Serie TV > Criminal Minds
Segui la storia  |       
Autore: Lady Snape    24/05/2012    1 recensioni
Un amico immaginario è spesso l'unica "persona" con la quale riusciamo a rapportarci davvero. E' il prodotto della nostra mente e lo immaginiamo come più ci piacerebbe fosse un nostro amico o magari come vorremmo essere noi stessi. E' una parte di noi, è intimamente legato a noi, vive dentro di noi e Riley vive dentro Spencer.
Nei meandri della sua mente sta scrivendo un diario.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Spencer Reid
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Senso di colpa

           

            Non voglio parlare delle difficoltà di Spencer all’università. Questo diario finirebbe per essere troppo triste. Non voglio che, quando e se Spencer dovesse trovare nella sua mente questi ricordi raggruppati nel mio filo logico, debba pensare che la sua vita sia stata un totale fallimento nelle relazioni.

            Le difficoltà che ha incontrato sulla sua strada sono state molte. La sofferenza nel sapere che suo padre era andato via, di capire che la colpa probabilmente era di sua madre, anzi, della malattia che l’affliggeva, lo faceva star male. A volte un pensiero lo sfiorava, si insinuava strisciante di notte sotto le coperte, quando fissava il soffitto prima di addormentarsi. La colpa, se lui soffriva, era di sua madre. Si vergognava subito dopo di questa amara conclusione, ma se lei fosse stata bene, suo padre non sarebbe mai andato via e lui avrebbe potuto godere del calore di una famiglia normale, come quelle degli altri. Era già abbastanza strambo e quel dettaglio gli creava ulteriori problemi. La colpa di sua madre e il suo senso di colpa per quei pensieri lo buttavano giù e non era raro per lui bagnare il cuscino di lacrime. Piangeva silenziosamente, non voleva che qualcuno lo sentisse. Faceva il possibile per evitarlo quando era a casa, ma anche quando era al college.

            A dodici anni era partito per Boston per frequentare il MIT. Non era stato facile. Sua madre lo aveva accompagnato in treno, vista la sua paura degli aerei, e non voleva lasciarlo lì, ma era fiera di lui, lo considerava perfetto, lui era la perfezione, per cui, dopo qualche momento imbarazzante fatto di abbracci e raccomandazioni, lo aveva lasciato nella sua nuova casa, che lo avrebbe ospitato il tempo necessario per laurearsi.

Iniziarono i primi problemi, per la prima volta lontani da casa, da un luogo che reputava sicuro. Non c’era nemmeno Ethan con cui confidarsi o casa Cooper nella quale rifugiarsi per dimenticare, anche solo per un attimo, qualcosa che non gli piaceva. Gli era stata assegnata una doppia e ciò che ne era derivato era stato spiacevole.

Il suo compagno di stanza non ne voleva sapere di fare da balia a un ragazzino, perché questo gli era sembrato, e lo aveva fatto presente a chi di dovere. Ogni volta che entrava in camera, lo fissava dall’altezza del suo metro e novanta e bisbigliava sottovoce qualcosa, probabilmente si chiedeva cosa avesse fatto per meritarsi un compagno di stanza con cui non poteva sbronzarsi o che, probabilmente, non aveva ancora avuto la prima erezione. Ciò che lo disturbava era anche che Spencer lo battesse accademicamente praticamente in qualunque disciplina e non erano mancate occasioni, nelle prime sei settimane, nelle quali il ragazzino non avesse messo bocca nei suoi studi. Un giorno era stato così irritato dalle statistiche di Spencer riguardo il probabile fallimento della sua ricerca per il Prof. Milton, che aveva deciso di chiudere il bagno e portare via la chiave.

Non fu bello ciò che successe quel giorno, in cui tutti si rifiutarono di farlo entrare nelle loro stanze per fargli usare il bagno e nemmeno la palestra fu di facile accesso. Fu umiliato pesantemente, ma quello non fu l’evento peggiore della sua esistenza. Gli era già successo un po’ di tutto alle superiori, quello era solo un sequel di un film già visto.

            Riuscì a farsi assegnare una singola, il suo quoziente intellettivo glielo permise, dato che il rettore aveva tutto l’interesse a coltivare un’intelligenza straordinaria come la sua e, in questo Spencer fu furbo, non sospettava minimamente che non era la carriera accademica a fare gola al piccolo genio, ma meditava già di entrare nell’FBI.

            Se dovessimo parlare di colpa, in questo caso, per questi eventi dolorosi che costellavano le sue giornate e che scandirono gli anni universitari (non poteva saltare le classi, come aveva fatto fino alle superiori, ma doveva svolgere il normale iter di studio di cinque anni), inutile dire che Spencer si chiedeva perché non aveva avuto la possibilità di essere un ragazzo come gli altri, perché non aveva avuto la possibilità di vivere un’infanzia normale, un’adolescenza normale. Era tutta colpa del suo cervello.

La sua adolescenza si stava presentando come qualcosa di incontrollabile e non esattamente gradita. I cambiamenti nel suo corpo, il fatto che stesse crescendo, gli ormoni impazziti, la voglia di contatto con altri esseri umani che lo apprezzassero, anche se era troppo intelligente, lo stavano piegando. Si sentiva troppo fuori dalla norma e aveva bisogno di trovare un briciolo di normalità. Per questo chiamava Ethan quando ne aveva la possibilità e a volte mentiva su quello che gli accadeva. Diceva che stava andando tutto bene, che i problemi avuti al liceo non si erano ripresentanti, che episodi come quello di essere legato alla porta del campo da football nudo, dopo essere stato adescato da Alexa Lisbon, la più carina del liceo, non erano più all’ordine del giorno. Non era così, ma non se la sentiva di farsi rovesciare addosso la compassione delle poche persone che lo rispettavano.  Anche mentire lo faceva sentire in colpa.

            La colpa lo accompagnò per lungo tempo.

A diciassette anni si laureò. Non furono cinque anni facili, dato che spesso era costretto a tornare a Las Vegas per prendersi cura di sua madre, ma, se all’università questo era comunque concesso, se poteva permettersi di perdere qualche lezione, presto non avrebbe potuto continuare così. Per entrare all’FBI doveva essere più tranquillo, non rischiare di dover partire da un momento all’altro per risolvere i problemi di sua madre, controllare periodicamente se mangiasse o dormisse.

            Aveva diciotto anni quando decise di chiedere un colloquio al Bennington Sanatorium, una casa di cura di Las Vegas, una tra le più appropriate per prendersi cura di lei. I medici erano stato molto gentili con lui. Erano in contatto con lo psicanalista che aveva seguito Diana per lungo tempo, ma ormai la donna era ripiombata in uno stato di abbandono. Spencer non poteva restare con lei, doveva terminare gli studi, doveva fare domanda all’FBI, doveva iniziare a vivere una vita sua per davvero. Sua madre non poteva più vivere da sola, immersa tra cataste di libri posati praticamente dappertutto, senza avere un ciclo sonno-veglia decente, mangiando quello che capitava, tra piatti sporchi e abiti da lavare.

            Uno dei medici dell’ospedale aveva notato quanto fosse indeciso sul da farsi e capì anche perché era giunto alla maggiore età per pensare seriamente ad una soluzione così drastica. Non avrebbe rischiato di finire in un orfanotrofio, in affidamento o da suo padre, un uomo che non si era mai fatto vivo per anni e anni. Il dottore in realtà non conosceva tutti questi dettagli, ma capiva perché fosse giunto solo ora a considerare la possibilità di internare sua madre. Lo aiutò a prendere una decisione, illustrando le condizioni di Diana Reid nel modo più chiaro possibile: aveva bisogno di aiuto costante, lui, suo figlio, poteva darglielo?

            Con due infermieri Spencer si presentò in quella che era stata casa sua, assistette a una delle crisi di sua madre, incapace di capire che quello che stava facendo suo figlio era la soluzione migliore per entrambi, lui ne era sicuro.

Purtroppo quelle lacrime, quelle invocazioni della donna, che più lo aveva amato al mondo, lo portarono ad una crisi profonda. Era davvero la soluzione migliore per sua madre oppure stava agendo in maniera egoistica? Era davvero per il suo bene o per il proprio?

Spencer era confuso, spaventato e la colpa lo divorò senza nessuna pietà. La sua coscienza era indifferente ai suoi desideri in quel momento, era indifferente alla sua sofferenza. Pianse a lungo seduto sul pavimento della sala da pranzo di quella casa, una casa che avrebbe dovuto chiudere per il momento, se non vendere … no, vendere no, non poteva, non ancora, non ne aveva la forza. Il sole stava tramontando, quando con lentezza si sollevò da terra, cercò di asciugare le lacrime che imperterrite gli scivolavano dagli occhi e volle cercare un oasi di pace da qualche parte. Vagò a capo chino per il suo vecchio quartiere e i piedi, guidati dal suo inconscio, lo portarono dove spesso si recava per alleviare le sue sofferenze. Finì davanti a casa Cooper. Sapeva che Ethan non era lì: aveva deciso di cambiare strada, non era più interessato all’FBI, ma non era tornato a Las Vegas. Non sapeva esattamente dove fosse, ma poco importava in quel momento. Guardò la casa con un sentimento di nostalgia nel cuore, che andò ad aggiungersi al grumo di sensazioni negative che gli stavano togliendo il respiro. Fece il giro della costruzione e arrivò alla porta sul retro. Ecco, lì nessuno lo avrebbe visto, non c’era nemmeno nessuno in casa, il garage era vuoto e chiuso. Si sedette sui gradini della porta e si lasciò andare un’altra volta, disperato.

            Io lo so che può sembrare patetico il suo comportamento, ma penso che non potesse fare altro, dopo tutto quello che gli era accaduto negli anni. Non era solo un momento difficile da superare, ma un cumulo terribile di ricordi e sensazioni da ingoiare. Era stanco e il suo animo mostrava più anni di quelli che realmente aveva.

«Spencer ..?» una voce dolce e delicata lo raggiunse nel suo mondo colpevole, nella sua testa ormai dolorante per il troppo pensare. Si votò lentamente e il membro più piccolo di quella famiglia, la famiglia che lo aveva accolto anni prima senza fare troppe domande, lo stava fissando preoccupata.

«Cecily … scusa, vado via.» si affrettò a dire, alzandosi da terra. Una mano della ragazzina lo fermò e lo invitò ad entrare, senza dire una parola. Erano i suoi occhi a parlare per lei.

            Davanti a un succo di frutta entrambi stettero in silenzio per molto tempo, in cui Spencer continuò a lasciare che il pianto fuggisse via, lavando la sua sofferenza, lasciando evaporare ogni bruttura dalla sua vita, e il solo sguardo di quella ragazza fu sufficiente a permettergli di dare sfogo al suo dolore acuto e potente. Raccontò lentamente quello che aveva fatto, pieno di rimorso per quel minuscolo sentimento di sollievo che provava. Spiegò le sue ragioni e anche ora non saprebbe dire se le aveva spiegate a sé stesso o al suo interlocutore.

Cecily non disse niente. Cosa mai poteva dire una ragazzina di quattordici anni su argomenti più grandi di lei? Continuò con il suo silenzio, ma lasciò che le mani stringessero quelle di Spencer, che si aggrappava ad esse come per restare inchiodato alla realtà, per non pensare che magari era tutto frutto dell’immaginazione, che alla casa di cura non era mai stato e che non avesse firmato nessun modulo di ricovero. In un’ultima esplosione di rammarico lasciò che quella bambina lo abbracciasse, gli carezzasse i capelli con delicatezza e gli chiedesse, con voce dolce e triste, di smettere di piangere. C’era qualcosa di materno in lei, ma, soprattutto, era la prima volta, dopo tanto, forse troppo tempo, che Spencer ricevesse quel calore umano che tanto gli mancava. Lasciò che il suo volto si poggiasse sulla spalla di lei e si abbandonò per qualche minuto al suo tocco leggero.

E’ difficile calcolare quanto tempo avevano passato in quella assurda situazione, di certo molto più di un minuto. Spencer si rese conto che era tardi, perché nella stanza ormai non filtrava più alcuna luce dall’esterno. Aveva rubato fin troppo tempo della giornata di Cecily che, era sicuro, non lo aveva mandato via per una compassione che odiava aver suscitato, ma a cui era grato allo stesso tempo. Si sollevò lentamente e la guardò negli occhi, certo di scorgere un luccichio molto simile al suo. Fu un’altra colpa che si aggiunse a quelle accumulate negli ultimi tempi. Sospirò, ma Cecily gli sorrise, scostandogli i capelli dal volto. Era uno sguardo di comprensione il suo, addolcito da quella ingenuità che le apparteneva e che sperava non perdesse mai. Era stato dissetato dai suoi gesti.

            Tornando verso casa, Spencer sfiorò la sua guancia, dove Cecily aveva posato un bacio leggero, diverso da quelli che dieci anni prima gli stampava regolarmente. Sentì che qualcuno gli voleva bene, nonostante i suoi errori, nonostante non si sentisse in regola con la sua coscienza, nonostante non fosse come gli altri. Portò con sé il calore che quella ragazzina gli aveva regalato, lo relegò in un ricordo del quale un po’ si vergognava, ecco perché è giusto che almeno io ne porti memoria.

 

 

Nota dell’Autrice:

Mi rendo conto che sono fin troppo malinconica tra queste righe.

Purtroppo è il personaggio di Spencer Reid a ispirarmi in questa maniera. Più guardo il telefilm e più penso che sia totalmente slegato dal mondo in cui vive. Non ha altro che il suo lavoro a fargli compagnia. Ho appena visto una puntata della quinta serie e, mentre tutti gli altri avevano un programma per il fine settimana, lui era libero. Sinceramente mi fa pena.

Dopo questo momento triste (anche nel commento del capitolo, uff…) ringrazio le persone che hanno letto la prima parte di questa piccola storia.

Spero di avere vostre notizie!

 

Lady Snape

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Criminal Minds / Vai alla pagina dell'autore: Lady Snape