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Autore: Artemisia89    15/12/2006    4 recensioni
[Doveva trovare un posto sicuro.] Si muoveva frenetico lui, tentando di fuggire nel delirio del dolore, ma non poteva, intrappolato tra il corpo di lei e il coltello che lo inchiodava al suo ventre.
Genere: Dark, Horror, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Il Coltello

 

Lui si lanciò per le scale, nere, in quel vicolo buio, senza il tempo di lanciare uno sguardo al cielo, che sembrava così dannatamente lontano.

Tra due file di palazzi, lui correva, con la borsa che pesante gli batteva contro il fianco, con il fiato mozzo che si faceva sempre più corto ad ogni metro.

Non poteva mollare.

Non ora, non adesso che…

Destra, poi sinistra, e ancora sinistra, finché non trovò la porta che cercava. Mancavano solo pochi metri a quella parvenza di rifugio, doveva solo resistere un altro po’.

Non aveva il diritto di cedere, di fermarsi, non ad un passo da qualcosa molto più grande di lui

Quanto sono lontani loro? LORO?

Voltò ancora e poggiò rudemente le spalle contro un muro, con l’orecchio teso ad ogni suono e le lenti degli occhiali sporche che riflettevano delle immagini vaghe.

LORO, in fondo, avevano preso un’altra via, fortunatamente lontano da lui.

L’uomo sospirò di sollievo per poi stringere convulsamente la borsa al suo corpo.

C’era, ancora.

C’era.

Alzò gli occhi al cielo, e tirò indietro alcuni ciuffi scuri di capelli che nella folle corsa gli erano finiti sul viso, liberandosi dal laccio improvvisato.

Doveva trovare un posto sicuro.

La sua mano

[che la destra non sappia cosa fa la sinistra]

la sua mano cercava la lampo della borsa. Voleva aprire, voleva vedere, voleva credere…si insinuò tra le pieghe della vecchia borsa scura, cercando un pertugio, anche un piccolo spiraglio. E le avrebbe detto che era stato solo tutto uno sbaglio, che non voleva davvero aprire la borsa, che non voleva guardarci dentro prima di lei ma che la mano era finita lì per sbaglio.

Ma venne bloccata.

Fu un sussulto di lui e una mano femminea, lei lo riportava alla ragione. Non poteva aprire la borsa fuori, non davanti a tutti, non davanti a nessuno, non in quel vicolo.

Non lui.

E c’era lei, con il suo lungo impermeabile nero e i suoi occhiali scuri, tutta in nero, come un essere di tenebre dalle fattezze di bimba.

Gli occhi dal lungo taglio, brillanti come due (sporchi) diamanti.

E una parola.

E un comando

Seguimi.

La corsa riprese, mano nella mano, come due disperati correvano le vie oscure di quella necropoli i cui abitanti sembravano avere occhi, sempre, occhi troppo grandi, che osservavano tutto e tutto sapevano, mentre LORO ridevano e guardavano e sentivano e rubavano verità e nascondevano tutto.

La borsa diventava a volte troppo leggera, quasi non la sentivi.

A volte troppo, troppo pesante.

Un fardello troppo grande da portare da soli.

Arrivarono alla porta, finalmente.

La aprirono e la richiusero silenziosamente dietro di loro.

Luci si accesero al loro passaggio, luci fioche, da mal di testa, luci sporche come tutto quello che li circondava.

[Così pulito da essere toppo sporco]

Stanze dimenticate da tutti, dimenticati dal mondo. Un orribile labirinto di camere, porte, tavoli e indicazioni cancellate.

Lui cercò il suo sguardo gelido, avido. La vide passarsi la lingua sulle labbra rosse e cercare con gli occhi un segno, qualcosa che la potesse orientare in quel dedalo di vie, tutte maledettamente uguali.

Lei gli fece un cenno e lui la seguì.

I loro passi (i tacchi di lei, gli scarponcini di lui) rimbombavano fastidiosamente nella solitudine del palazzo. I rumori sembravano scorrere in lui come sangue, come elettricità, in quel luogo che era stato abbandonato misteriosamente troppo velocemente.

Arrivarono in una camera scura, le luci si accesero, l’elettricità ronzava sopra le loro teste.

Intorno a loro tavoli e scrivanie ammassate ai muri, spinte su tutto il perimetro della stanza, pericolosamente ingombre di libri e carte e fascicoli che si ergevano in torri di babele che in tutta la loro decadente maestà sfidavano ogni legge di gravità.

Sotto i loro piedi il sangue

Lui guardò lei, con apprensione, mordendosi il labbro, reprimendo gemiti di paura (di eccitazione).

 

Lei stava al centro della stanza, senza curarsi di nulla. Teneva le mani in tasca, sicura e precisa in ogni suo movimento, perfetto esempio di una donna che sa esattamente quello che vuole e da chi lo vuole, guardava da un lato all’altro della stanza, con gli occhi che analizzavano e cercavano.

Con gli occhi che brillavano in quella luce così buia.

Al suo avvicinarsi, le carte che stavano sul tavolo al centro della stanza si sparpagliarono a terra, con veemenza, come se un vento improvviso avesse animato il palazzo nero, si lanciarono impazziti verso il perimetro della stanza, per poi poggiarsi, ancora, con leggerezza, svolazzando quasi sul pavimento imbrattato di polvere ( di sangue che solo lui vedeva. Pazzo. Pazzo. Perduto. Perduto.)

 

 

Vieni

Lei disse.

E lui, che null’altro poteva fare se non obbedire, la raggiunse.

 

La borsa ad un tratto sembrò fremere, come se l’oggetto contenuto all’interno si agitasse

(Siamo come vermi all’interno del mondo)

come se, leggero, si librasse in aria per la felicità di una meta raggiunta, con ogni mezzo, agognata da troppo tempo.

L’oggetto sorrise malignamente. In effetti tutti noi siamo strumenti, pensò dentro di sé.

Lei tolse gli occhiali scuri che si era stranamente lasciata addosso, e tolse via il cappello, affidandolo all’oscurità della stanza che lo ingoiò, togliendolo alla vista di lui.

Lui, che rimaneva paralizzato, cercando di voltarsi indietro e fuggire, cercando di ricordare il sole e ripetendosi che forse, forse, era ancora in tempo.

Ma era troppo tardi.

 

Non vai da nessuna parte.

Tu non vuoi andare da nessuna parte.

Disse lei, slacciando l’impermeabile con studiata lentezza, davanti a lui che la guardava, chiedendosi se in fondo fosse vero quello che lei diceva, e quello che gli lasciava capire, se era vero che LORO erano veramente così terribili, se il mondo dei vicoli di fuori era peggiore del palazzo nero dal pavimento imbrattato di sangue.

 

È tutto vero.

disse lei.

 

Lui deglutì, ancora, e chiuse gli occhi due volte, velocemente.

L’impermeabile fece la stessa fine del cappello e lei mostrò il suo giovane immortale corpo al povero e tremante spettatore. L’abito nero quasi disegnato addosso.

Diventata maledettamente difficile distinguerla dal buio.

La mano di lei fece un gesto imperioso e voluttuoso, e lo tirò a se come compiendo una magia

Un maleficio, la strega, LORO forse non erano poi così male

e lui si ritrovò a pochi respiri da lei. Con le sue mani fredde lei portò le mani di lui sul suo corpo, sulla lampo sottile.

 

Avanti,

lo incitò, voluttuosa.

Lui perse ogni contatto con la ragione, sapeva bene ormai di essere perduto per sempre: non era mai stato uno con grandi sentimenti, sia chiaro, era un ladro, un ladro di rarità e aveva avuto spesso incarichi senza senso da miliardari eccentrici, e pensava che il viaggio in quel paese ai limiti dell’ovest fosse solo la meta di un altro libro antico, o qualche gioiello esoterico. Aveva fatto quello che doveva – pensò mentre faceva scendere la lampo lungo la schiena di lei, denudandola e notando la bellezza della pelle bianca – aveva raggirato autorità e pressato e truffato chi si trovava sul suo cammino, aveva preso il coltello bianco e lo aveva messo nella borsa che il committente gli aveva dato.

Era un bel coltello, proprio bello.

 

La voltò e la fece stendere sul tavolo, non aveva ben capito chi fosse a guidare chi, ma lasciò fare: lei gli prese le mani e se le portò sul corpo di un bianco assurdo, se le portò alle labbra nere come il buio e si presero a vicenda tra urla, nel buio della stanza, del palazzo.

Con la rabbia, con la disperazione e con la paura di lui, lei si nutrì, godette nel ricevere il rancore della sua misera vita, le sue aspettative fallite e gridò come non mai quando gli confidò, riversandosi in lei, di aver ucciso, di aver violentato con la mente, di aver peccato contro LORO, contro LUI, contro LEI.

 

Lui cadde riverso su di lei, quasi morto, quasi.

Mentre lei sorrideva, in estasi ancora, con gli occhi vacui e i riccioli neri sparsi sul tavolo, come neri filamenti secerni da un grosso ragno, ormai sazio. Portò la mano fuori dal tavolo e la aprì, la borsa svuotò il suo contenuto e il coltello bianco, come mosso da fili invisibili si adagiò sulla sua candida mano.

Le dita si richiusero dolcemente sul manico e la lama penetrò con ancora maggiore dolcezza nelle carni esauste di lui, e la lama scese fino spaccare le ossa e bevve tutto il sangue e mandò avanti la ferita per tutta la lunghezza del corpo e tranciò le urla vecchie incitando il moribondo per nuove.

Maggiore fu la pena se regnava per più di pochi attimi il silenzio.

Si muoveva frenetico lui, tentando di fuggire nel delirio del dolore, ma non poteva, intrappolato tra il corpo di lei e il coltello che lo inchiodava al suo ventre.

non poteva, è troppo tardi ormai

LORO forse non erano poi così male

 

E intanto lei, ancora maggiormente godeva, si leccava le labbra mentre lui impazziva dal dolore, mentre lui moriva, accompagnava le sue urla con i suoi gemiti mentre il bianco del coltello assorbiva il sangue, il grigio, il giallo, ogni colore del corpo, ogni fibra di vita.

Quando lui on potè più gridare, quando le sue urla non ci furono più e i muscoli non poterono più flettersi, la lama fuoriuscì dal corpo di lui con estrema facilità, non lasciando che una sola goccia di sangue gocciolasse da essa, sembrava essere tornato il silenzio nel palazzo, anche l’elettricità aveva smesso di ronzare, non si muoveva più nulla, nulla che fosse vivo.

Lei scivolò da sotto di lui e si rivestì, prima l’abito, poi l’impermeabile, il cappello e infine gli occhiali scuri a coprire il bianco degli occhi, poi si mosse, a passi lenti, come in attesa, ma prima di andare via, leccandosi ancora le labbra rosse e gonfie disse

 

Ne è valsa la pena in fin dei conti

 

E uscì.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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