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Autore: fewlish    31/05/2012    1 recensioni
Sono una bastarda.
Sono cattiva.
Sono senza scrupoli.
Sono subdola.
Sono una bugiarda, mento persino a me stessa.
Mento per sentirmi bene nel mondo e per essere accettata e amata dagli altri.
Porto molteplici maschere: con i miei amici ho un volto, con i miei genitori un altro e con Marco ne avevo un altro ancora.
L’ho fatto soffrire, l’ho fatto star male, gli ho spremuto ogni linfa vitale, ho succhiato ogni goccia del suo sangue finché non è diventato solo un corpo, un automa, un cucciolo indifeso nelle mie mani.
Mi sono cibata dei suoi pensieri, mi sono dissetata con il suo amore.
Era il mio giocattolo, era il burattino e io il burattinaio, l’ho ammaliato, l’ho imprigionato nel mio incantesimo.
L’ho usato, gli ho mentito e poi l’ho lanciato nel vuoto, come foglie al vento.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ufficialmente, ci vedemmo per la prima volta in un locale un sabato sera, in realtà io l'avevo già notato all'università.
Quel suo sguardo malinconico, passivo e triste, quella sua camminata un po' goffa con le mani nelle tasche dei jeans e il volto rivolto a terra.
Lo dovevo conoscere, assolutamente. Dovevo sapere cosa lo turbava e mi affascinava il suo essere diverso, fuori dagli schemi, marginale rispetto alla massa.
Al locale mi bastò uno sguardo per catturarlo nella mia rete.  
Il mio piano stava procedendo splendidamente, come sempre.
Decisi di non avvicinarmi a lui se non dopo una settimana.
Poi, un giorno, decisi che gli avrei parlato. Andai nella segreteria della facoltà, dove sapevo che lavorava per poter frequentare l'università.
Era all'ultimo anno di lettere, io al secondo di medicina. Il mio cuore freddo ed estraneo ad ogni tipo di sentimento era in grado di reggere alla vista del sangue e di ogni organo umano, anche il più rivoltante. Sono affascinata dal sangue, lo sono sempre stata, fin da piccola. Quel colore vermiglio e quel sapore acido mi attiravano come il dolce e biondo miele attira le api.
Lo vidi immerso nei documenti, con il volto abbassato sulle carte.
Mi fiondai davanti a lui e lo salutai con la voce più seducente che mi riusciva. Lui mi salutò, senza distogliere lo sguardo dai fascicoli.
«Scusa, ma ora sono piuttosto occupato» disse senza degnarmi di uno sguardo.
«Non ti voglio rubare del tempo prezioso, mi bastano solo due secondi e poi ti lascio in pace».
Alzò lo sguardo con aria scocciata, ma appena mi vide in volto, il suo viso mutò e mi fissò con la bocca spalancata.
«Avrei bisogno del modulo per l'esonero dal pagamento delle tasse scolastiche»
Lui mi guardò ammaliato e non mi rispose: avevo fatto centro, ne ero sicura!
«Scusa, mi hai sentito? Potresti darmi quel modulo per favore?»
Scosse la testa come risvegliato da un sogno «Io....sì, te porto subito. Posso sapere il tuo nome?» mi chiese senza guardarmi negli occhi.
«Francesca, Francesca Mazzini».
«Ok perfetto, te lo porto subito.» mi disse con lo sguardo rivolto a terra per poi dirigersi verso l'enorme schedario della segreteria. Tornò con il documento in mano e me lo porse guardandomi finalmente negli occhi.
«Sei magnifica» si lasciò scappare con aria trasognante.
«Come scusa?» gli chiesi incuriosita, anche se sapevo perfettamente cosa mi aveva appena detto.
«Niente, niente, scusami, a volte parlo a vanvera» disse con un sorriso imbarazzato guardando a terra e toccandosi i capelli. Ho sempre amato quel suo gesto, l’accarezzarsi i capelli a disagio guardando a terra, lo fa sembrare un cucciolo indifeso.
«Potremmo vederci qualche volta» gli suggerii.
Alzò immediatamente lo sguardo e mi guardò come folgorato «Sì, voglio dire, molto volentieri»
«Solitamente frequento il bar all’angolo, se non sbaglio si chiama “Luna” o qualcosa di simile. Se hai del tempo passa di lì qualche volta, in genere sono sempre là a studiare»
«Io...sì, sì. Ci farò un salto» disse balbettando.
«Perfetto!» dissi infine e me ne andai.
Io lo ammiravo.
Adoravo la sua goffaggine, il modo buffo in cui balbettava.
Adoravo il fatto che fosse totalmente e completamente differente da me.
Adoravo il modo in cui mi guardava, in cui volevo essere guardata.
Lui se ne infischiava del giudizio degli altri, era semplicemente se stesso.
Si vestiva come voleva, senza aver paura di violare qualche sacro canone della moda.
Scriveva poesie e non si vergognava di farle leggere agli altri.
Parlava di sé e amava stare in compagnia.
Aveva sempre i capelli in disordine, non si curava di pettinarli, di sistemarli.
Era l’imperfezione fatta a persona e questa era la qualità che più apprezzavo in lui.
Io volevo essere Marco, volevo avere il suo coraggio, la sua passione, il suo cuore.
L’ho distrutto per potermi impossessare della sua anima, del suo spirito puro, per poter redimere i mali della mia mente.
Non sono mai riuscita a diventare come lui: mentre il suo cuore batteva per i suoi ideali, per la libertà, per l’indipendenza e per me, il mio cuore non batteva, se ne stava fermo, avvolto in una coltre di nebbia e ghiaccio.
In passato, ho sempre anelato alla perfezione e solo ora mi rendo conto che la perfezione era lui, Marco, con i cappelli arruffati e la barba incolta.
Aveva ragione, io non sono nessuno, sono soltanto il prodotto dei miei genitori. Sono la loro macchina da guerra a cui non hanno tolto il tasto di autodistruzione.
I miei genitori.
L’alto nome della nostra famiglia, l’onore dei nostri discendenti, la purezza del nostro sangue nobile.
Se solo penso a loro, un brivido freddo mi scorre per tutta la schiena. Anche ora che scrivo di loro, ho come il terrore che siano dietro di me e che mi stiano giudicando.
Io ho paura di loro, mi terrorizzano, mi mettono in soggezione.
Non li odio, non potrei mai odiarli, provo solo terrore, ansia e angoscia nei loro confronti.
I loro silenzi quando avevo cinque anni, i loro rimproveri quando ne avevo 15, i loro volti entusiasti quando decisi di iscrivermi a medicina.
Sì, loro volevano un medico, loro volevano la figlia perfetta, la figlia che tu tutti dovevano ammirare, la figlia che tutti i vicini e amici avrebbero voluto.
Sono sempre stata al loro gioco, ho sempre portato la maschera della brava bambina e loro sono sempre riusciti a nascondere agli altri i miei tentati suicidi, le mie fughe, i miei incontri con lo psicologo, le mie continue depressioni. D’altronde, con tutti i soldi di cui hanno sempre disposto, non hanno mai avuto problemi a pagare il silenzio degli altri ed il mio.
Non ricordo un abbraccio, non ricordo un bacio.
Da piccola non piangevo mai, non si poteva.
Ero una bambolina, una bella bambola di porcellana.
Tutto quello che ricordo della mia infanzia è il silenzio, puro e soffocante silenzio.
  
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