Day
4 : Pregnancy/Babies/Family
«
Ciao papààà. »
Squillò
la bambina non
appena vide il suo papà varcare la porta. Finn era stanco, e
anche oggi, aveva
lavorato le sue tredici ore senza doversi lamentare. Si
abbassò leggermente per
prendere in braccio la sua bambina e lei gli strinse le braccia al
collo.
Quello era il momento preferito di Sofia, quando il suo papà
tornava, e, anche
se era troppo stanco, l’uomo le riservava sempre un
po’ di tempo che spendevano
come sua figlia voleva. A volte guardavano la tv, altre costruivano
castelli
con le lego. Sofia aveva quattro anni, era nata dall’amore di
Finn e Santana,
esattamente dodici anni dopo che avevano deciso di stare assieme. Non
era una
gravidanza programmata, anzi il loro intento era quello di divertirsi,
e fare
l’amore come ricci, ma poi successe. Santana ancora ricordava
quel momento,
ricordava la ‘paura’ negli occhi di Finn, e
soprattutto il gridolino che aveva
lasciato sfuggirsi quando Santana gli assicurò che era seria.
Finn
si concesse una
doccia, prima di dedicarsi completamente alla sua bambina, che
richiedeva le
sue attenzioni. Lasciò che l’acqua scivolasse
contro la sua pelle, e che il
rumore che il getto provocava sopprimesse il rumore dei suoi pensanti
pensieri.
Anche oggi aveva dovuto ingoiare il sapore amaro della sconfitta, aveva
lasciato che qualcuno gli mettesse i piedi in testa. Finn Hudson aveva
imparato
ad essere forte, a lasciare che qualcuno lo credesse troppo debole per
reagire
e farlo nel momento più giusto. Aveva imparato col tempo che
sfidare persona
che risultavano più forti di lui non aiutava ad ottenere
qualcosa subito,
bensì, l’allontanava solamente. Aveva imparato
l’arte della pazienza col tempo.
«
Allora cosa facciamo
oggi papà? » Chiese Sofia, mentre Finn entrava nel
grande salone perfettamente
ordinato da Santana.
«
Aspetta un secondo
angelo, non ho ancora salutato la mamma. »
«
Non c’è. » annunciò la
bambina, sempre col sorriso sulle labbra. Quel sorriso era la cura ad
ogni
tristezza, in un secondo la nube che attanagliava la testa di Finn
sparì, lo
lasciò libero, così si chinò per
prendere in braccio la sua bambina e darle un
lungo e affettuoso abbraccio.
«
Che cosa ho fatto? »
Chiese cingendo il collo del suo papà, sempre fortissimo per
lei. La verità era
che Finn, col suo lavoro non era fortissimo. Aveva i nervi a fior di
pelle, i
reni che imploravano pietà e aveva sviluppato
un’allergia alla polvere mai
avuta prima. Quel cantiere in cui lavorava lo uccideva giorno dopo
giorno,
eppure mai si era lamentato. Aveva sempre fatto il suo lavoro,
perché quello
era il suo dovere. Far crescere la sua bambina sana e forte e dare la
vita che
aveva promesso a Santana e per questo ci voleva impegno. Anche se
l’ispanica
signora Hudson, alla fine non chiedeva molto e questo era da ammettere.
«
Che cosa preferisci fare
ora? Possiamo giocare con le lego, vedere un cartone o anche un film.
» Propose
Finn, senza rispondere alla precedente domanda della bambina. Non
c’era
assolutamente bisogno di ricordarle che era la sua vita, che le voleva
un bene
da morire, perché era chiaro a tutti che ogni padre provava
sentimenti simili
per sua figlia, e quelli di Finn erano così. Tanto, troppo
amore per un topino
di quattro anni, che era abituato a chiamare Sofia, sua figlia. Gli
aveva
illuminato l’esistenza, senza dubbio.
«
Lego! »
Finn
sorrise, mettendo giù
la bambina e portandola in camera sua, dove le lego stavano poggiate
sulla
scrivania in una barattolo rosso come il vestito di Santana al primo
prom a cui
erano andati.
***
«
Che cosa sta succedendo,
papino? » Chiese Santana, entrando nella stanza della bimba.
Aveva trovato Finn
seduto su uno sgabello, mentre guardava sua figlia dormire, la
cameretta
avvolta dal buio e un silenzio sovrano. Si avvicinò al corpo
immobile del suo
uomo e lentamente gli massaggiò le spalle, scoprendo che
aveva tutti in nervi
accavallati. C’era qualcosa che stava turbando il suo
pensiero. Non si erano
visti per tutto il giorno a causa del lavoro di lui e quando era
rientrato lei
non c’era, quindi avevano dovuto aspettare per incontrarsi e
per rivolgersi
quelle quattro parole che si dicevano prima di crollare in un sonno
esasperato,
sperando che la mattina dopo non arrivasse mai, affinché il
giovane Finn
potesse recuperare tutto il sonno che aveva perso svegliandosi alle
cinque di
mattina. Finn odiava quel cantiere del cazzo,
odiava starnutire perché c’era troppa polvere.
Odiava il fatto che, tutte
quelle persone li dentro avessero il suo stesso identico umore. Erano
sottopagati e sfruttati. Com’era normale che fosse dovessero
lavorare solo otto
ore, al massimo, ma lì si sfioravano le quattordici ore.
Aveva preso l’abitudine
di segnare le ore che faceva durante il mese sopra il calendario,
regalatogli
dal farmacista della farmacia sotto casa loro.
«
Niente, sono solo stanco...
» Fece Finn, sorridendo e alzandosi dallo sgabello. Santana
attese che suo
marito ebbe rimboccato le coperte a sua figlia e che lasciasse la
stanza,
pronta poi a seguirlo, pronta ad ascoltarlo.
Quando
Finn fu fuori dalla
stanza, si passò la mano sul viso con fare frustrato,
sospirò e si buttò sopra
il divano, accendendo la televisione. Santana si sedette di fianco a
lui, silenziosa,
aspettando il momento propizio. Si sarebbe aperto lui. Aveva imparato a
conoscerlo. Non bisognava forzarlo a parlare, sennò non
l’avrebbe fatto. Attese
che il primo inning della partita di baseball si concluse, ma lui
ancora non
parlava.
«
Hai litigato ancora con
Mills? »
«
Come sempre, quando non
mi vanno giù le tredici ore che devo lavorare per forza,
Santana. » Rispose,
Finn. Non staccò lo sguardo dalla tv per nessuna di quelle
frasi che disse alla
ragazza affianco a lui. Lei parve non perdere la speranza.
«
Raccontami. » Sussurrò.
Finn spense la tv, e si girò a guardarla.
«
Gli ho ricordato che era
troppo per un essere umano lavorare tredici ore andando avanti e
indietro
tirando i colli che arrivano – Finn sospirò, un
sospiro lungo e triste. – Mi ha
detto che questo lavoro non è per le femminucce, non
è per i cantanti. –
continuò. Solo perché una dannata volta era stato
trovato mentre cantava ‘Losing my
religion’ in
memoria dei vecchi tempi, che gli mancavano
davvero molto. – Io non sono un cantante. Cerco solo di dar
da mangiare alla
mia famiglia, che cosa c’è di sbagliato, San? A
volte vorrei solo piazzare un
pugno sull’occhio di quel rompicazzo di un campo dittatore,
così capirebbe, ma
non posso. Non posso lasciare che la mia famiglia cali a picco,
così, mi
arrendo, mi giro di spalle, apro il portafoglio e cerco la foto,
l’unica, che
ho tua con Sofia. E capisco che non posso far tornare il Finn di un
tempo, non
posso perché poi saremo perduti. » Ora si sentiva
dannatamente meglio, aveva
parlato con Santana di questa situazione che lo opprimeva, anche se
gliene
parlava in pratica sempre. Ma ne aveva bisogno e lei lo capiva, lo
stava sempre
ad ascoltare.
«
Sei l’uomo più
fantastico del mondo, Finn Hudson. Ti amo tanto. » Lei
sorrise dolcemente,
dandogli un bacio a fior di labbra.
«
Ti amo anche io, Snix. »
Proprio come al liceo, anche se Finn non ricordava in che occasione lo
disse.
«
Se fosse stato un
maschio, come l’avresti voluto chiamare? » Chiese
Santana curiosa. Si erano
divisi i nomi. Lei avrebbe scelto il nome della bambina e lui quello
per il
maschio. Per stare al passo con le sue origini, scelse Sofia. Era un
nome
latino, un po’ spagnolo, ma la sua bisnonna si chiamava
così e lei volle
ricordarla.
«
Nash. » Finn sapeva bene
come avrebbe chiamato suo figlio. Aveva pensato anche di adattarlo alla
bambina. Forse Sofia Nashina non
sarebbe stato male, ma poi avrebbe fatto la stessa fine di Drizzle,
cestinato!
Perciò lasciò che fosse sua madre a sceglierlo.
«
Nash è un bel nome. Come
ti è venuto? » Chiese lei curiosa.
«
Il chitarrista degli Hot
Chelle Rae. Nash Overstreet. » Santana avrebbe
dovuto saperlo. Amava quella band sin
da quando erano al liceo.
«
Credo che Nash stia per
arrivare, allora… » Gli prese la mano e la
poggiò sul suo piccolo pancino, al
momento. Questo voleva dire che era incinta vero? Anche se era troppo
presto
per sapere il sesso del bambino lei era incinta. Era felice, Finn
Hudson. Era
davvero felice, come una Pasqua, anche se avrebbe dovuto lavorare per
forza e
per sempre in quello squallido cantiere dove veniva sfruttato.
« Sarai un
ottimo papà. » Concluse, l’ispanica.
«
Credo solo che Sofia
sarà gelosa. Tu ti dovresti dividere tra il piccolo e
ipotetico Nash e io dovrò
lavorare ancora di più, dici che ce la faremo? »
Chiese Finn, un ditino
preoccupato per la sua – al momento – figlia unica.
Non voleva farle mancare
niente. E anche se non le mancava niente effettivamente, non voleva
iniziare
adesso, con la nascita di un altro bambino.
«
Siamo dei genitori
perfetti, Hudson. Ce la faremo, proprio come abbiamo fatto. –
Disse Santana,
ridendo. Amava quando Finn si preoccupava in questa maniera per la loro
bambina.
Lo trovava sexy, quasi. – Magari, però...
– iniziò di nuovo, all’attacco.
–
dovremmo ridurre ancora di più la nostra
intimità… » Finn la guardò
scandalizzato mentre l’ispanica li davanti a lui si spostava
i capelli dal
collo, mostrando il suo seno scoperto dalla scollatura audace e si
mordeva il
labbro.
«
Non vorrei sembrarti un
ninfomane, ma credo che si debba recuperare già da ora tutto
il tempo che
perderemo. » Santana rise, mentre il ragazzo già
si era buttato sulle labbra
morbide della donna che ogni giorno aveva accanto. Della donna che tra
nove
mese gli avrebbe dato un altro bambino, che avrebbe senza dubbio amato
quanto
Sofia. Senza differenze. Si amavano ed erano felici, anche se lui ogni
tanto,
tornava stanco e avvilito dal lavoro. Gli Hudson erano felici e da tre,
stavano
per diventare quattro.
Tutto questo parlare di tredici ore mi
ricorda
il mio papà che si spacca la schiena per noi figli ingrati.
I love my daddy.
Okay, finalmente sono
riuscita ad aggiornare. Mi viene difficile, oltre che per la scuola,
per la
poca ispirazione che sto avendo al periodo. Ho tipo ventordici OS
aperte, ma
non riesco a fare niente. Sto perdendo la mia vena artistica
ç_ç