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Autore: Glory Of Selene    31/05/2012    4 recensioni
"Vai, vai, bellezza, il viaggio alla riscoperta del tuo passato comincia ora. E, chissà, magari imparerai anche qualcosa"
Cosa succederebbe se Tuomas e i Nightwish fossero trasportati in una favola, all'inseguimento di alcune delle loro vecchie canzoni?
Genere: Fantasy, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anette Olzon, Erno Vuorinen, Jukka Nevalainen , Marko Hietala , Tuomas Holopainen
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Anette si svegliò, disturbata da un raggio di sole che penetrava clandestino nella sua cabina e si posava dolcemente sulla sua guancia.
Si lasciò andare ad un mugolio mentre si stirava, ed apriva lentamente gli occhi.
Sarebbe stata una giornata importante. Dolorosa. Terribile. Ma inevitabile.
Si mise a sedere, guardandosi intorno con gli occhi azzurri ancora assonnati. La cabina era esattamente come l’aveva lasciata la sera prima. Sempre caotica. Sempre così deliziosamente piccola.
Si passò una mano sul volto. Ma davvero aveva intenzione di farlo? Davvero aveva intenzione di prendere una decisione così drammaticamente definitiva?
Si alzò, si avvicinò e prese in mano un piccolo specchietto – eco di una ormai dimenticata femminilità –, osservandosi per sistemarsi la massa informe dei suoi capelli neri. Perfetto, quella mattina erano ancora più selvaggi del solito…
Rinunciò a dar loro una forma, per dedicarsi all’abbigliamento. Sì, era abbastanza presentabile… e, per il momento, l’essere “abbastanza presentabile” ancora le bastava. Rabbrividiva al pensiero di poter diventare una di quelle donne perennemente agitate a causa di un orlo sgualcito o di un colore abbinato in modo sbagliato.
Si sedette dietro la scrivania, tentando di stamparsi sul volto la sua solita espressione dura, convinta, sicura di sé. Come se in quel momento sapesse cosa stesse facendo; come se in quel momento conoscesse le conseguenze delle proprie azioni. O forse, queste ultime le conosceva fin troppo bene; per questo tentava di ignorarle.
Un comportamento simile non era una comportamento ammissibile per un capitano; un’altra cosa che lei sapeva molto bene. C’era anche da dire che mai, mai la sua vita era stata sconvolta in modo simile.
Era sempre stato tutto così chiaro.
Gran bella faccia tosta, quei tre, spuntare da chissà dove e rovinarle ogni cosa. Loro avevano la minima idea di tutti i sacrifici che lei aveva fatto per arrivare fino a dov’era arrivata?
Eppure, sebbene in circostanze normali avrebbe staccato loro la testa con molta gioia, quella volta sentiva invece il folle bisogno di assecondarli e accompagnarli. Roba da matti.
«Capitano?»
La voce, giovane e insicura, le giunse distante da dietro la porticina di legno della sua cabina. Poteva anche sentire un flebile bussare.
Anette sospirò.
«Per l’amor del cielo, entra, Kian.»
Una simpatica zazzera color castano chiaro fece capolino dalla porta, ed un paio di timidi occhi nocciola si guardarono intorno intimoriti.
Ecco: l’unica speranza di riuscita per il suo brillante piano, l’unico salvatore della sua nave e della sua reputazione. Un ragazzino. Nient’altro che un ragazzino.
«Quando deciderai che qui dentro non ho intenzione di sbranare nessuno ti sarò eternamente grata. Vieni. Sono altri che dovrebbero avere paura di me» …e non ne hanno, aggiunse tra sé con un velo d’amarezza e disappunto.
Il ragazzino si affrettò ad entrare dentro. Rimase in piedi, impacciato, nel bel mezzo della cabina, prima di cogliere lo sguardo esplicito del suo capitano e crollare seduto su una sedia, con le guance in fiamme.
«Sissignore, capitano. Cioè, sissignora, capitano. Chiedo scusa, capitano.» balbettò, gli occhi puntati fissi sulle tavole di legno sotto i suoi piedi.
Anette alzò gli occhi al cielo. Sì, il suo piano era decisamente un piano suicida.
«Ti vuoi calmare?» chiese, e contro la sua volontà la sua voce si fece più calda e più morbida.
Maledizione.
Inutile: il suo istinto da donnicciola davanti a quel ragazzino veniva pericolosamente a galla.
Il problema era che faceva così tenerezza, con quell’aria intimorita e quei ciuffi di capelli eternamente dritti in testa, e il suo corpo magro e scattante a metà tra quello di un uomo e quello di un bambino.
Doveva avere poco più di diciassette anni, ma a volte ne dimostrava anche meno.
Quel cambiamento di tono però in qualche modo gli fece bene, gli donò un po’ di forza, così che riuscì ad alzare lo sguardo e guardarla finalmente negli occhi.
«In… ehm… in cosa esattamente posso esservi d’aiuto, capitano?»
Anette appoggiò i gomiti alla scrivania, incrociò le dita davanti a sé e vi appoggiò il mento con fare pensoso.
«Kian.» esordì poi. Lo sguardo nei suoi occhi azzurri era così intenso da spaventare il ragazzo.
«Tu sei il mago della Dark Passion. Sei una figura fondamentale all’interno della nave, lo sai questo? Sei quello che ogni giorno ci protegge dalle sirene e dalle altre creature sovrannaturali, sei quello che confonde i nemici durante gli arrembaggi. Abbiamo vinto molti velieri grazie alla tua superiorità rispetto agli altri maghi di bordo.»
Tutta quella pioggia di elogi lo esaltò, ma prima di tutto lo confuse e lo allarmò. Non sapeva dove lei voleva andare a parare, ma sicuramente non si trattava di nulla di conveniente. Decise così di mantenersi sulla difensiva.
«Svolgo solo il mio compito. Sono contento che il mio lavoro venga apprezzato» mormorò, incerto.
La cantante si prese qualche attimo per osservarlo, intensamente. Sì, era veramente un ragazzo prodigio; e a vederlo non gli avrebbe dato un soldo.
«Come te la cavi con le illusioni e il burattinaggio?» domandò.
A quella domanda, lui sussultò.
«Capitano, illusioni e burattinaggio sono proibiti
La voce di lui si era abbassata di parecchio.
Lei sbuffò, e gli scoccò un’occhiata aspra.
«Ti ho chiesto come te la cavi, non quello che ne pensa l’Imperatore.»
Kian si guardò ripetutamente intorno prima di parlare. Quando tornò con lo sguardo a lei, però, aveva gli occhi che brillavano.
«Sono più semplici di quello che mi aspettavo. Riesco a creare qualsiasi tipo d’illusione, e le immagini più semplici riesco anche materializzarle. In quanto al burattinaggio, modellare l’argilla mi riesce facile, ultimamente mi vengono risultati sempre più particolareggiati… poi, muovere il burattino è in sé una passeggiata.»
Anette annuì.
«Riusciresti quindi a coprire l’assenza di due persone…?»
«Beh sì, sì, non sarebbe affatto una cosa impossibile, basterebbe…» si interruppe proprio quando stava per lanciarsi in un’entusiastica e particolareggiata descrizione dei metodi.
Aggrottò la fronte.
«Perché questa domanda, capitano?»
Lei prese un respiro profondo. No, non poteva più tornare indietro, adesso. Avrebbe dovuto andare fino in fondo.
«Tu sei l’unica persona, su questa nave, di cui mi posso fidare.»
Aveva lo sguardo puntato su di lui, ed era uno sguardo straordinariamente grave.
Kian sobbalzò all’indietro. Non capiva il senso di quelle parole, e l’osservava atterrito.
«C’è… il vicecapitano…»
«Julius dovrà venire con me.»
Il senso di quella frase lo colpì dritto al cuore, Kian scuoteva la testa fissandola con gli occhi sbarrati, non voleva crederle.
«Non potete abbandonare la nave!» urlò, sconvolto.
«Per carità, abbassa la voce!» esclamò Anette.
Lui ammutolì, ma l’espressione sul suo viso non mutò. Lei sospirò.
«Hai ragione, non posso. Per questo mi serve il tuo aiuto: nessuno dovrà saperlo, altrimenti si scatenerà il finimondo a bordo.»
Inspiegabilmente, Kian si calmò. Si portò una mano alla fronte, deglutì più volte. Sembrava una statua di sale, ma Anette poteva benissimo notare il suo petto, quasi ansimante, sicuramente un riflesso del ritmo frenetico del suo cuore.
Infine, alzò lo sguardo color nocciola su di lei.
Era così giovane… con che coraggio lo stava trascinando in questo? Disobbedire deliberatamente ad una delle Regole D’Oro Imperiali era un reato atroce.
Atroce, perché atroci erano le pene per i trasgressori…
Ah, al diavolo.
Era giovane, ma era un pirata; erano i rischi del mestiere.
Cercò con la sua pallida giustificazione di sentirsi meno in colpa, ma sapeva perfettamente che non ci sarebbe riuscita.
«Dunque, dovrei muovere due burattini raffiguranti voi e Jukka? Dovrei gestire io la nave? Per quanto tempo?»
Giusto, ottima domanda. Per quanto tempo? No, non lo sapeva quanto tempo sarebbe durata quella follia.
E se non fosse ritornata affatto?
Se fosse morta, o risucchiata in quella realtà alternativa di cui i suonatori farneticavano?
«Ho capito.» disse lui, nel notare il suo silenzio. Prese un respiro profondo; una nuova consapevolezza nasceva nei suoi occhi castani da ragazzino. «Dovrò organizzare un’enorme illusione.»
Lei alzò lo sguardo pensoso su di lui, e trovò un largo sorriso ad accoglierla.
«Per giustificare l’assenza dei tre cantastorie. Prevedo un tuffo nel mare…»
Inizialmente, un’ombra di sorpresa le attraversò gli occhi: come aveva fatto a capire che i tre uomini che avevano catturato l’altro giorno sarebbero venuti con loro?
Poi, però, il suo volto si distese.
Il sorriso spensierato e divertito del ragazzo si rifletté anche sul volto di Anette, che si protese a sfiorargli un braccio.
«Grazie Kian… sapevo che avrei potuto contare su di te»
Lui si alzò e si avvicinò alla porta.
«Potrete sempre contare su di me, capitano.» fu la sua risposta.
«Partiremo questa notte.» aggiunse lei.
Lui si azzardò a farle un occhiolino, salvo poi arrossire e distogliere lo sguardo.
«Le danze cominceranno domani, allora.»
Un ultimo sorriso, prima di uscire nel bel mezzo dei raggi del sole mattutino che avevano invaso il ponte.
Anette sospirò, afflosciandosi sulla sua sedia.
Ammirava quel ragazzo. Non le aveva posto una sola domanda, anche se ce ne sarebbero state miliardi da fare, solamente per fiducia, devozione, lealtà… ancora non si capacitava di come aveva fatto a finire in un giro malfamato come quello. Non era il posto per ragazzi come lui.
Oh, andiamo. Doveva smetterla di pensarci. Doveva smettere di lasciare che lui con quei suoi modi di fare da ragazzino risvegliasse il suo sopito istinto materno.
Non aveva bisogno di altre preoccupazioni, quelle per il suo prossimo futuro le bastavano già.
Il suo prossimo futuro. Quella notte.
Che cosa avrebbe trovato sulla terra?
Nulla di buono, sicuramente.
Si prese la testa tra le mani, tentando di trovare dentro di sé la forza per compiere quel passo così importante.
Eppure, tutto era già stato fatto. Ora, non le restava che aspettare.

Fu così che passarono le ore.
In tutti – Jukka, Tuomas, Marko, Emppu, Anette, Lisanna, Kian – viveva inquieta la trepida consapevolezza di ciò che sarebbe presto accaduto. La cosa terribile, e ironica, di tutto ciò era che si trattava di una consapevolezza solo parziale. Sapevano che cosa avrebbero fatto… ma cosa sarebbe accaduto? Quello ancora era loro ignoto.

Arrivò infine la notte.
Verso l’una, cinque fuggitivi si trovarono clandestinamente in un angolo buio del ponte, nascosti da una pila di cassoni, una scialuppa di quelle di salvataggio era stata già calata ed ora ondeggiava placida in balia delle acque d’inchiostro che si agitavano sotto di loro.
Nessuno parlava; tutti erano preda di un nervosismo quasi incontrollabile, ed erano costretti a tenerlo a bada finché non fosse arrivato chi stavano aspettando.
I quattro uomini sfoggiavano quattro mantelli neri identici, che portavano con i cappucci tirati sul capo a nasconderne i volti. Lisanna si era incollata alle casse, forse la più impaurita di tutti, con il suo abito verde scuro e il mantello nero simile a quello dei suoi compagni. Mancava solo Anette.

Era il momento.
Anette si sistemò il cappuccio sul capo e prese un lungo respiro profondo.
Lei era il capitano. E stava per abbandonare la nave. Teoricamente, avrebbe dovuto seguirla anche nell’affondare. E invece…
Cercò di non pensarci. Ci sarebbe stato Kian a mantenere il controllo per lei; non poteva rimandare quel viaggio, era troppo necessario. Per schiarirle la mente, per toglierle ogni dubbio.
E dopo, dopo sarebbe tornata dalla sua nave, e più nulla – solo la morte – l’avrebbe separata dalle sue travi e dalle sue vele.
Controllò per l’ennesima volta il proprio armamento. Quattro pugnali da lancio dietro la schiena, altri sei coltelli negli stivali – tre per gamba –, una lama uncinata nella manica sinistra e l’immancabile sciabola al fianco.
Sì, c’era tutto.
Deglutì, strinse con tutta la propria forza la maniglia della porticina della propria cabina, poi l’aprì e si affacciò fuori.
Si guardò intorno con aria furtiva, per capire se era stata vista da qualcuno.
Ecco, quello che aveva temuto: un’ombra appoggiata al muro.
Sobbalzò, osservando il profilo dell’uomo sinistramente nascosto dalla penombra della notte, ma si rilassò nel riconoscere il naso dritto e la bocca dalle labbra sottili del mago di bordo.
«Kian!»
La sua voce era un lieve sussurro nella notte, un soffio quasi impercettibile.
«Che cosa ci fai qui? Dovresti essere nella tua cabina, non erano questi i piani!»
Nessuna risposta.
Si avvicinò lentamente alla sua figura, in modo da poterlo osservare meglio.
E quando lo vide in volto, sbiancò, portandosi le mani alla bocca.
Quello che aveva davanti era solo il cadavere del ragazzo, un cadavere per il quale nessuno aveva avuto il minimo rispetto.
All’altezza della gola si apriva un raccapricciante taglio orizzontale, che doveva aver versato molto sangue, ma che ora rimaneva orribilmente asciutto. La testa era reclinata di lato in una posa innaturale, come se avesse spezzato l’osso del collo, ed era costretto in quella penosa posizione eretta da un sistema di funi e coltelli conficcati in molti punti. Persino le mani, quelle mani ancora da bambino, erano state trapassate da due grossi spuntoni di ferro e bloccate così allo scafo della nave.
Gli occhi nocciola erano aperti, orrendamente vacui.
Anette aveva perso la voce.
Non riusciva a staccare lo sguardo da quello spettacolo raccapricciante, non voleva staccare lo sguardo, perché un’insopportabile vocina nella sua testa le stava urlando disperata che quella morte tremenda era dovuta solo a lei, e al suo egoismo.
Allungò una mano dalle dita tremanti verso il suo volto, per poter almeno chiudergli le palpebre ed evitare di incontrare il suo sguardo perso nel vuoto, ma non riuscì mai a compiere quel gesto.
Un uomo l’aveva afferrata alle spalle, e si ritrovò a rotolare con lui lungo il ponte della nave.
L’adrenalina la svegliò dallo shock della vista del cadavere del ragazzino, ma ogni suo sforzo di liberarsi fu vano: l’aggressore era parecchio più forte di lei, e la sua presa era eccellente. Doveva essere un vero esperto di lotte corpo a corpo.
Con la coda dell’occhio, lei fece in tempo a scorgere altre tre figure di uomini imponenti dirigersi verso di lei, e fu allora che capì di essere in serio pericolo.
«Sorpresa, capitano
L’alito del pirata era un soffio di puro alcool, che invase in pieno con il suo fetore il volto della donna tenuta ferma sotto di lui. Aveva pronunciato il grado come se fosse una battuta molto divertente, e lei non poté che serrare i denti.
La rabbia le stava montando in corpo come un incendio affamato ed indomabile.
Prima la morte di un ragazzino innocente, e poi questo.
Aveva riconosciuto la voce del suo aggressore: Jeremy Webb, uno a posto, uno che aveva sempre combattuto bene, che mai si era esposto, mai le aveva dato da pensare.
Una sola parola le trillava nella testa.
«Perché?» domandò tra i denti.
Quell’alito disgustoso ondeggiò in una risata roca, che per poco non la fece svenire.
«Perché questa nave è mia, bellezza. È sempre stata mia. Mi è stata promessa, ed ora ho finalmente intenzione di prendermela. E non sarà una puttanella che gioca a fare la guerriera a fermarmi.»
Anette sorvolò sull’insulto, prendersela per una cosa simile in una situazione del genere sarebbe stato davvero stupido. Erano state le altre sue parole a preoccuparla. Che cosa significava che gli era stata promessa la nave? Chi gli avrebbe mai potuto fare una tale promessa?
«Vuoi impadronirti della nave e liberarti di me. D’accordo. Ma Kian? Kian cosa c’entrava?»
Un momento di bruciante attesa, un momento in cui lei temette di vederlo cambiare idea, e piantarle una lama nella schiena, senza spiegarle nient’altro. Non avrebbe mai sopportato di morire così, nell’ignoranza, come uno stupido burattino.
Per fortuna quella sera Webb aveva un’evidente voglia di sprecar fiato.
«Dovresti saperlo. Burattinaggio e illusionismo sono pratiche proibite.»
Le si gelò il sangue nelle vene.
L’Imperatore.
Era stata così sciocca a pensare di potergli sfuggire vivendo in mare… l’Imperatore era ovunque, si era persino infiltrato nel suo equipaggio.
Un cieco terrore le attanagliò le viscere, paralizzandola pateticamente sul pavimento di legno.
Lei non poteva combatterlo: l’Imperatore era invincibile.
«La Dark Passion era l’unica nave pirata a non essere ancora sotto il controllo del Divino. Ironia della sorte, era anche la più forte; questa cosa lo infastidiva parecchio.»
Il Divino. Uno dei tanti appellativi che si era auto conferito. Rabbrividì.
«E Willson?»
Aveva improvvisamente perso la voce, era diventata debole e roca, come debole e roco era il suo coraggio di fronte alla terribile figura del Divino.
Quella domanda provocò un’altra breve risata, ovvero un’altra ventata di alcool dritta in faccia.
«Willson! Hah! Lui era solo un gran pezzo di idiota, anche se la sua stupida ribellione ci è stata molto utile. Credevi che, eliminato lui, non ci sarebbero più stati problemi, vero?»
Lei si rifiutò di rispondere, anche perché era una domanda drammaticamente retorica. Era stata giocata, ma quel che era peggio era il modo in cui si era lasciata giocare. Come una stupida, come una dilettante.
Ma non sarebbe morta in questo modo.
Sarebbe morta combattendo.

«Oh, insomma, a quest’ora avrebbe dovuto essere già arrivata!»
Tuomas camminava avanti e indietro, inquieto. Il suo tono di voce, per quanto basso, tradiva il nervosismo che gli stava rodendo dentro e che lui non riusciva a tenere a bada.
Non era un piano facile, l’aveva sempre saputo. Ci sarebbero stati milioni di difficoltà, miliardi, e non c’era bisogno che Anette decidesse di complicare ulteriormente le cose con uno stupido ritardo.
«Scommetto che tra meno di cinque secondi una decina di pirati sarà qui.» decretò Marko, appoggiandosi tranquillamente con la schiena ad una delle casse ed incrociando le braccia.
Nessuno lo ascoltò, ma a lui più di tanto non importava.
«Anette non è mai in ritardo.» ribatté Jukka, nervoso almeno quanto l’illusionista.
Il suo sguardo continuava ad andare dalla scialuppa sotto di loro allo spiazzo di ponte vicino alla cabina del capitano, nel vano tentativo di scorgere qualcosa nel buio totale della notte.
«Quattro…»
Tuomas si fermò di bottò nella sua camminata isterica, per scoccare al batterista uno sguardo di fuoco.
«Ma davvero? Beh, si dà il caso che stavolta lo sia!»
«…tre…»
Il tastierista tornò a muovere i suoi passettini scattosi in cerchio, scuotendo la testa ed agitando le mani,
«Impossibile! Mi sembra di essere come quella volta… a quel concerto da incubo… dov’era, Emppu?»
Si girò verso il chitarrista, seduto con aria sconfortata sul bordo della nave, sembrava il più calmo di tutti insieme a Lisanna, che non aveva detto una parola ma che continuava a fissare angosciata il buio attorno a loro, e a Marko che non desisteva nel suo solitario conteggio.
«…due…»
«Quella volta non era in ritardo, era il furgone che aveva avuto un guasto.»
Malgrado la situazione, Emppu si stampò in volto un ghigno divertito e lanciò a Tuomas un’occhiata di striscio.
«Mi ricordo, eri isterico più o meno come adesso, perché su quel furgone viaggiava la tua tastiera.»
Ridacchiò, ripescando la scena nella propria memoria.
«Sembravi una primadonna capricciosa.» aggiunse, sghignazzando.
«…uno…»
Tuomas frenò il divertimento dell’amico con un’occhiataccia.
«Beh, ti informo del fatto che adesso non c’è solo una tastiera in ballo, c’è la vita
Il tono acido dell’illusionista non piacque molto ad Emppu, a cui scomparve in fretta il sorriso sul volto.
«Oh, andiamo! Davvero pensi che staremo molto meglio in qualche palude putrescente piuttosto che su questa nave?»
«Può darsi che nelle paludi putrescenti riusciremo ad andare da qualche parte, mentre rimanendo qui non faremmo altro che vagare per il mare come cinque idioti! E poi, scusa, cos’hai contro le paludi putrescenti?»
A quel punto, anche Julius sbottò.
«E voi due, vi rendete conto del fatto che state litigando per delle cretinate mentre Anette ancora non si fa vedere?!»
Calò il silenzio.
Tuomas ed Emppu si guardarono l’un l’altro, sentendosi più che mai colpevoli. Jukka aveva ragione: An ancora non arrivava, ed era seriamente il caso di preoccuparsi.
Marko, incurante del resto, si sporse da dove si era appoggiato per guardarsi insistentemente intorno.
«Ma come, non sono arrivati?»
Questa volta, il suo borbottio fu sentito perfettamente da tutti, che involontariamente si voltarono verso di lui, che ricambiò con uno sguardo rilassato.
Il batterista stava per avere qualche parola buona anche per lui, ma non fece in tempo ad aprire bocca che vide lo scintillio delle lame brillare tutto intorno a loro, e sbiancò.
«Voi quattro non andrete da nessuna parte.» esordì una potente voce maschile. Il tono era lo stesso di un felino che ha già notato una facile preda.
«Ah, ecco, mi sembrava.» aggiunse tranquillamente Marco, mentre sguainava con calma la propria ascia come se non avesse mai fatto altro in vita propria.
In effetti, forse lui davvero non aveva mai fatto altro in vita propria.
«Tuomas, dai la tua spada ad Erno. Tu te la caverai sfoderando quelle tue diavolerie magiche – spero –.»
«Come, “speri”?» domandò allarmato l’illusionista mentre passava la propria arma al compagno, ma Marko non l’ascoltò.
Fece invece per girarsi, e dire qualcosa a Jukka, ma il vicecapitano era scomparso.
Il guerriero si guardò intorno, nel tentativo di scorgerlo nel buio, ma un grido lo distolse immediatamente dalla sua ricerca.
Com’era tipico dei codardi, avevano deciso di prendersela con Lisanna, la più debole, l’unica disarmata.
La calma negli occhi azzurri del bassista di trasformò in una cupa minaccia che prometteva morte.
«Ah, pessima mossa. Davvero pessima. Lei non si tocca.» sussurrò lui mentre si lanciava all’attacco con la pesante lama della scure che brillava mortale nella notte.

Un grido di donna.
Anette alzò gli occhi, ansimando, verso il buio del ponte che si estendeva sotto di lei.
Era riuscita ad uccidere due dei tre uomini che avevano accompagnato Webb, ma lui e quello che rimaneva erano davvero difficili da contrastare, e lei cominciava a perdere le forze.
Era stata appena gettata contro una delle pareti dello scafo, e non era ancora riuscita a rialzarsi.
Una ferita alla gamba destra continuava a sanguinare e a farle perdere l’equilibrio, il braccio colpito il giorno prima dall’uomo di Willson era tornato a crearle problemi – già si aspettava di vedere la benda nuovamente inzuppata di sangue – e le si era appena formato un grosso livido sullo zigomo destro, sotto l’occhio.
Ed ora, quel grido.
Sapeva esattamente che cosa stava a significare: l’equipaggio aveva trovato gli altri, li aveva colti di sorpresa.
Si diede della stupida.
Davvero, quella sua decisione li avrebbe portati tutti alla morte? Prima Kian, poi loro…
No. Non doveva abbandonarsi ai sentimentalismi. Doveva combattere. Doveva morire. Con onore, come un vero capitano avrebbe fatto.
Tentò di mettersi in piedi, ma un forte calcio all’altezza dello stomaco la rispedì da dov’era venuta.
Non riuscì nemmeno a frenare i violenti colpi di tosse che le impedivano convulsamente di respirare, per recuperare quel minimo di dignità di cui aveva bisogno.
I due uomini torreggiarono su di lei; i loro volti sadici e sorridenti si confondevano e si sovrapponevano, e allora lei lo capì.
Era perduta.
Gettò la sciabola, pronta ad affrontare il proprio destino: sapeva riconoscere una sconfitta, e sapeva accettarla.
Non vide molto.
Lo scintillio del metallo alla luce della luna, e dopo si costrinse a chiudere gli occhi.
Udì un lancinante grido di dolore.
Ma non era il proprio.
Anette riaprì gli occhi stupita, e vide un uomo giacere a terra davanti a sé, morto, un lungo spillone di metallo gli trapassava il cranio. Abbassò lo sguardo, e notò una scia di sangue che si allontanava. Webb era fuggito… ma da chi?
La cantante si rialzò, impugnando nuovamente la sciabola.
Una bandana nera emerse dal buio, e un paio di occhi terribilmente preoccupati sotto di essa.
«Dio mio, Anette!» esclamò Jukka, correndo verso di lei.
Il sollievo di vederlo lì, al suo fianco, fu un’emozione talmente forte da travolgerla e stordirla. Ringuainò l’arma, ma non riuscì a sorridergli, come sempre faceva dopo essersi ritrovata in pericolo di morte.
«Cos’è successo?» domandò lui, soffermandosi con lo sguardo sul livido che le si allargava sotto l’occhio e sul sangue che le sporcava gamba e braccio.
Stava per chiederle qualcos’altro, ma ammutolì quando i suoi occhi caddero sul cadavere di Kian poco lontano.
«L’ha presa, Jukka. L’Imperatore. Mi ha preso anche la nave.» gli disse, in sussurro.
Nei suoi occhi si mischiavano dolore e determinazione, cosa che lui non mancò di notare.
«Dobbiamo andarcene. Tutto l’equipaggio è con lui!»
Lei scosse violentemente la testa.
«Vai tu. Io devo rimanere qui.»
«Ma che cosa diavolo stai dicendo?» esclamò Julius.
La afferrò per un braccio, costringendola a guardarlo.
«Vuoi batterti contro l’intero equipaggio, adesso, in queste condizioni, da sola? Sei impazzita? È morte certa!»
Il tono della sua voce rasentava la disperazione, ma a lui non importava.
«Non mi interessa. Questa è la mia nave, l’Imperatore pagherà un alto prezzo per averla, non gliela concederò su un piatto d’argento dandomi alla fuga!»
Per poco il batterista non scoppiò in una risata isterica.
«Ma tu davvero credi che all’Imperatore importi qualcosa di quanti uomini riuscirai a trascinare con te all’inferno?! Dai, Anette, non essere ridicola! Entrambi sappiamo perfettamente che lui della vita umana se ne infischia.»
Lei non rispose nulla, ma non lo guardò. Osservava l’orizzonte, con la stessa grave tranquillità di chi ha deciso del proprio destino.
«An, ascoltami, ti prego. Ti prego. Noi non siamo eroi. Noi siamo solo pirati. Ti prego, vieni via.»
A quelle parole, lei annuì.
«Hai ragione, noi siamo pirati. Ed io sono il capitano.»
Julius abbassò la testa. I suoi pugni erano serrati, tremavano.
«D’accordo. Come vuoi.» mormorò tra i denti.
E quando tornò a guardarla, l’espressione che brillava nei suoi occhi era glaciale e terribile.
«Alza quella sciabola e difenditi, Anette.»

Sul ponte della nave, la battaglia infuriava.
Emppu se la cavava come meglio poteva con in mano la splendida spada di Tuomas – anzi, si era stupito di essere riuscito a respingere e ferire così tanti pirati senza mai essere sfiorato da una sola lama, nonostante la sua assoluta incapacità nell’arte di tirar di spada.
Marko combatteva come un demonio, la sua ascia grondava sangue eppure ne voleva ancora, e ancora, e ancora, e ancora, e lui era felice di assecondarla con un sorrisetto di soddisfazione ed esaltazione stampato in volto. Non si allontanava mai più di un metro e mezzo da Lisanna, che aveva preso da chissà dove una lunga asta di legno dalla punta acuminata e lo aiutava come poteva.
Tuomas… beh, Tuomas aveva appena fatto comparire un enorme calamaro, i quali tentacoli stavano annichilendo la maggior parte dei pirati che si erano accorti dell’accaduto.
«E quello cosa sarebbe?!» gli urlò un Emppu molto spaventato dall’altra parte del ponte.
«E’, ehm, la prima cosa che mi è venuta in mente» fu la sua risposta.
Non sapeva da dove mai potesse essere venuta una trovata simile, ma l’idea cominciava a piacergli. Forse avrebbe dovuto inserirlo in una delle sue canzoni.
Si appuntò l’idea in un angolo della mente, per poi dimenticarsene e cercare di renderlo corporeo.
Si concentrò, ma l’unico effetto fu che l’immagine proiettata dalla sua mente tremolò appena.
Ah, fantastico.
Aveva creato un calamarone inutile, incorporeo e tremolante.
Fece per rinunciare, e magari andare a nascondersi dietro Marko mormorando qualsiasi preghiera di qualunque religione gli venisse in mente, ma non fece in tempo a sfiorare l’idea che un tentacolo si abbatté sulla nave e strinse nelle proprie ventose una manciata di pirati, che urlarono come mai avevano fatto nella propria vita.
Tuomas si girò, con gli occhi talmente sbarrati da far temere che gli potessero schizzare via da un momento all’altro.
Altro che inconsistente, quel coso era consistentissimo. E sembrava pure che si stesse divertendo come un matto.
«Come hai detto che si chiama?» chiese Marko mentre faceva cadere la propria scure sul cranio di un poveretto che passava di lì, rompendoglielo in due.
«Kraken» rispose, osservando il calamaro gigante che afferrava e uccideva manciate di pirati urlanti.
«Comodo» fu il commento del guerriero.
L’illusionista sorrise e si appoggiò ad una cassa, rilassato.
Non l’avesse mai fatto.
Davanti a lui comparve un uomo enorme, sanguinolento e molto molto arrabbiato.
Il suo pugno lo colpì in pieno viso, e fu così forte da fargli compiere una specie di piroetta prima di crollare pesantemente a terra. Quando rialzò lo sguardo, cercando intanto di fermare con una mano il flusso di sangue che gli stava sgorgando da una narice, vide la sua bellissima creazione tremare talmente violentemente da scomparire.
Tuomas si fece prendere dal panico. Ora era del tutto disarmato, e non aveva idea di come fare a richiamare una cosa simile. Si concentrò più che poté sull’immagine della propria spada, magari nella speranza di vedersela spuntare in mano, ma il suo maldestro tentativo fu interrotto da un acuto grido di rabbia che squarciò la notte con il suo impeto.
Si fermarono tutti, allarmati; temevano per l’arrivo di qualche creatura sovrannaturale… non sarebbero stati preparati a fronteggiarla, così impegnati a massacrarsi tra di loro.
Ma dopo qualche attimo spuntò Jukka, mentre trascinava con sé un’Anette decisamente sconvolta, che tentava in ogni modo di prenderlo a pugni. E a quanto sembrava c’era anche riuscita, dati i lividi che il vicecapitano esibiva sul viso e sulle braccia, e il lungo taglio superficiale che gli attraversava il fianco.
«Ma che è successo?» domandò Marko, osservandoli con uno sguardo talmente perplesso da risultare quasi buffo.
«Non è il momento di parlarne, credo. Tagliamo la corda, alla svelta.» fu la risposta di Julius.
Tuomas annuì, serio.
«Seguitemi.» disse, e gli altri non ci pensarono su due volte ad ubbidirgli.
Tutti e sei corsero così verso la balaustra, la scavalcarono con agilità e si tuffarono negli abissi del mare notturno.
Tutti i pirati rimasti accorsero a guardare cosa ne era stato di loro, ma invano.
Mai più nulla venne a galla.

Marko aveva preso per sé i remi della scialuppa ed ora li manovrava con tutta la forza che aveva, tentando di allontanarsi il più in fretta possibile dalla enorme e terribile nave pirata, che però rimaneva stranamente immobile, placida, come se non avesse appena perso sei dei loro prigionieri più importanti.
Il merito di tutto questo disinteressamento era dovuto solo a Tuomas: era stato lui a schermare la loro fuga, a creare l’illusione del loro tuffo, della loro morte, mentre invece loro stavano scappando su una scialuppa, dalla parte opposta della nave.
Quando furono abbastanza distanti da sentirsi al sicuro, Marko si concesse un attimo di riposo e rallentò il ritmo.
Calata l’adrenalina, ora potevano guardarsi in faccia, riconoscersi l’un l’altro, sorridersi. Quella partenza avrebbe dovuto essere molto meno movimentata, lo sapevano, ma il risultato era lo stesso. Loro, da soli, su una scialuppa, verso l’ignoto.
La più sconvolta era Anette, rannicchiata in un angolo, tremante, aveva rifiutato l’aiuto e lo sguardo di tutti.
Jukka la osservava con sguardo grave, come se si sentisse responsabile del suo stato d’animo; nessuno aveva più capito cosa fosse accaduto tra loro quando li avevano persi di vista, ma ebbero il buon gusto di non fare alcuna domanda.
Almeno, finché la cantante non alzò uno sguardo pieno d’odio sul batterista, e non tentò di scagliarsi su di lui e prenderlo a pugni.
Per fortuna, ci fu Tuomas ad afferrarla e trattenerla prima che lei gettasse l’ex vicecapitano fuori bordo, ma lei si divincolava con una veemenza che lo sorprese.
«Tu!» urlava. «Come hai potuto! Come hai potuto!»
«Ti ho salvato la vita.» fu la risposta di lui.
Neanche Tuomas fu più in grado di tenerla, così che lei poté raggiungere Jukka e afferrarlo per il bavero. Lui non oppose resistenza mentre lei lo tempestava di pugni, sempre più deboli, mentre le lacrime nei suoi occhi si accumulavano come muri d’acqua che rendevano liquido e distorto il mondo che la circondava.
«Non è vero! Non è vero! Quella nave era la mia vita!»
E quando lei si afflosciò su di lui, scossa dai singhiozzi, arrivò il tastierista a portarla via e prenderla tra le braccia, dove lei si rifugiò. Si aggrappò al suo petto con tutte le sue forze, piangendo una disperazione che non poteva avere nome.
«Quella nave era la mia vita… era tutta la mia vita…» continuava a ripetere tra le lacrime, senza pace. «Io ero… ero il capitano… era mio dovere morire con lei…»
E allora, tutti capirono.
Jukka si raddrizzò, pulendosi la guancia da un rivoletto di sangue, e guardò a terra con aria colpevole, ma trovò la mano di Emppu a stringergli la spalla. Si guardarono negli occhi per un attimo. Emppu sorrideva, incoraggiante. Hai fatto la cosa giusta, gli diceva lo sguardo sincero degli occhi azzurri, e Julius lo apprezzò, ricambiò il sorriso.
«Anette, ascoltami.» aveva sussurrato Tuomas all’orecchio della cantante, che tremava e si scuoteva come un albero al vento, rannicchiata contro di lui. «Io so quanto vali. Noi tutti sappiamo quanto vali, e tu non hai bisogno di nessuno, di niente, per dimostrare il tuo valore. Tu sei incantevole, bravissima, e molto più forte di chiunque tra noi. È per questo che ti abbiamo scelta.»
Nel sentire i suoi sussurri, lei si calmò. Alzò la testa verso di lui, e lo guardò smarrita con i suoi grandi occhi chiari, ora arrossati dal pianto.
«Tu mi hai già detto queste parole» mormorò tra sé.
Lui le sorrise, accarezzandole i capelli.
«Sì. Quando piangevi, perché non credevi di poter reggere il confronto con Tarja.»
Lei continuò a osservarlo senza capire.
«Davvero non ricordi?»
La cantante scosse stancamente la testa.
Un lampo di delusione attraversò lo sguardo grigio del tastierista, ma fu solo un lampo, e fu talmente veloce da non essere notato da nessuno.
«Non fa nulla. Oh, vieni qui, riposati. Domani saremo a terra.»
Rimasero così, abbracciati, su quella scialuppa che navigava piano verso qualcosa di inaspettato e spaventoso.
Si resero conto, guardandosi, di essere il gruppo di persone più eterogeneo che avesse mai avuto il coraggio di riunirsi e viaggiare.
Si resero conto, guardandosi, di essere il gruppo di persone più unito che avesse mai abitato il mondo – qualunque mondo, e qualunque dimensione –.
Si resero conto, guardandosi, di provare un affetto così profondo l’uno per l’altro da essere impossibile da spiegare a parole. Pur senza essersi mai conosciuti.








  
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