muovendo verso di lui.

Quando Feliciano capì che quella dentro la piccola casa era semplicemente l’attuale situazione all’interno delle mura della vera Berkeley Square, sussultò e si voltò di scatto, riuscendo finalmente a distogliere la sua attenzione da quelle false miniature.
Non appena si voltò, qualcosa, si dissolve rapidamente nell’aria, in un sospiro profondo ed agghiacciante.
Spaventato, arretrò velocemente, e solo dopo qualche passò realizzò che sarebbe finito contro la miniatura della casa e l’avrebbe ribaltata, scontrandola.
Mugugnò appena, quando, voltatosi, non vide più ciò che c’era poco prima.
Nessuna bella casetta bianca con rifiniture in legno. Solo il buio, che ora era tornato a riempire l’intersa stanza, gettando in ombra la sua stessa persona.
Arretrò rapidamente, e non appena ritrovò la luce, all’uscita della stanza, corse al piano di sotto con il fiato sospeso: non avrebbe più esaminato da solo le marce fondamenta di quell’antica casa abbandonata.

«Feliciano, tutto bene? Se è per oggi mi scuso, è stato più forte di me …» ormai era calata la sera, ed Antonio si era di nuovo sistemato lì con lui, ma Feliciano, adesso, non lo stava ascoltando.
Stava piuttosto ascoltando il rumore della pioggia oltre la finestra, immaginando come potesse essere piacevolmente fredda e dissetante quell’acqua.
Chissà se l’avrebbe sentita ancora una volta sulla pelle, la pioggia.

«Hai solo quello?» Alfred fu sorpreso che il trasferimento del prussiano da una camera all’altra fosse durato il tempo di trasportare un unico, sottile diario giusto di qualche metro.
«Veramente a casa ne ho tantissimi, kesese! Insomma, qui dentro sono scritte le gesta della Magnifica Prussia-!» Gilbert scosse appena il diario dalla copertina nera, ghignando soddisfatto, anche se era cosciente del fatto che su quelle pagine, più che esserci le gesta della Prussia, erano scritti soltanto depressioni e sciocchi tormenti d’amore.
«Ok! Se ti serve qualcosa chiedimi pure, ahah!»
«Ja, danke.
Gute Nacht, Amerika.»
«Good Night!»

Non avrebbe dormito dove aveva osato farlo la notte prima.
Ormai si era arreso, come la sua voglia di litigare, indagare, o combattere.
Antonio voleva essere rispettato? Voleva che la persona di Lovino fosse rispettata? D’accordo. Tanto ormai non aveva più nulla da perdere, e mettere l’orgoglio davanti a tutto il resto sarebbe stata solo un’imperdonabile sciocchezza.
Se gli fosse venuto sonno, avrebbe dormito lì in salotto. In qualche modo si sarebbe sistemato.
«Spero solo che qualcuno interrompa il tuo gioco e ti metta in castigo.»
Arthur schiuse le labbra, lasciando scivolare nel buio il fumo argenteo e tiepido della sigaretta, contemplando la notte illuminata dai fulmini oltre le fredde finestre.
   
 
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