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Autore: Agapanto Blu    25/05/2012    2 recensioni
Una tempesta di neve.
Una città bloccata.
Qualcuno che aspetta il suo volo in aeroporto.
Qualcuno che corre per fermarlo.
Un piccolo viaggio nella mente di una persona che corre nel bianco, nel disperato tentativo di fermare il suo amore prima di perderlo uno seconda volta...
Un corsa verso qualcuno che se ne sta andando e una fuga da qualcosa che ormai è inesorabile...
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Storia che nasce e si scrive da sé, nella quale io ho avuto ben poca parte...
Non so esattamente cosa dire: i personaggi mi si sono ammutinati e hanno finito per stravolgere ciò che avevo in mente...
In bene, spero...
Mi è venuta un po' complessa, quantomeno da spiegare, perciò vi lascio alla lettura...
Magari fatemi sapere cosa ne pensate...
Grazie mille!
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Trovami

 

“Trovami. Trovami per favore.”
 
Mi rimbalza nella testa mentre corro per la strada, mentre attraverso le nuvole di condensa del mio respiro, mentre i miei piedi affondano nella neve fresca che è caduta questa notte.
Ho sbagliato.
Ho sbagliato dieci, cento, mille volte a lasciarti andare ma non commetterò lo stesso errore due volte.
Una lastra di giaccio mi fa scivolare ma riesco a mantenermi in piedi e a continuare a correre perdendo nulla di più di un secondo.
Ma io lo so quanto i secondi siano importanti.
Negli occhi ho ancora l’immagine di te.
 
Tu, bella come un angelo, vestita di bianco, mi davi le spalle e guardavi al tuo futuro, splendente e radiosa ma ingiustamente ferita.
Io lo sapevo che era sbagliato.
Lui, e non tu, era sbagliato, mentre camminavi con il bouquet tra le mani e le lacrime agli occhi.
Piangevi, lo sapevo, ma ti ho guardata lo stesso andare all’altare.
Non ho reagito perché piangevo anch’io.
 
La strada davanti a me è vuota, non ci sono auto mentre la tempesta di neve ferma gli aerei e costringe a terra anche chi, in lacrime, scappa da ricordi troppo dolorosi.
 
Austera, bella e sicura, sul palco, a testa alta, eri Miranda.
Non eri te stessa, eri Miranda.
Sfolgorante, fiero e innamorato, sul palco, lui era Ferdinando.
Ma lui non è un Ferdinando.
E tu non sei Miranda.
Lo amasti per ciò che rappresentava, non per ciò che era.
E io, in platea, ti guardavo smettere di amar me per scegliere lui, e piangevo.
 
So che Cole, in macchina, mi segue per fermarmi e impedirmi una sciocchezza che mi farà soffrire, ma non posso permettergli di fermarmi.
Non ora che posso trovarti.
 
“Non è colpa di nessuno…”
E invece sì.
Colpa sua, che ti ha portata via, e colpa mia, che non ho avuto il coraggio necessario per inseguirti.
“Che senso ha? Amarci in segreto e poi, davanti a tutti, fingere di farci ribrezzo? Non ce la faccio…”
Avevi ragione a scuotere la testa e lo sapevo.
Ma ti ho lasciata andare lo stesso.
La mia Miranda ha scelto un Calibano travestito da Ferdinando.
 
Mentre corro, sento il biglietto di carta pesarmi in tasca come se fosse di piombo.
La vista è offuscata ma non dall’aria gelida.
Dalle lacrime.
Scivolo e non riesco a reggermi.
Cado in avanti, il viso nella neve gelida e le lacrime calde che la sciolgono.
Piango, singhiozzo.
Dove sei?
Non ha più senso…
A tentoni, infilo la mano in tasca e tiro fuori il pezzo di carta che, quel giorno, mi aveva dimostrato che ti avevo persa.
 
Clotilde e Giulio
Sono felici di annunciare
Il loro Matrimonio
 
“NO!”
Mi tiro su a fatica e riprendo la mia corsa disperata.
Verso te, verso un noi che ho assaporato e perso e rimpianto per anni.
Non farò lo stesso errore, perché non posso farlo.
Perché allora tanto vale annullarmi.
Non posso lasciarti.
Ti ho persa quando mi hai chiesto di restarti accanto ma ora, che non mi hai detto nulla, ti cerco per trovarti.
Mia.
 
“Trovami!
Avanti, dannazione! Trovami!
Trovami dentro di te!
Dimmi cosa sono, quanto valgo per te!
Allora?!

Lo sapevo…
Lo vedi? Hai già scelto…”
Non avevo scelto, avevi scelto tu quando, abbagliante nell’abito di Lady Macbeth, come il tuo personaggio mi pugnalavi al cuore dietro le quinte di un teatro che si svuotava, soddisfatto per lo spettacolo appena visto.
Ma Lord Macbeth, con tutte le sue colpe, il cuore di sua moglie lo possedeva.
Io, di te, ho solo più i tuoi insulti.
 
Non riesco nemmeno a credere ai miei occhi quando l’aeroporto mi compare davanti agli occhi.
Un ultimo sforzo, mi dico, un ultimo slancio verso quello che potrebbe essere un futuro totalmente diverso.
E, a un passo dalla meta, l’ennesimo schiaffo del Destino.
Un sasso, del ghiaccio, chissà cosa, e io cado a terra, il viso nella neve per l’ultima volta.
Fa freddo ma la mia pelle, arroventata dalla febbre, fa sciogliere i fiocchi sotto la mia guancia.
Mi gira la testa.
Non raggiungerò quella porta a dieci metri da me, nessuno mi vedrà in quest’inferno di ghiaccio.
Tremo.
In modo così convulso da sbattere la testa contro il selciato più e più volte fino a sporcare il manto candido di rosso.
Tossisco, e sputo catarro scuro.
È la febbre, è la malattia, è quello che è e che i medici non mi hanno detto, ma soprattutto sei tu.
Bella, eterea fanciulla dei miei ricordi.
Tu che sei scappata da me scolpendo la tua effige nel mio petto sbagliato.
 
“C’è speranza?”
“Deve stare al caldo, coperto, e continuare a prendere tutte le medicine… Se gli evitate sforzi eccessivi, forse la malattia non andrà a infierire ancora di più sulla malformazione e allora, sì, potremo sperare che si riprenda…”
Parlavano di me come se non fossi nella stanza, ieri, fingevano con loro stessi che non potessi capire che parlavano della mia morte imminente.
Fingevano di credere ad una speranza vana cui nemmeno io ero tanto stupido da aggrapparmi.
 
La neve mi copre e mi nasconde ai tuoi occhi, come le luci spente facevano anni fa mentre mi nascondevo tra la folla che veniva a guardarti.
Non ci vorrà molto perché il freddo faccia ciò che la malattia e la malformazione cardiaca non sono riuscite a compiere in ventisei anni di vita.
Ma tu non lo saprai e, forse, penserai di avere le colpe.
Morirei altre mille volte se questo potesse portare una tua sola lacrima sulla pietra della mia tomba.
Mi manchi.
 
E quando le orecchie dolgono per un fischio forte o un grido allucinante, e quando il mondo trema e ondeggia ancor più di prima, e quando nel chiudere gli occhi riesco a vedere il tuo viso, posso morire sereno perché so che piangerai per me.
 
…~~~|0|~~~…
 
“Ehi, Soumis! Alla fine sei venuto a vedere lo spettacolo…”
Sì, perché non avrei potuto fare altro ma mi chiami con il cognome inventato che mi ha dato tuo nonno perché io non ho cognome.
“Cosa ne pensi? Ti è piaciuto?”
Sì, perché sarei voluto essere il pugnale che aveva trovato il suo fodero eterno in una te Giulietta.
“Chissà, magari potresti venire anche al prossimo spettacolo…”
 
Labbra contro labbra.
Mani tra i capelli.
Poltrone vuote.
Un palco silenzioso calpestato da due amanti.
Luci spente in un teatro vuoto.
Occhi chiusi che vedono comunque.
Gocce di pioggia su due teste vicine.
Un temporale che ulula contro le prede fuggite.
Abiti bagnati su due corpi premuti assieme.
Dolori atroci per fare a pezzi i nostri sogni e un primo bacio dolce e perfetto per ricostruirli più belli di prima.
 
“Davvero, sono una stupida! Dovrei essere io quella che ti fa la ramanzina perché dimentichi un anniversario, non io che me lo dimentico e tu che mi fai una sorpresa!”
Una rosa bianca, il massimo che posso permettermi, e un biglietto con l’unica frase che davvero conterà in eterno: L’amore non propone enigmi, l’amore è un enigma insolubile.
 
“Tu non sarai mai alla sua altezza e io non permetterò a mia nipote di sprecare la vita accanto ad uno stupido che vale quanto uno schiavo!”
Sei così vigliacco da non osare ammetterlo nemmeno con te stesso, da non riuscire a dirlo.
Ma, comunque, se compri una persona, allora tu sei lo schiavista che si aggiudica un altro essere vivente.
E tu mi hai comprato, da mia madre che non poteva più mantenermi laggiù in Egitto.
 
Un dolore al viso, tanti al petto, tanti alle costole, tanti alla schiena.
Sangue.
Lividi.
Paura.
Calci.
Pugni.
Scelte sbagliate.
Un addio che nessuno voleva.
 
“Non capisco…”
Neanche io, amore.
Non capisco perché gli altri debbano decidere della mia vita.
Non capisco perché gli altri possano decidere della mia vita.
 
“Sono io quella in trappola ora… E non potrò uscirne mai…”
No, piccola mia.
Io ero quello in trappola, io quello che ferivano, io quello su cui si accanivano.
Io e non tu.
Ma, alla fine, non si può ferire una metà dell’intero senza, prima o poi, colpire anche l’altra.
 
Una corsa affannata.
Un cuore malfatto che annaspa nel petto.
Un pulsare doloroso al braccio.
Un paio di gambe che non possono fermarsi.
Due occhi che ti cercano nella calca di persone.
E tu, ignara, sull’aereo che guardo partire da lontano.
Nella tasca, una lettera scritta troppo presto per essere spedita.
In bocca, parole arrivate troppo tardi per essere dette.
 
…~~~|0|~~~…
 
La morte dovrebbe essere comunque una liberazione.
E io ne avrei, di cose da cui liberarmi, ma questa non può essere la morte.
Perché la morte non è la sensazione di qualcosa di fresco e bagnato sulla fronte, né di una voce melodiosa che declama parole provenienti da un altro secolo, da un Sogno Di Mezza Estate.
Non voglio sapere e sprofondo di nuovo nel buio.
 
…~~~|0|~~~…
 
“Cole mi ha detto che stavi male e…”
Sei davvero qui?
“E ti ha chiesto di passare a trovarmi? Così da darmi il contentino prima di morire?”
Perché ti parlo così? Perché ti dico queste cose sapendo che ti farò soffrire?
Perché non ho altra scelta se non tenerti a distanza. Perché così mi è stato ordinato di fare se non volevo vederti soffrire.
“No! No, non è così… Ero preoccupata! Volevo solo vedere se stavi bene…”
Sei piccola e dolce… e fragile, mentre mi dici queste parole.
“Bene, adesso che hai visto che non è così immagino tu sia soddisfatta: non avrai più sensi di colpa!”
Non lo penso davvero, te lo giuro, ma tu non devi saperlo.
Cosa succederà quando tuo nonno saprà che sei stata qui? Cosa farà a entrambi?
Devo provare a proteggerti, fosse anche per l’ultima volta.
“Lo so che mi odi e fai bene! Ti ho fatto soffrire e non volevo ma… lo sai che non potevo fare diversamente! Io non avevo altra scelta!”
“Perché io sì?! Eh?! Io potevo scegliere?! Potevo stare con te, amarti, baciarti e stringerti?! È questo che pensi?! Certo! Tanto, da bravo schiavo, sono abituato a farmi calpestare nella dignità, vero?!”
“Non volevo dire questo!”
“Ma è quello che pensi, no?! Non è esattamente quello che hai pensato mentre andavi all’altare con quel tizio pieno di soldi?!”
“Non ho scelto io di sposare Giulio!”
“No, ma non ti sei certo impegnata per respingerlo, vero?!”
“Perché fai così?! Sei stato tu a lasciarmi! A dirmi che tanto non ne valeva la pena! Che ti eri accorto di non amarmi!”
“E a te non è mai passato per la mente che magari fossi costretto, eh?! Certo! Tuo nonno è troppo buono per fare una cosa simile, vero?! È troppo buono anche per avermi sbattuto fuori di casa sua quando mi sono ammalato, no!? È tuo fratello che ha deciso ‘Ma sì, portiamolo in una soffitta piena di topi dove possiamo curarlo meglio!’”
“Io lo odio, mio nonno, e tu lo sai! Mi ha rovinato la vita come l’ha rovinata a te!”
“Ed è perché la tua vita è rovinata che indossi un abito firmato e cosmetici che valgono quanto un lingotto, vero?!”
“Pensi che non ne farei a meno, se potessi?!”
“Penso che hai scelto di non farne a meno…”
E ti ho guardata, in lacrime, scappare via dopo avermi detto che mi odiavi.
E ho pensato, dentro di me, che ero un idiota ad averti mandata via così ma che, se volevo proteggerti, non avevo altra scelta.
E alla fine, scherzo crudele, tuo fratello è corso da me, chiedendomi perché ti avessi lasciata andare via dicendoti quelle cose ora che potevo dirti davvero quanto ti amavo.
Perché tuo nonno, contro ogni previsione, è morto prima di me.
E il dolore mi ha accecato e trascinato fuori dalle coperte facendomi urlare il tuo nome: Clotilde.
La mia Cloti.
 
…~~~|0|~~~…
 
C’è una sottile eppur essenziale differenza tra il nulla e il buio: nel nulla non vedi né sei niente, nel buio vedi nero e sai che c’è qualcosa che tu ti stai perdendo.
Me ne rendo conto quando mi accorgo che sto guardando le mie palpebre chiuse e che attorno a me ci sono voci che parlano.
I ricordi della follia mi assalgono: tu che vieni a visitarmi perché ti hanno detto che sto molto male, io che ti sputo addosso tutto il dolore degli anni passati senza te, tu che scappi in lacrime e io che, colpevole, mi alzo dal letto anche se Cole, tuo fratello, cerca di impedirmelo.
Ho corso fino all’aeroporto per cercarti, fermarti e chiederti perdono, ma ho perso a due passi dal traguardo.
Ricordo di essere caduto nella neve.
Ma adesso non ho freddo, anzi ho caldo: quel caldo familiare della febbre che mi consuma dentro una stanza, sotto le coperte di un letto.
Ma questo non può essere un letto.
Dove sono?
Ho avuto troppe poche cose nella mia vita per sprecare quelle che ho tenendo gli occhi chiusi solo per paura di sapere cosa sta accadendo attorno a me perciò sollevo le palpebre.
E vedo un soffitto grigio, teste vicine che confabulano senza guardarmi, una luce al neon.
Una cascata di capelli neri sul mio petto.
Sono su una panchina di ferro, ho una giacca non mia sul corpo e una testa piccola sul mio petto con un orecchio premuto sul mio cuore.
Ti guardo.
I tuoi capelli corvini sono slegati e scarmigliati, liberi in modo incoerente attorno all’ovale piccolo del tuo viso, le tue labbra sottili sono rosa chiaro, senza più tracce di quel costoso rossetto rosso che avevi e che io ti avevo criticato.
Hai il viso pallido e occhiaie profonde sotto gli occhi e ci sono tracce dello spesso fondotinta che avevi usato per coprire il tutto sparse per il tuo incarnato.
I segni della morte sulle guance scavate, sulle labbra spaccate in più punti.
Amore, mi lasci? Dopo tanto tempo, lo fai di nuovo?
Fa troppo caldo ma mi costringo ad alzare una mano per posarla sulla tua nuca.
Ti sento fragile sotto le dita e penso che, a confronto, sembri stare peggio di me.
Sotto il mio incarnato, leggermente più scuro del tuo, il pallore si nota meno.
Chi se ne andrà per primo?
Io? Tu?
Chi ha vinto questa guerra?
Io? Tu? Tuo nonno? L’epidemia?
Non lo so.
Nel sentire il mio tocco, oggi come anni fa, apri gli occhi e le tue iridi, benché rispecchianti la febbre che consuma anche te, sono ancora dello stesso verde brillante di quando ci siamo conosciuti.
Avevamo quanto? Diciotto anni, più o meno.
 
Io, servo di tuo nonno, ero nella stanza apparentemente abbandonata della cantina della villa e ansimavo per le botte che mi erano appena state date dagli altri servitori, su ordine del padrone.
Tu, giovane nipote ribelle, scivolasti nella stanza perché volevi un’avventura, perché la credevi abbandonata e perché ti era stato proibito di entrare… e mi trovasti.
 
“Anche tu?” ti chiedo solo accarezzandoti la fronte e scoprendo, con orrore, che non ti sento fredda come sento la pelle degli altri.
Ti sento calda, come me.
Annuisci.
“Potevi farcela, lo sai vero?” mi dici, la voce bassa e arrochita dalla malattia.
Stai tremando, come me.
Annuisco.
Probabilmente sì.
Se non mi fossi gettato nella tormenta, forse sarei guarito.
“Tu?” chiedo.
Scuoti la testa.
“Gli impegni mondani a cui mi trascinavano non mi permettevano di stare a casa e guarire…” spieghi calma intervallando le parole con colpi di tosse, “Me ne sarei andata comunque…”
Incroci il mio sguardo e ci fissiamo, immobili.
“Giulio sentirà la tua mancanza…” scherzo poi tossisco e tu, sul mio petto, ti aggrappi a me con tutta la forza che trovi. Ben poca ormai, a dire il vero.
Probabilmente dovrei preoccuparmi… per me, per te…
Ma non era anche questo che amavi di me? Che scherzavo anche nel momento più difficile?
Scuoti la testa.
“Si è trovato una sostituta già da tempo…” dici, impassibile, “Probabilmente si sentirà sollevato: gli sto evitando lo scandalo del divorzio…”
Annuisco anch’io poi torno a guardarti e solo adesso mi accorgo che sei in ginocchio sul pavimento.
Quante volte i ruoli sono stati invertiti? Quante volte io ho vegliato te da terra?
“Non restare lì…” ti dico pur sapendo che è una premura inutile, “Prenderai freddo…”
Anche tu sai che è inutile ma ti sollevi e ti sdrai sulla panchina, sul mio petto, e resti lì a fissarmi.
Nei tuoi occhi vedo il mio riflesso di ragazzo meticcio, vedo la mia carnagione di color caffelatte e i miei occhi scuri, i miei capelli neri intrecciati.
Vorrei solo una cosa, ora, ma non so se avremo la forza.
Come leggessi nel mio pensiero, cerchi di sollevarti sulle braccia che ti tremano e di venire un po’ più su.
Mi raggiungi.
Viso davanti al viso, ci leggiamo negli occhi tutto ciò che vogliamo sapere.
Labbra su labbra e, in un istante, gli anni di lontananza spariscono, offuscati dallo splendore di un unico bacio insperato.
Ti bacio vorace, con la febbre che mi consuma del tutto.
Rispondi ai miei gesti con disperazione ma anche gioia per le catene che, finalmente, stiamo spezzando.
E mi pare di sentirle andare in mille pezzi mentre ti stacchi da me e ti accasci, esausta, sul mio petto.
Mi stringi, ti stringo.
“Cloti…”
“Anbar…”
Insieme, chiudiamo gli occhi per non riaprirli più.
Insieme, ce ne andiamo.
 
E nella morte trovano conforto le anime perdute, che la vita ha tormentato impedendo loro di unirsi per sempre, in un breve ma sfolgorante attimo di gioia…







Beh, non ho molto da dire...
Come già spiegato, c'è stata una grossa insubordinazione...
Però mi è sembrata carina così ho risparmiato i miei personaggi dalla pena di cancellazione e li ho messi in mostra qui...
Il problema è che non ho la più pallida idea di come sembri, se sia comprensibile o no, etc...
Tanto per toglierci il problema chiarisco subito che le scritte in corsivo all'interno del testo sono i ricordi passati di Anbar e che la frase in grassetto alla fine non è una citazione ma un mio "commento" diciamo... Un modo per chiudere la storia che, però, non è più nella mente del nostro bel tenebroso...
Altre cose: Miranda è il principale personaggio femminile della "Tempesta" di Shackespeare e Ferdinando è il principe di Napoli con cui lei si sposerà, Claibano invece è lo schiavo, figlio di una strega, che tenta di violentarla e poi di "venderla" a un altro uomo; Lady Macbeth e Macbeth sono, ovviamente, personaggi del "Macbeth" sempre di Shackespeare ma le parole scritte prima non sono battute prese dal testo; Soumis significa Sottomesso in inglese, ed è per questo che Clotilde apostrofa Anbar così, è un modo per fargli ricordare che lei sa ma lo ama comunque; c'è un accenno alla scena del "Romeo e Giulietta" in cui la giovane Capuleti si suicida nel trovare il corpo dell'amato accanto alla sua tomba; la frase "L'amore non propone enigmi..." etc è presa da una versione di greco che ho tradotto tempo fa ed è di Plutarco (se non mi sbaglio) ma non so dirvi da quale opera è presa...
Non mi viene in mente altro che possa essere frainteso o possa dare adito a dubbi o incertezze ma, se ci fosse qualcosa che non capite, potete tranquillamente contattarmi all'interno di EFP...
A presto!
Ciao ciao!
Lady Catherine
  
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