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Autore: mavee    29/05/2012    1 recensioni
Ho ritrovato dopo alcuni anni un breve racconto che avevo scritto in occasione della Giornata della Memoria per il giornalino scolastico e lo ripropongo qui così come l'avevo scritto.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Senza Memoria
La sirena squillò. Aprii gli occhi la camerata era già in movimento, era una grande stanza grigia e spoglia in cui trenta donne stavano ammassate tra tute da lavoro sporche e vasi da notte da svuotare.
Avevo perso il conto dei giorni passati là dentro, erano tanti e niente faceva pensare in quella fredda monotonia che qualcosa sarebbe cambiato. Ma spesso accadono cose inattese.
Indossai la tuta informe e mi avviai verso il portone da cui un soldato gridava imperativo di sbrigarsi, minacciando bastonate. Non ricordavo più il terrore che quelle urla incutevano settimane, mesi o forse anni prima, ricordavo donne che piangevano rannicchiate in un angolo, aggrappate l’una al braccio dell’altra, implorando pietà, elemosinando informazioni sui loro familiari. Non ricordavo più le notti insonni, i mugolii, i singhiozzi di donne  che avevano perso un figlio, un fratello, un amico. Non ricordavo più lo smistamento, la paura di essere ritenuta troppo debole e troppo forte allo stesso tempo. Non ricordavo più le prime giornate di lavoro alla fabbrica, le piaghe, il dolore ai muscoli, la nostalgia di casa che martellava nella testa scandendo i minuti e le ore.
Mi guardai attorno in quell’alba gelida e quei ricordi dimenticati restarono dove non potevo trovarli, dove erano stati cacciati con violenza. Tutto davanti ai miei occhi era cambiato. Non c’erano più donne tristi, nessuno piangeva, non si nascondevano più, non lottavano più. Vidi una fila di fantasmi di ciò che erano state, vidi sguardi vuoti offuscati dall’annullamento della loro persona, vidi figure prive di volontà trascinarsi verso l’ingresso. Vidi tanto vuoto.
Ci mettemmo in fila come tutte le mattine, per prendere la zuppa di cereali. Era fredda. Nessuna ne chiese ancora. Nessuna si lamentava, nemmeno la contessina. Una volta c’era sua cugina che ci aveva provato, mi chiesi solo in quel momento dove fosse mai finita.
Ci dirigemmo verso la fabbrica, noi portavamo sulle spalle le ceste di panni bagnati.  La pittrice non riusciva a tenere il passo, la picchiarono col bastone. Non reagì nemmeno, non gridò, si rialzò e riprese a camminare. Lo sguardo fisso nel nulla. Cominciai a chiedermi se era sempre stato così, non ricordavo altro al di fuori di quella strada che percorrevo dodici ore al giorno, piegata sotto la mia cesta. Non ricordavo visi diversi dai soldati che ci davano da mangiare. Non pensavo più a cosa sarebbe successo nel futuro. Non c’era futuro in quel luogo. Solo la piatta ripetizione infinita degli stessi gesti. Non ero più nemmeno certa di saper parlare. Non ricordavo il mio viso. Passavo ore senza pensare a nulla. Un nulla di nebbia densa e pesante.
La ciminiera dall’altro lato del campo non veniva accesa da non sapevo quanto. Non sapevamo come accendessero le ciminiere, non lo sapeva nessuno. Sapevamo solo che nei giorni del falò un odore acre rendeva l’aria difficile da respirare. 
Quella sera i soldati entrarono nella nostra camerata mettendoci in fila, presero l’attrice, le sorelle e la cameriera. Presero anche me.
La stanchezza mi rendeva incapace di reagire in alcun modo, di opporre una qualche resistenza alla stretta salda del soldato che mi trascinava. Camminammo a lungo. Ci fecero mettere in fila. Ci fecero entrare in una stanza, grande. Le pareti emanavano uno strano odore, ricordo che notai che non avevo più le mani libere, qualcuno mi aveva legata. Mi prudeva il naso. Lasciai perdere.
Portarono donne di altre camerate.
Una di quelle non doveva essere lì da molto, notai che era agitata, guardava dappertutto e si dimenava cercando di liberare le braccia, i soldati la tenevano d’occhio da poco lontano. La donna parve individuare qualcosa. Non provavo interesse, ma mi girai ugualmente a guardare il punto in cui puntava gli occhi strabuzzati. Una griglia in un punto del muro, in alto. Non era l’unica griglia nella stanza.
Sul volto della donna si dipinse un’espressione terrorizzata. Per pochi istanti fui sorpresa, il suo viso mostrava delle emozioni…mi chiesi se ne ero ancora capace. Persi interesse per quelle domande. Poi la donna prese ad urlare.
“Ci vogliono uccidere! Ci uccideranno col gas! Scappate! Siamo tante possiamo farcela, ora, presto correte!” un soldato la afferrò, ma questa si divincolò con forza inattesa. Un altro le si avvicinò, la colpì alla nuca col calcio del fucile. Cadde a terra e non si rialzò.
Tutte la guardavamo, i soldati ci osservavano puntandoci contro le mitragliette, mi chiesi cosa si aspettavano che facessimo. Le urla della donna avevano attirato gli sguardi opachi, ma dopo che era crollata nessuna di noi fece una mossa, non per paura, non ci interessava.
Chiusero la porta. Non ricordo cosa successe dopo. So che sentii un rapido roteare di pale, come delle ventole. Mi sentii debole, le gambe non mi reggevano. Caddi a terra, e capii.
Morivo.
Dicono che quando stai per morire, tutta la tua vita ti passa davanti agli occhi.
Io non vidi nulla. Non avevo più nessun ricordo. Mi avevano tolto anche quelli, mi avevano annullata, svuotata.
E ora che non sono altro che polvere è la cosa di cui più mi rammarico.

 
  
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