Anime & Manga > Kuroshitsuji/Black Butler
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Autore: Evazick    02/06/2012    2 recensioni
Voleva urlare, spalancare la bocca per prendere aria, ma non ce la faceva. Li sentì raggiungere i suoi occhi e entrare nella sua testa, attraversare la sua pelle come se fosse aria per raggiungere le parti più nascoste di sé stessa, e lei rimase completamente immobile, paralizzata e senza poter far nulla per fermare quell’incubo. La parte peggiore, pensò quando divenne cieca e non riuscì più a sentire il crepitio dell’incendio, era sapere che nessuno l’avrebbe salvata.
Da qualche parte in lontananza, un corvo gracchiò.

*
Inghilterra, 1889. Pomeriggio del 13 aprile. In un bosco poco fuori Londra, una ragazza si risveglia. Non ricorda nulla di se stessa, e l’unica cosa che ha con sè è la collana che porta al collo. Vagando in cerca di un indizio sulla sua identità si rifugerà in una villa signorile, dove verrà accolta da uno spaventoso maggiordomo e da un ragazzo sfuggente e arrogante. La ragazza non sa di essere finita all’interno di una trappola tesa da un pericoloso e demoniaco ragno, e si ritroverà inconsapevolmente a far parte di un gioco che metterà in pericolo la sua stessa vita.  
Genere: Introspettivo, Mistero, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alois Trancy, Claude Faustas, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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XIX. La verità è che avrei solo voluto salvarti.
 

 
Perché dovremmo uccidere qualcuno che è già morto?
Sembrava che nella sua testa non ci fosse spazio per altre parole, era come se quelle otto si fossero ingrandite a dismisura senza lasciare nemmeno un centimetro libero. Indietreggiò ancora, impaurita e tremante non solo per il freddo, senza mai distogliere lo sguardo dai due uomini davanti a lei, incapace di credere alle loro parole. Morta, lei? No, non era possibile, dovevano sicuramente sbagliarsi con qualcun’altra, lei non si era mai sentita così viva come in quei giorni. Non era morta, i morti non sentono il freddo o il caldo, e lei adesso stava tremando con il ghiaccio nelle vene. I morti non provano paura, non provano alcun sentimento, e la lunga lettera che aveva scritto dimostrava il contrario. I morti non sanguinano e non soffrono, e la cicatrice sulla sua guancia le ricordava in continuazione tutto il dolore che aveva attraversato. E allora, se credeva di essere viva, perché era convinta che ci fosse della verità in quella frase?
L’uomo coi capelli rossi sospirò, lasciò cadere la sua arma sull’erba e si tolse la giacca rossa, avvicinandosi poi a Lena. Lei fece per indietreggiare ancora, temendo che potesse farle del male, e si sorprese quando lui si limitò a gettarle la giacca sulle spalle per riscaldarla. Lo guardò stupita con gli occhi verdi spalancati, e lui ricambiò con uno sguardo inespressivo. “Credo che riuscirai a stare più attenta se non tremi, no?” Scambiò una veloce occhiata con Ronald, che teneva i gomiti appoggiati sopra il manico della sua strana arma, poi si rivolse di nuovo alla ragazza. “A questo punto immagino che tu non sappia nemmeno chi siamo.”
Annuì decisa.
“Deve aver preso una bella botta quando è caduta nel bosco, uh?” commentò l’altro con una risatina.
Il rosso lo mise a tacere con un gesto stizzito della mano e continuò: “Quando una persona sta per morire, la sua vita e la sua anima vengono giudicate per decidere se possa continuare ancora a vivere o se debba morire. Penso che siano stati graziati solo in pochi, ma non è questo il punto.” Fece un altro gesto con la mano, come se volesse interrompere le sue stesse divagazioni. “Gli Shinigami sono coloro a cui è stato affidato questo compito, e noi siamo due di loro. Le nostre armi possono tagliare qualunque cosa e grazie ad esse possiamo esaminare i ricordi delle persone per giudicarle.” Sospirò. “Ma per quanto stiamo attenti a lavorare nel modo giusto… bè, diciamo che a volte ci scappa il morto. Letteralmente. Ci ritroviamo tra i piedi anime di persone che sono morte per sbaglio al posto di qualcun altro e di cui non sappiamo cosa farcene. Se non si può rimediare in nessun modo, se non possiamo riportare in vita questi morti, allora prendiamo le loro anime con noi per assisterci nel nostro lavoro fino al giorno della loro vera morte. Restituiamo loro il loro corpo dopo averlo reso di nuovo presentabile, ma non potranno mai tornare umani, perché dentro di loro, dentro i Numbers, il sottile filo che lega anima, corpo e vita si è spezzato per sempre. Possono provare sentimenti e comportarsi come normali esseri umani, ma è come se fossero morti viventi.” Sorrise a trentadue denti in modo inquietante. “E tu, ragazzina, sei una di loro.”
Il mondo le si sgretolò in migliaia di frammenti davanti agli occhi. La vista le si fece confusa e la testa iniziò a girarle, ma per quanto cercasse di calmarsi sapeva che non ci sarebbe mai riuscita. Sembrava tutto maledettamente plausibile, ma lei si sentiva viva, non poteva essere morta. Lei non era uno di questi ‘Numbers’, era una persona come tutte le altre con una forte amnesia. Strinse la collana con ancora più forza nel suo pugno e mormorò, sul punto di crollare: “No, vi sbagliate. Vi state sbagliando, io sono viva, questa collana può dimostrarlo. C’è incisa l’iniziale del mio nome, io…”
“Al contrario, ragazzina, la tua collana è l’unica prova certa che tu abbia di essere morta,” la interruppe Ronald. “Ad ogni Number viene assegnato un numero che diventerà anche il suo nuovo nome, e per far sì che non se lo scordi mai gli diamo una collana come la tua con il suo numero inciso sopra.” Indicò il gioiello con un dito. “Quella L non è l’iniziale del tuo nome, ma il numero cinquanta in cifre romane. Tu sei Fifty, il Number numero cinquanta.”
Mentite!” urlò, prendendosi la testa tra le mani e rannicchiandosi su sé stessa come se volesse proteggersi da quella verità. “Io ho una famiglia che mi aspetta da qualche parte! Ho visto mio fratello nei miei sogni, lui è ancora vivo e mi sta aspettando!”
“Tuo fratello?” chiese l’uomo coi capelli rossi senza smettere di sorridere. “Vuoi dire… Oliver?”
Non appena sentì quel nome qualcosa scattò nel suo cervello, una serratura rimasta chiusa troppo a lungo che finalmente si apriva. Gli occhi le si spalancarono e lei cadde nel buio, inghiottita dai ricordi.
 

 

***

 
Aveva nevicato un sacco in quei giorni. La tormenta era durata tre o quattro giorni e, quando si era placata, aveva lasciato uno spesso e soffice manto bianco sui tetti e sulle strade di tutto il paese. Non appena spuntò un timido raggio di sole tra le nuvole, tutti i bambini si precipitarono fuori dalle case e si riversarono nelle strade, perlopiù da soli o accompagnati da qualche fratello o sorella più grande. Oliver era tra uno di questi, e Lena si era seduta su delle casse accatastate poco lontano per tenerlo d’occhio. Osservò la scena con più chiarezza di quando l’aveva vista dentro la vasca da bagno: i volti dei bambini erano ben visibili, e riusciva perfino a riconoscerne qualcuno. C’era il figlio della loro vicina di casa, la bambina per cui Oliver aveva una piccola cotta, i due gemelli di sette anni che preferivano giocare da soli in un angolo più appartato della strada. Non avrebbe saputo dire i loro nomi, ma sapere chi erano era già un passo avanti per la sua amnesia.
La neve ricominciò a cadere con meno intensità delle volte precedenti, come se avesse già disturbato troppo la quiete e volesse essere più discreta e silenziosa. Lena tese il palmo e osservò i fiocchi caderle sopra il guanto mentre i bambini continuavano a giocare come se niente fosse. Tirò fuori la lingua e lasciò che la neve ci cadesse sopra, facendola rabbrividire e allo stesso tempo sorridere. Riportò il suo sguardo sulla folla di bambini che giocavano davanti al cancello chiuso dall’altra parte della via, e trovò quasi subito la massa di folti capelli neri di Oliver, che stava giocando con il suo cerchio insieme ad un altro bambino. In quel momento stava ridendo, e i suoi occhi verdi, uguali a quelli della sorella e del padre, erano illuminati da una luce di vera e profonda felicità. La ragazza non potè fare a meno di sorridere a sua volta, provando un sincero affetto per quel bambino di cui possedeva soltanto quel ricordo, e rimase in silenzio finchè lui non si voltò verso di lei e le urlò con un sorriso speranzoso: “Sorellona? Posso rimanere fuori a giocare ancora un po’?”
Voleva rispondergli che poteva, ma il ricordo seguì il sentiero già segnato nelle pieghe del passato e Lena sentì la sua stessa voce dire in tono brusco: “No. Sta per fare buio, dobbiamo tornare a casa prima del tramonto.”
Oliver le rivolse uno sguardo pieno d’odio e tornò a giocare con i suoi compagni, probabilmente maledicendo tra sé e sé sua sorella. Lei sbuffò e si appoggiò con la schiena alla parete dietro di lei, chiedendosi perché gli avesse risposto in maniera così poco gentile. Poi, improvvisamente, lo seppe senza ombra di dubbio: d’inverno loro due avevano un coprifuoco per tornare a casa prima che il sole calasse del tutto e loro potessero perdersi tra le strade buie. Era stata la loro madre a imporlo, preoccupata che qualcosa potesse succedere a uno dei due, e ogni volta che tornavano a casa più tardi del solito era Lena a pagarne le conseguenze, la più grande, quella che doveva occuparsi del fratellino. Era una seccatura essere punita solo perché quel mocciosetto non le dava retta, ma in fondo gli voleva bene e per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Trascorsero altre due ore prima che il sole iniziasse a calare e la neve cessasse di cadere. Quasi tutti i bambini erano tornati al caldo delle proprie case, e le uniche persone ancora fuori in strada erano Lena, Oliver e altri cinque bambini che abitavano nelle vicinanze. Ormai spazientita dalla lunga attesa e dai continui richiami inascoltati, la ragazza chiamò un’ultima volta il fratello, ma lui fece finta di non averla sentita e continuò a giocare con il suo cerchio ridendo. La pazienza di Lena raggiunse il proprio limite, e lei scese velocemente dalla cassa, dirigendosi poi a passi pesanti verso il gruppo di bambini. Tutti si fecero da parte vedendola con quell’espressione scura in volto, tutti tranne il diretto interessato, che cacciò un urlo quando una mano lo afferrò bruscamente per un braccio e lo strattonò indietro, rischiando di farlo cadere nella neve fresca. La bacchetta con cui aveva giocato fino a quel momento cadde per terra, e Lena lo raccolse e se lo mise in tasca mentre Oliver urlava: “LASCIAMI ANDARE, LASCIAMI ANDARE! MI STAI FACENDO MALE!”
“Non osare alzare la voce quando parli con me!” replicò rabbiosa la ragazza. Lo strattonò ancora una volta. “Dobbiamo andare a casa prima che faccia buio, o stavolta verremo puniti tutti e due! Prendi il tuo maledetto cerchio e vieni con me!”
“NO!” Il bambino riuscì con un’agile mossa a sfuggire dalla presa della sorella, poi scappò via, lontano da lei, fino a fermarsi nel centro della strada innevata. Una volta lì si fermò, si voltò e fece una linguaccia alla sorella, urlando: “NON CI TORNO A CASA! VACCI TU SE HAI PAURA DI MAMMA!”
Lena fece un passo avanti, sentendosi provocata. “Sarà meglio che tu mi dia retta, Oliver, o giuro che ti trascinerò per le gambe fino a casa finchè non riuscirai più a sederti per una settimana! Dico a mamma che è tutta colpa tua se…”
Non fu in grado di finire la frase, sorpresa dall’improvviso rumore che proveniva da dietro l’angolo della via. Il tempo iniziò a muoversi al rallentatore quando nella strada apparve l’enorme figura nera di una carrozza a tutta velocità che si stava dirigendo verso Oliver. Il bambino osservò i cavalli che incombevano su di lui e che non davano alcun segno di volersi fermare, e Lena sentì il suo cuore perdere un colpo mentre vedeva suo fratello immobile, quasi ipnotizzato, incapace di spostarsi per evitare la vettura.
“OLIVER!” Senza pensarci due volte, percorse con due balzi la distanza che ancora li separava e, con una forte spinta, spostò il fratello dal percorso della carrozza, facendolo cadere su un mucchio di neve a bordo strada. Sospirò di sollievo e sorrise, felice di averlo salvato, ma si ricordò solo in quel momento di essere ancora in mezzo alla strada, a pochi metri dalla vettura. Si voltò nella direzione del veicolo con gli occhi verdi sbarrati, e dopo poco i cavalli la colpirono in pieno, calpestandola con i loro zoccoli. Dopo arrivarono le ruote della carrozza, e il dolore non accennò a diminuire: perdeva sangue dalle tante ferite che le erano state inflitte, e doveva essersi rotta più o meno tutte le ossa. C’erano delle schegge che le stavano penetrando dentro il cuore e i polmoni ad ogni respiro, uccidendola lentamente e dolorosamente. Le ultime cose che vide furono la carrozza che svoltava l’angolo in fondo alla strada senza nemmeno rallentare la sua corsa e la scia rossa che le sue ruote e gli zoccoli dei cavalli avevano lasciato sulla neve immacolata. Potè osservare tutto per un’ultima volta prima che il suo cuore la abbandonasse, facendola cadere nell’oscurità.
 

 

***

 
“Oh, mio Dio,” sussurrò a voce bassa, incapace di credere ai propri ricordi. Si rannicchiò ancora più sé stessa. “Oh, mio Dio. Mio Dio, no!
Prima ancora che potesse riprendersi, un altro incubo si fece largo con prepotenza nella sua testa, facendole ricordare qualcosa di ancora peggiore.
 

 

***

 
Quanto tempo era passato dal giorno della sua morte, da quanto era diventata una Number, sospesa tra vita e morte? Sinceramente non lo sapeva, aveva smesso di tenere il conto; ormai il tempo era una cosa relativa per lei, le cui leggi non la sfioravano e non la riguardavano più. Sarebbe potuta crescere mentalmente, pensare in modo più adulto, ma il suo corpo sarebbe rimasto quello di una quattordicenne. Non che la cosa le dispiacesse: a dir la verità, non sapeva come reagire a quella situazione così strana.
Si riscosse dai suoi pensieri non appena l’uomo ai suoi piedi immerso in una pozza di sangue esalava l’ultimo respiro. Il suo Cinematic Record si dissolse nell’aria dopo pochi minuti, lasciando Lena di nuovo da sola nel bosco insieme a Ronald Knox, lo Shinigami a cui era stata affidata sin dal primo giorno. Era una persona esuberante, Ronald, completamente un altro tipo rispetto a quegli Shinigami così arcigni, ligi al loro dovere e talmente gelosi del loro compito da non volere alcun Number al loro fianco. Si passò una mano tra i capelli, spettinandoli, poi si appoggiò al manico della sua Death Scythe imbrattata di sangue e si rivolse alla ragazza sorridendole. “Giornata piena di lavoro questa, eh, Fifty?”
Lena ricordò sé stessa dire qualcosa che fece ridere entrambi, poi abbassò lo sguardo sulla lista che aveva in mano chiedendosi perché non si ricordasse il suo vero nome, quello che le avevano dato i suoi genitori: quella era una porta ancora chiusa a chiave per lei, e chissà se avrebbe mai avuto l’occasione giusta per aprirla. Mentre rifletteva, agendo all’interno del ricordo e allo stesso momento osservando sé stessa dall’esterno, agitava la penna nell’aria mentre cercava il nuovo nome da depennare. Quando lo trovò fece per cancellarlo, ma non appena lesse la data di nascita del morto ai suoi piedi il cuore le balzò in gola. Deglutendo, lesse più avanti fino a trovare il nome del cadavere, e si sentì mancare quando lo riconobbe. Fece saltare il suo sguardo dalla lista all’uomo morto, incapace di credere a quello che stava vedendo, e dovette impallidire ulteriormente, perché Ronald le chiese, vagamente preoccupato e con la fronte aggrottata: “Fifty? Va tutto bene?”
Non può essere lui. Perché no? Il nome era lo stesso, la data di nascita coincideva, e perfino quegli occhi verdi che adesso fissavano il vuoto erano quelli che conosceva da sempre, quelli dello stesso colore dei suoi. I capelli neri si erano fatti grigiastri, ma i suoi occhi non erano cambiati e lui aveva ancora l’espressione innocente e un po’ monella di quando era bambino e giocava per strada in mezzo alla neve. Fece un passo indietro, sconvolta, mentre leggeva la data di morte, 13 aprile 1889: davvero erano passati così tanti anni? Era morta già da più di quarant’anni e non se ne era mai accorta? Ed aveva davvero assistito alla morte di suo fratello per infarto pochi minuti prima? Si voltò verso Ronald con un misto di rabbia, tristezza e stupore. “No, questo no,” mormorò tra sé e sé prima di chiedergli: “Tu sapevi chi era?”
Scrollò le spalle. “Avevo solo una vaga idea, ma non pensavo che foste imparentati davvero.”
“Hai giudicato l’anima di mio fratello davanti ai miei occhi senza dirmi niente!” urlò Lena, più per esserne certa che per sfogare la sua rabbia. Davanti all’espressione impassibile dello Shinigami, fece altri due passi indietro, scordandosi che dietro di lei c’era un dislivello. Sentì il vuoto sotto i suoi piedi e potè solo spalancare gli occhi, sorpresa, prima di iniziare a cadere. Ronald la chiamò e cercò di afferrarle la mano, ma non riuscì nemmeno a sfiorarla e la ragazza cadde nel vuoto. Cadde tra i rami degli alberi e i cespugli, lasciando la sua presa sulla lista e sulla penna, ma proteggendo sempre la sua collana, l’unica cosa che avrebbe potuto aiutarla a ritrovare il ragazzo. Quando riuscì a rialzarsi in piedi dopo la caduta, però, vacillò per un istante e cadde di nuovo, sbattendo la testa contro un sasso e lasciandosi inghiottire dalle tenebre.
Il resto lo sapeva di già, non c’era bisogno di aggiungere altro.
 

 

***

 
“Oh, mio Dio. Oh, mio Dio. Oh, mio…”
Non stava piangendo e sentiva che non l’avrebbe fatto, era troppo sconvolta anche solo per poter mormorare qualcos’altro. La giacca rossa dello Shinigami la proteggeva dal freddo della notte, ma non poteva fare niente per quel gelo che le scorreva nelle vene. Non riuscì a ricordare nient’altro per il momento, quello che aveva visto era stato sufficiente a lasciarla in un profondo stato di shock.
“Non appena ti ho persa di vista sono andato a cercare aiuto, ma quando sono tornato nel bosco avevamo già perso le tue tracce,” le spiegò Ronald, senza curarsi dello stato d’animo della ragazza. “Ti abbiamo ritrovata solo quando sei scappata dal bordello, ed è stato allora che abbiamo notato che sembravi aver perso del tutto la memoria. Abbiamo provato a fermarti per riportarti al quartier generale, ma tu sembravi impazzita, correvi e ci attaccavi con la forza e la rabbia di un animale braccato. Ti avevo quasi presa nel bosco, ma sei scappata prima che io potessi fare qualcosa e ti sei rifugiata nella villa di quel moccioso di Trancy. Avremmo potuto acchiapparti lo stesso, ma sarebbe stato troppo pericoloso per tutti.” Fece una pausa, riflettendo sulle sue ultime parole. “Non erano quel francese e i suoi uomini a preoccuparci, se è questo quello che pensi. Non potevamo avvicinarci al territorio di un demone senza usare la forza e senza gravi conseguenze.”
Qualcosa scattò nella testa di Lena, facendosi strada tra la nebbia dello shock. Alzò lo sguardo verso i due Shinigami e parlò con grande fatica, come se non avesse più voce: “Voi avete sempre saputo dove ero e non siete venuti a prendermi solo perché c’era…” Deglutì, e i suoi pugni si strinsero. “Claude?”
Lo Shinigami dai capelli rossi schioccò le dita. “Esatto!” Sorrise sornione. “Con tutte le anime che dobbiamo giudicare ogni giorno non avevamo tempo per andare a recuperare una Number qualsiasi. Abbiamo aspettato che la situazione peggiorasse, poi abbiamo deciso di agire nel modo più rapido possibile.”
Che la situazione peggiorasse. Quindi, se Claude non l’avesse rinchiusa nella sua camera, avrebbero continuato ad aspettare che il peggio arrivasse, magari che qualcuno le facesse seriamente del male o la uccidesse una seconda volta, se era possibile per quelli come lei. Ricordò in un breve momento cosa facevano i demoni con le anime, e rabbrividì ancora di più: come avevano potuto gli Shinigami lasciarla in una situazione del genere sapendo quello che poteva accaderle?
Una Number qualsiasi. Quindi lei era questo per loro, nient’altro che un’anima in più in attesa della sua vera morte. Niente di più, niente di meno, niente di speciale, una fra tante altre. Non riusciva a ricordarsi nessuno che, nella sua nuova vita, le avesse voluto bene o l’avesse considerata veramente importante. L’avevano usata tutti quanti per i loro sporchi traffici, a partire da Andrè a Lady Nancy, per poi passare a Michael Keel e agli Shinigami stessi. Era un peso incredibilmente pesante per le sue spalle, e le sentì curvarsi sotto quella verità di pietra. Lei non era niente per nessuno, nessuno l’aveva e l’avrebbe mai aiutata davvero.
Il viso di Alois le comparve in un flash davanti agli occhi. Ricordò con estrema precisione il loro primo incontro, quel crudele gioco notturno di cui era stata una pedina inconsapevole. Le tornarono in mente tutti i pizzicotti, i lividi, la curiosità morbosa nei confronti della sua ferita, le domande poste con insistenza a cui lei non sapeva trovare una risposta, i bruschi cambi d’umore, quel tradimento finale che bruciava più di ogni altra cosa. Insieme a tutto questo ricordò anche quei pomeriggi passati insieme a ridere, i balli, le giornate trascorse da soli nel giardino, quel momento in cui lui aveva scacciato Michael Keel e le aveva fatto affrontare una volta per tutte i suoi inseguitori, il modo in cui l’aveva aiutata sempre e le aveva salvato la vita senza forse saperlo. Era stato lui l’unico a considerarla speciale; lui, la persona più lunatica, instabile e sadica l’aveva salvata dall’inevitabile e le aveva dato la cosa più simile all’affetto che potesse offrirle. Lui era stato tutto per lei, e adesso era il suo momento di ricambiare il favore, non importava quanto pericoloso fosse tornare alla villa in quel momento. Si alzò in piedi di scatto e, cogliendo di sorpresa i due Shinigami, iniziò a correre in direzione dell’edificio non molto lontano, facendo cadere la giacca dalle sue spalle. Si aspettava che la inseguissero, ma non lo fecero e la lasciarono andare, intuendo forse che c’era una faccenda lasciata in sospeso che doveva essere conclusa a tutti i costi. Correre dentro il bosco sotto il cielo notturno le dava una profonda sensazione di dejà-vu, come se si trovasse dentro il ricordo di quella notte di quasi un mese prima, ma stavolta le cose sarebbero andate diversamente: adesso non era lei che doveva essere salvata, ma qualcun altro. I loro ruoli si erano invertiti nell’ultima azione di quel gioco mortale, quella che avrebbe deciso il vincitore della partita.
Entrò nel giardino senza rallentare e stupendosi del fatto che nessuno fosse in vista, senza sapere se esserne sollevata o intimorita. Giunse in breve tempo sotto il balcone della sua vecchia camera e si fermò mentre osservava la portafinestra spalancata, i frammenti di vetro e delle inferriate e le tende che svolazzavano all’esterno. Affidandosi all’istinto, si avvicinò ad un albero vicino e iniziò ad arrampicarvisi senza ripensamenti, come se non avesse più paura di farsi del male o di morire: forse era merito della rivelazione di poco prima, forse del compito che doveva portare a termine. Fatto sta che raggiunse uno dei rami più alti con la camicia da notte strappata in più punti e le gambe e le braccia ricoperte da graffi che non sanguinavano, e da lì, un attimo dopo aver respirato profondamente, saltò sul balcone a un metro di distanza. Atterrò proprio in mezzo ai frammenti di vetro, rischiando di tagliarsi, ma si alzò in piedi quasi subito senza ferirsi. Fece un paio di passi verso la stanza e diede un’occhiata all’interno: i frammenti erano sparsi dappertutto e la sedia era caduta per terra, ma non c’era più alcuna traccia dei ragni. Tirò un sospiro di sollievo, ma il respiro le si mozzò in gola non appena vide che, distesa sul letto sfatto, c’era una figura che indossava una camicia da notte simile alla sua. La riconobbe non appena la luce della luna illuminò i suoi capelli biondi e fece un passo avanti per raggiungerla in silenzio, ma qualcosa scricchiolò sotto il suo piede, allarmando il ragazzo sdraiato sul letto, che si alzò e si voltò di scatto verso la portafinestra. Lena ebbe solo una frazione di secondo per chiedersi cosa ci facesse lì, poi lui le disse in tono brusco: “Sei tornata, alla fine.”
La ragazza si ritrovò improvvisamente senza più alcuna voce in gola e con il corpo che le tremava: la sua presenza la confondeva come aveva sempre fatto e le impediva di fare la cosa giusta. Si costrinse a fare ancora un passo avanti e a dire: “Alois, lascia che ti spieghi…”
“Cosa? Perché mi hai mentito fin dall’inizio?” la interruppe lui. Si alzò in piedi, rimanendo distante da lei, e la sua espressione divenne un misto di rabbia e tristezza. “È questo quello che le persone sanno fare meglio, no? Mentire, raccontare bugie a sé stessi e agli altri per poi abbandonarli. Forse quelli che ti hanno aiutata a scappare ti hanno detto chi sei veramente, e così adesso è tutto finito. Tu te ne andrai, tornerai dalla tua famiglia e vivrai felice e contenta per il resto dei tuoi giorni, immersa nella tua bella fiaba, mentre io…” Fece una pausa e poi mormorò: “Tutti mi abbandonano alla fine, tutti tranne Claude. Avrei dovuto ascoltarlo quando mi diceva di non fidarmi di te.” Si voltò e si diresse verso la porta, ma la voce di Lena lo fermò.
“Non vuoi nemmeno sapere perché sono tornata qui quando avrei potuto andarmene subito?”
Scrollò le spalle. “Che importanza ha ormai? Questa storia finisce qui, tu mi hai mentito e io sono cascato nella tua ragnatela. Non c’è altro da aggiungere.” Fece ancora un passo avanti, ma un rumore alle sue spalle lo fece fermare di nuovo. Dei passi lo raggiunsero velocemente, e dopo poco la ragazza lo abbracciò da dietro, affondandogli il volto nella spalla. Alois rimase sorpreso da quel gesto affettuoso e disperato così improvviso, e potè solamente mormorare: “Lena…”
“Io non ti ho mai mentito, Alois, e l’unica volta che l’ho fatto era solo perché non volevo che tu mi cacciassi,” mormorò lei in tono rotto e abbracciandolo ancora più forte. “Tu mi hai salvata e mi hai dato un nome e una vita che pensavo di non poter avere mai più, il minimo che posso fare per ripagare il mio debito è salvarti a mia volta. Non voglio che ti succeda niente di male. Vieni via con me, ti prego.” Un singhiozzo le sfuggì dalla bocca e le lacrime iniziarono a sgorgarle dagli occhi verdi, rompendo la promessa che aveva fatto a sé stessa. E quindi eccola lì, a mostrare la sua debolezza all’unica persona davanti a cui non aveva mai voluto piangere. “Io voglio solo salvarti come hai fatto tu con me.”
Il silenzio regnò nella stanza per qualche minuto, poi Alois, combattuto tra due persone e due verità, si voltò verso di lei e le sorrise triste. “Per me è già troppo tardi, Lena. Nessuno mi può salvare.” La sua espressione cambiò all’improvviso e lui allontanò la ragazza con uno spintone. “Nemmeno tu puoi farlo!” urlò con rabbia e gli occhi azzurri che scintillavano.
Lena si sentì respinta una volta per tutte e finalmente capì che lei era totalmente impotente, non avrebbe mai potuto salvarlo, la sua anima era già condannata da tempo. Quando il ragazzo si voltò, dandole di nuovo le spalle, deglutì e mormorò: “Sotto il materasso c’è una lettera per te. Leggila dopo che me ne sono andata.” Addio, disse muovendo solamente le labbra mentre dentro di lei qualcosa si spezzava del tutto.
Alois non replicò, ma sembrò annuire lentamente. La ragazza fece un respiro profondo, ormai certa di trovarsi davanti alla fine, e camminò all’indietro fino a ritornare sul balcone. I frammenti di vetro scricchiolarono sotto i suoi piedi, ma l’unica cosa di cui lei si accorgeva era la figura del ragazzo a pochi metri di distanza da lei. Avrebbe voluto salvarlo, ma lui non voleva il suo aiuto e anche lei aveva finalmente capito che non poteva fare niente, nonostante tutta la sua buona volontà. Lo osservò per un’ultima volta, chiedendosi se l’avrebbe mai rivisto in un altro tempo o in un’altra vita, poi sussurrò “Addio” prima di saltare giù dal balcone come avevano fatto gli Shinigami poco tempo prima. Ronald e il suo compagno erano davanti alla villa in attesa, e quando la videro arrivare con gli occhi arrossati e un’espressione disperata in volto non le fecero domande e le loro espressioni rimasero impassibili. Lo Shinigami dai capelli rossi le afferrò una mano e fece quel suo strano sorriso affilato. “Pronta a tornare a casa, Fifty?”
Lena si limitò ad annuire con aria assente senza mai staccare lo sguardo dalla finestra della sua vecchia camera. Il pensiero di non aver visto in giro nemmeno uno dei servi della villa le attraversò la mente solo per un breve istante, poi tutto iniziò a farsi più bianco e a svanire in una luce accecante. La ragazza non distolse mai lo sguardo dalla finestra e, nel momento in cui anch’essa iniziò a sparire, un’ultima parola le sfuggì dalle labbra, riecheggiando nell’aria notturna ed arrivando persino alle orecchie di Alois, ancora dentro la stanza semidistrutta.
Grazie.
















Sono in ritardo con l'aggiornamento, me dispiaciuta moltissimo! E' solo che sono stata tutto il giorno e la sera fuori, non ho fatto in tempo nè a finire il capitolo nè a pubblicarlo. Mi dispiace veramente tanto D:
Comunque, questo capitolo è abbastanza emo alquanto triste. Non che a me piaccia scrivere solo storie tristi, eh. E' solo che hanno un fascino particolare. E sinceramente, non potevo far finire bene questa storia - non con Alois come protagonista. Avrei dovuto stravolgere un'intera serie e rischiare di ricevere minacce di OOC.
Il prossimo capitolo sarà l'ultimo, una specie di epilogo. Mi dispiace un sacco essere giunta alla fine, ma alla fine è giusto. Per i discorsi strappalacrime però c'è ancora tempo, non vi pare? :)
MadLucy: Ronald è il mio Shinigami preferito, è... boh, lo amo, punto. E' un tipo fantastico, e la sua Death Scythe è qualcosa di *-* La parte di Hannah è stata molto interessante da scrivere, mi sarei voluta soffermare di più su questo personaggio che non mi andava granchè a genio fino a un paio di mesi fa. [Una SOLA settimana. Voglio scoppiare a piangere dalla felicità! \o/]
AnnyChan: se la scena dello scorso capitolo ti è sembrata strappalacrime, quella di questo dovrebbe essere ancora peggio XD

xoxo
Eva

  
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