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Autore: Ortensia_    30/05/2012    2 recensioni
Stanze.
Stanze buie dalle quali potrà uscire sempre e solo una Nazione.
Chi dovrà sfidarsi, in questo gioco macabro ed inumano?
Chi vincerà?
Solo il vincitore deciderà delle altre vite ...
[_Fra le storie più popolari dell'anno 2012/13 su Axis Powers Hetalia: più recensioni positive_]
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Allied Forces/Forze Alleate, Altri, Axis Powers/Potenze dell'Asse, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Can you hear the World?'
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II – Gentiluomo


Stanza: Nr. 1, Stanza di Estia
(Vesta, dea della casa e degli affetti)
Posizione: Girone esterno
Dimensioni: ca. 200 m2
Temperatura: ca. 17 °C
Fonti di luce: Nessuna
Ore (da quando tutti i prescelti sono nella stanza, fino a quando non ne rimane uno solo): 12:00 – 12:20



D’un tratto, una crepa piuttosto imponente, si aprì nella parete, spezzando a metà la scritta che si era creata con il sangue.
Si guardarono tutti intorno, indecisi sul da farsi.
«Entriamo?» la voce spiritata della bielorussa sembrò gettarli ancor di più nel panico.
«Natalia, aspetta. Quella frase …»
«Non mi interessa chi ci manderanno contro, questa volta.» la donna interruppe l’inglese senza battere ciglio.
«Io entro.»
«Alfred-!» Arthur si sentì costretto a seguirlo, e di conseguenza anche Matthew, così, senza riuscire a fermare i passi dell’americano, probabilmente inconscio della vera gravità della situazione, furono i primi ad entrare.
Poi fu la volta di Natalia ed Ivan, che evidentemente intendeva marcare stretto l’americano.
«I-io non voglio entrare-» Feliciano era paralizzato. Si stava lagnando, come al solito, ma il fratello lo afferrò per un braccio, mostrandogli il resto della stanza «vedi altre alternative, idiota?»
Antonio si sistemò al fianco dei due italiani, rivolgendo un’occhiata ai suoi più cari amici, Roderich, Gilbert e Francis, poi al tedesco, che annuì appena «entriamo.»
Intanto, anche le schiere dietro le loro spalle avevano iniziato a muoversi e anche loro procedere verso la crepa.

Il problema non era ciò che gli avrebbero mandato contro, ma chi.



Il passo calcato dell’austriaco creò un’eco agghiacciante.
Solo, immerso nel buio.
Rimase in silenzio, limitandosi a sistemare gli occhiali con un rapido gesto dell’indice e poi massaggiandosi la radice del naso con le prime tre dita della mano.
Compì ancora qualche rumoroso passo, guardandosi intorno: esclusa la sua eco, non udiva alcun altro suono, escluso il nero del buio, non poteva intravedere alcun altro colore. Neppure il viola delle proprie maniche, a pochi palmi dagli occhi.
Quando schiuse le sottili labbra rosate per parlare, si ritrovò a sussultare, mentre un arma parve sbocciargli di fronte.
Rimase ad osservarla confuso per qualche attimo.
Doveva prenderla? Non aveva altra scelta?
Sì.
Timidamente, le mani dell’austriaco, imbracciarono quel fucile di grezzi materiali: non era piacevole come accarezzare il suo pianoforte, ma era ruvido, bruciava i palmi delle mani, e lasciava impregnato nei polpastrelli il grigiore della polvere.
Convenne fosse necessario averlo a disposizione, ed adagiandolo alla spalla più forte, la destra, procedette.
Camminò aderente ad una parete, in cerca di spifferi d’aria per avere la conferma che quella non fosse una sala chiusa. Effettivamente trovò una prova per escludere quell’ipotesi.

Quella stanza non era chiusa, ma peggio ancora. Bensì, sigillata.

Nel constatare che la sua persona si trovasse in trappola, Roderich, rabbrividì.
Sentiva già le gocce di sudore imperlargli le tempie fini e pallide, a causa dell’ansia e della paura.
L’aria era rarefatta, l’odore acre, impregnato nelle pareti, faceva bruciare terribilmente le narici, tanto che l’austriaco si sentì costretto ad adagiare il fucile a terra, portandosi una mano al naso, nauseato.
Non c’era luce, come se non si potesse aprire alcuno spiraglio, e l’aria che aveva ora nei polmoni avrebbe certamente attraversato il suo corpo più e più volte.

Un passo lontano lo scosse, e ciò lo spinse a chinarsi velocemente per afferrare il fucile e, di conseguenza, tornare a sopportare quel fetore.
Il fucile sembrò emergere dal buio come poteva fare un grosso tronco appena gettato in acqua e tornato rapidamente in superficie.
Non era solo.
Quella stanza sembrava grande, dopotutto. Non era da escludere che nel buio si stessero nascondendo altre Nazioni e che, come lui, fossero spaventate dalle loro stesse voci, dal loro stesso respiro.

«Herr Österreich! Sta bene!
Che sollievo!»
Roderich sussultò non appena sentì la voce dell’ungherese poco lontano da lui.
Percepì l’arteria della gola tremare e pulsare fastidiosamente, quando la vide davanti a s con un fucile molto simile al suo fra le braccia.
Aveva il viso fresco, così come l’aveva visto quando, per un attimo, sia era voltato verso la schiera alle loro spalle: la pelle lattea, le guance appena arrossate, gli occhi di un verde brillante, in contrasto con il rosa del fiore fra i capelli castani, ed il rosso del fiocco che faceva da decoro al colletto di pizzo bianco.
«Dove sono gli altri?»
Quando l’ungherese rispose col silenzio, l’austriaco, pensò subito volesse dire che, in quella sala buia e sigillata, vi fossero solo loro due.
«Herr Österreich, secondo lei dovremmo aspettare? O cercare un’uscita?
O forse c’è qualcosa che dobbiamo …»
“Dobbiamo uccidere, forse?”
Bofonchiò le ultime parole, osservando il fucile, per poi incatenare i propri occhi a quelli di Roderich: due ametiste macchiate di malva.
«Penso che la tua ultima tesi sia fattibile, Ungheria.» Roderich aveva inteso ciò che voleva dire, nonostante si fosse interrotta prima della parola fondamentale.
L’ungherese si sorprese delle sue parole, e lo incitò a continuare con la sola forza dello sguardo.
«Chi tu devi uccidere ti sta parlando ora, chi io devo uccidere mi sta davanti adesso.»
Gli occhi di smeraldo dell’ungherese si spalancarono «c-come?» ed arretrò a dir poco intimidita da quelle parole.
«Herr-» quando sentì il fucile scivolargli dalle mani si decise subito a lasciarlo andare, confusa.
Austria voleva rubarglielo e approfittare così di lei? Prendendosi gioco dei suoi sentimenti? Ungheria sentiva già la paura e la diffidenza, anche verso l’uomo che molto stimava e di cui era tanto innamorata, scorrerle nel sangue.
In verità, Roderich, stava solo analizzando il fucile, mettendolo a confronto con il suo.

Appena l’austriaco le porse il fucile che apparteneva a lui, tenendo il suo, sussultò.
«Non lotterei mai contro una donna svantaggiata.»
«Herr- cosa sta succedendo? Non dobbiamo combattere!»
«Qui si respira la stessa aria di Berkeley Square.» e senza più insistere le porse il fucile più grezzo e, all’apparenza, meno valido «all’inizio magari ti bruceranno le mani, ma è molto più leggero e preciso rispetto a questo.»
Roderci mostrò il fucile che fino a poco prima era lei ad imbracciare, ed ora era lui a stringere fra le mani.
Rispetto a quello che Roderich le aveva appena dato era poco più corpo e spesso, di legno chiaro, ma effettivamente molto più pesante, e quindi difficile da maneggiare.
«Lei è sicuro?»
«Fidati, se non sarà così ci fermeranno.» ma Roderich sapeva perfettamente che nessuno avrebbe mai osato impedire il massacro.
«Questo è un gioco macabro, Ungheria. Una lotta all’ultimo sangue, Nazione contro Nazione.
La cattiva sorte ci ha voluti protagonisti della prima battaglia.» parlò tristemente, ma l’ungherese lo interruppe improvvisamente, animata da una nuova speranza.
«Guardi!» Ungheria sperò che le macchie di sangue che ora stavano colando lungo la parete, a fatica visibili, avessero buone notizie per loro e fossero intenzionate a fermare Roderich, negando quindi quelle idee malsane, ma in verità le affermarono soltanto, e lei ebbe modo di constatarlo con orrore.

«Uccidi il perdente senza esitare. Amico o fratello.
Uccidi, o con lui muori di fame.»


Roderich lesse con un filo di voce, e l’ungherese al suo fianco negò decisa «no! Perché dovrei fare del male a lei?!»
«Perché … perché purtroppo non abbiamo altra scelta …»
L’austriaco le adagiò affettuosamente una mano sulla spalla, accennando un affabile sorriso, per poi voltarle le spalle ed incamminarsi verso un estremo della stanza.
L’ungherese rimase ad osservarlo, con gli occhi lucidi a causa delle lacrime, finché non vide la sua figura esile sparire nel buio.
Uccidere l’uomo amato, o da lui lasciarsi uccidere?
Davvero, non avrebbe mai capito qual’era la peggiore delle due opzioni.

Roderich sapeva che per spronare Elizabeta sarebbe stato suo dovere sparare il primo colpo, invitandola così a rispondere al fuoco.
Premette il grilletto, e lo sparo esplose in un eco assordante.
L’ungherese arretrò ad occhi sgranati: Roderich stava sparando nella sua direzione. Intendeva davvero farla fuori?
«Ti prego Ungheria, rispondi.» non le avrebbe permesso di perdere. Doveva solo provocarla abbastanza per farle premere il grilletto.
Roderci premette il grilletto ancora una volta, ma puntando il fucile verso l’alto, per eliminare ogni possibilità di colpirla per sbaglio.
Le mani dell’ungherese si strinsero intorno al fucile, e già sentiva i palmi bruciare fastidiosamente.
Roderich aveva sparato in alto: voleva soltanto spingerla a premere il grilletto.
Roderci capi che non avrebbe agito, se provocata da metodi così delicati.
Assottigliò il proprio sguardo, cercando nel buio, e quando intravide una sagoma sparò il suo terzo colpo.
Sentiva il cuore rimbombare pesantemente nel petto, e pregò di averle soltanto sfiorato uno degli altri, come si era proposto di fare.
Un singulto di dolore si liberò dalle labbra dell’ungherese, e subito, lo sguardo di questa, corse sul braccio, lì dove la stoffa si lacerava, il sangue rosso si liberava dalla ferita, impregnando il tessuto della divisa.
Il proiettile l’aveva solo sfiorata, ma bruciava terribilmente.
«ÖSterreich …» l’ungherese socchiuse gli occhi per il dolore, sentendoli bruciare, e con le lacrime che ostacolavano terribilmente la sua vista fu difficile cercare la figura dell’austriaco in quell’ambiente cupo.
Deglutì, puntando il fucile davanti a sé, nel buio.
Sentì le mani tremare sul legno duro e scheggiato dell’arma, che le stava ferendo tanto crudelmente la pelle, l’indice scivolare sul grilletto metallico.
Strinse i denti e ancora le mani sull’arma, finché non vide le nocche perdere quel rosa delicato che era solito della sua pelle.
«Scusi.»
Premette il grilletto, lasciandosi respingere indietro dal contraccolpo, ormai arresa dall’evidente sfida che l’austriaco le aveva lanciato.
Roderich sorrise quasi rasserenato dallo sparo e dal colpo che percosse la parete umida, a qualche metro da lui: si era decisa, finalmente.
Sparò ancora, e così anche l’ungherese.
Allo scoppiare del colpo, entrambi si spostarono velocemente, evitando il proiettile caldo proveniente dall’arma avversaria.
«Szar!» l’ungherese evitò di poco la pallottola, buttandosi a terra per spostarsi del tutto dalla sua traiettoria.
Sentì subito l’umido del pavimento impregnarsi nel vestito, le ginocchia bruciare, spellate, a causa della pietra seghettata da cui era composta la maggior parte del suolo.
«Perché?» con le lacrime agli occhi, l’ungherese, tornò faticosamente in equilibrio e sparò due colpi a pochissimi secondi di distanza.
Il primo colpo quasi sfiorò la gamba dell’austriaco, e vederlo percuotere la parete come aveva fatto il precedente lo fece tranquillizzare. Fu piuttosto il secondo a colpirlo, lì dove la lente e la stecca degli occhiali convergevano e si riunivano.
«Ah-!»
D’un tratto, Roderich, non vide più nulla.
Sentiva soltanto un dolore terribile alla tempia e sopra l’occhio sinistro, a causa dello schianto del proiettile sul metallo degli occhiali.
Si chinò velocemente a terra, tastando il suolo umido con le mani e quindi lasciando da parte il fucile.
Era già difficile vedere senza occhiali, figurarsi con quel buio pesto.
Più tastava intorno a sé, più sentiva diminuire le speranze di ritrovarli.
Cercava, e nel frattempo sentiva il fuoco nei polmoni, nelle narici, per il quantitativo ingente di aria che stava respirando a causa dell’ansia.

D’un tratto, una fredda canna di fucile puntata alla sua nuca, lo spinse a chinare il capo verso il basso e a rimanere chinato al suolo: ormai anche la sua arma, come i suoi occhiali, era persa nel buio.
«Io non voglio ucciderla …»
Orrendo non poterla vedere un’ultima volta.
«Non lei …» ma si risollevò appena, quando sentì la sua voce tremare: avrebbe pianto, forse non era poi così negativo non poterla guardare in faccia mentre lo uccideva.
«Tornerò a casa, Ungheria, e baderò anche alla tua.
Non preoccuparti per me.»
«Non le sparerò-!» l’ungherese urlò quasi istericamente contro l’altro, facendo pressione con la canna del fucile sulla nuca, e lasciando che le lacrime calde le rigassero il volto.
«Ci saranno stati molto più forti avanti. Sta attenta.»
«La smetta!»
Forse era la prima volta che Roderich la faceva arrabbiare così.
Non lo riconosceva. Sembrava quasi supplicare in ginocchio per essere ucciso.
«Voglio che tu vada avanti, hai capito?»
L’ungherese non rispose.
«Elizabeta, mi ami, vero? E allora perché non fai ciò che ti sto chiedendo?
Spara. Non sono interessato a vincere questo gioco.
Te lo chiedo per favore.»
Le mani della donna tremarono intorno al fucile, le lacrime tornarono a rigarle il volto, copiose, ed un singhiozzo la colse di sorpresa, facendole stringere i denti, piantare un canino nel labbro inferiore, come a volersi fermare a tutti i costi: non voleva che Roderich la sentisse piangere, ma era più forte di lei.
In qualche attimo, il singhiozzo, divenne mille singhiozzi.
Lui la stava ascoltando.
Quei singhiozzi addolorati sarebbero stati la prima cosa che avrebbe ricordato al suo risveglio.
Doveva fermare subito quella tortura a cui lo stava sottoponendo tanto egoisticamente.

Quasi come per contrastare il rumore assordante dei suoi singhiozzi, premette il grilletto.

Rimase a lungo in silenzio, ad osservare le strisce di sangue che sinuose si liberavano dal foro nella nuca dell’austriaco, ormai riverso ai suoi piedi.
Adesso non le importava più del vestito umido appiccicato alle gambe, o delle ginocchia spellate e sanguinanti.
Adagiò il fucile di fianco all’austriaco, e brancolò nel buio per qualche minuto, finché un lieve scintillio non attirò la sua attenzione.
Si chinò a raccogliere gli occhiali, per rimetterli sul volto dell’uomo che amava, ma quando li trovò rotti rimase chinata a terra, riprendendo a piangere.
Anche la forza per singhiozzare sembrava essersi spenta.
Sollevò faticosamente lo strato verde del vestito, trovando difficoltà a causa delle mani tremanti e del tessuto sfuggente e quasi impalpabile, sistemando gli occhiali in una tasca della sottoveste bianca; poi tornò da lui.
Questa volta non lo guardò, e si limitò ad afferrare velocemente il fucile grezzo che, però, era sparito.
Poco lontano da Roderich, rimaneva quello in legno chiaro, quello che lui le aveva preso, in cambio dell’altro, per permetterle di partire avvantaggiata.
Quando, rassegnata, afferrò il fucile di legno chiaro, sentì un rumore grave provenire dal lato opposto della sala.

Voltandosi riuscì ad intravedere nel buio una grossa crepa che si apriva nel muro.
Vi si avvicinò con cautela, e quando vi fu davanti, una piacevole brezza fresca, gli scostò i capelli appena sudati dalla fronte, facendole trovare la forza di asciugarsi le lacrime con il dorso della mano.
Doveva andare avanti, allora.
Doveva farlo per Roderich.
Prese un respiro profondo, e poi varcò la soglia di quella grossa crepa, scomparendo nel buio.
   
 
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