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Autore: Rainie    03/06/2012    4 recensioni
Se si nascondessero dei ricordi preziosi nelle profondità del cuore, in modo tale da non poterli più tirare fuori per non rimpiangere la gioia racchiusa in essi, andrebbe bene se riguardassero la persona più importante della propria vita? Rukia Kuchiki e Ichigo Kurosaki un giorno si incontrarono, e da allora ognuno di loro è riuscito a lasciare piccoli, significativi frammenti di sé nell'altro.
[ IchiRuki | Alternative Universe oneshot | Friendship/Romance, somehow fluff, melancholic, OOC for safe | 8,903 words ]
[Fanfiction revisionata il 30/07/2012]
Genere: Fluff, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kuchiki Rukia, Kurosaki Ichigo
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Kaleidoscope
 
 
Dei miei anni al liceo ricordo poco o niente, memorie buttate al vento tinte di un grigiore monocromatico con sprazzi del colore dell’uniforme e del rosa pallido dei ciliegi primaverili. Dei miei anni al liceo ricordo le giornate passate a studiare, la vista del giardino dal mio solito posto accanto alla finestra, il peso dei libri nella borsa.
Dei miei anni al liceo ricordo le classi in cui mi trovavo, i nomi dei professori che m’insegnavano, le voci di corridoio che allora giravano; dei miei anni al liceo non ricordo nemmeno la metà delle facce dei miei compagni di classe: riesco solo a rimembrare volti sfocati che mi salutavano se mi vedevano in giro per la scuola, voci oramai lontane e sbiadite. Non c’era da stupirsi, d’altronde, non avevo mai parlato tanto a scuola, solo il minimo indispensabile per farmi comprendere e cercare di avere una serena e tranquilla vita scolastica. Dei miei anni al liceo ricordo Inoue e Arisawa, due delle mie poche amiche di allora, ricordo Chad e la sua natura gentile nonostante la sua robusta corporatura e Ishida e i suoi alti voti in ogni materia, ricordo Asano e Kojima perché erano divertenti – e gentili, con me.
Dei miei anni al liceo non ricordo alcun momento particolarmente rilevante o felice, ricordo che il nostro gruppetto parlava di cose quotidiane, talvolta ci si aggiungeva qualcun altro e la cosa finiva lì. Non mi piaceva il fatto di legare con le altre persone; avevo amici, ma molti erano conoscenti. Renji era sempre stato al mio fianco, ma, purtroppo, non era nel mio stesso istituto, così come Kira o Hinamori o Hisagi. Rangiku era oramai all’università, e non mi facevo tanto vedere nel caffè che Urahara e Yoruichi gestivano. Forse Kaien era quello con cui avevo più contatti verbali, ma lui aveva un anno in più di me, così, quando arrivai al terzo anno, lui partì per frequentare il college in un altro paese.
Dei miei anni al liceo non ricordo alcuna zuffa a cui avevo partecipato, ma sono sicura di averne preso parte un paio di volte, per non dire un sacco. Non ero una tipa violenta, semplicemente mi provocavano e da lì degenerava in qualcosa di più grande che nemmeno io riuscivo a gestire bene. Solitamente succedeva perché “mi davo delle arie” e quelle stronzette delle mie kohai e senpai chiamavano qualcuno, generalmente di un’altra scuola, per tendermi imboscate e roba del genere – traduzione: erano chiamati per farmi finire nei guai. Ero fortunata, poiché ero capace di difendermi da sola e un paio di volte c’era qualche anima pia che riferiva agli insegnanti che io non c’entravo nulla e che erano gli altri a cominciare (qualche volta erano state beccate e sospese anche coloro che avevano avuto quel colpo di genio di farmi espellere dalla scuola). Ma quelle volte in cui riportavo più lividi e ferite del solito mi facevano sempre il terzo grado, fui sospesa raramente e messa a frequentare lezioni supplementari la maggior parte delle volte.
Però, dei miei anni al liceo, ricordo nitidamente un giorno di pioggia, grigio come al solito, e poi all’improvviso riuscii a vedere un tiepido raggio di luce farsi strada nella mia vita.
Era l’inizio di maggio del mio secondo anno. Sebbene fosse ancora mattina e piovesse a catinelle, faceva molto caldo. Così quello era anche il primo giorno in cui ci fu detto di indossare l’uniforme estiva – non che cambi di molto la storia. Ad ogni modo, era una mattinata tranquilla, avevo l’ombrello in mano ed ascoltavo semplicemente le rilassanti gocce di pioggia che ticchettavano senza fine. Di solito, sulla strada di scuola non incontravo nessuno se non in prossimità della meta (non che la cosa mi dispiacesse, anzi), ma quel giorno una tipetta della mia scuola poco più alta di me – notai che era una mia kohai dal colore della cravatta dell’uniforme – mi si avvicinò, chiedendomi se fossi Kuchiki del secondo anno. «Shiba-senpai mi ha parlato molto di te!» se ne uscì fuori, il che mi seppe subito di bugia. Stava fingendo spudoratamente davanti a me, e persino un bambino di cinque anni se ne sarebbe accorto. Pensai che non avrebbe avuto un futuro nel mondo dello spettacolo. Decisi di annuire noncurante e di dire di aver fretta, che magari avremmo potuto parlare più tardi a scuola, così accelerai il passo. Quello era un giorno in cui ero particolarmente svogliata, forse perché avevo dormito poco e male? Ad ogni modo, sapevo che non avrei avuto una mattinata facile.
Infatti, dopo che la kohai continuò a chiamarmi per qualche minuto buono, smise all’improvviso, e mi aspettai che qualcuno mi prendesse da parte e cominciasse a “discutere amabilmente” con me. Sospirai, fermandomi e guardandomi indietro, ma non vidi nessuno. Rimasi lì per qualche secondo, ma poi ricominciai a camminare di nuovo, senza, però, abbassare la guardia.
Quando sentii dei passi che producevano un sordo rumore d’acqua, non feci nemmeno in tempo a girarmi che una disgustosa mano bagnata mi afferrò un braccio ed un’altra premette con forza sulla mia bocca. Per la sorpresa persi la presa sull’ombrello, che produsse un suono secco cadendo sull’asfalto bagnato. L’istinto mi disse di controllare se ci fosse stato qualcuno che stava passando da quelle parti, ma quella in cui stavo camminando era una stradina deserta che spesso e volentieri usavo come scorciatoia: difatti non riuscii a scorgere nessuno. Cercai di scrollarmi, allora, quelle manacce di dosso, provai a dare una gomitata al mio aggressore, ma qualcun altro mi bloccò il braccio che era libero. Mi dimenai, il che non servì a molto. Solo allora mi pentii di essere passata, quel giorno, su quel maledetto viottolo che nessuno avrebbe mai imboccato. Sentivo l’uniforme bagnarsi mentre venivo trascinata via a forza in un vicolo scuro senza alcuno sbocco laterale, e la cosa non mi era di certo d’aiuto.
Quando potei finalmente liberarmi da quella mano che non mi lasciava nemmeno la possibilità di respirare, non fui per niente sorpresa che la kohai di poco prima mi guardasse con fare disprezzante. «Kuchiki-senpai,» esordì, «se mi avessi dato retta ed ascoltata senza fare tante storie, a quest’ora non saresti finita in questa situazione.» Quasi mi fece ridere, pensava d’essere in qualche serie TV e simili! Blaterò qualcosa su Kaien e su come mi permettevo a stargli vicina, cose così, capite, roba da ragazzine immature. Non ebbi la voglia di rispondere che io e lui eravamo amici da almeno cinque anni e che lei avrebbe dovuto imparare ad essere meno infantile – sarebbe stato un tremendo spreco di fiato.
Studiai il posto in cui mi trovavo e le persone che erano presenti. Per colpa della pioggia non riuscii a vedere granché, ma era abbastanza per capire che non potevo di certo andarmene via senza destare sospetti od avere qualcuno alle calcagna: supponendo che mi stesse tenendo ferma soltanto uno del gruppo, erano circa in sei più la ragazza. Una contro sette. Ma non potevo nemmeno starmene lì con le mani in mano mentre quella ragazzina continuava a parlare a vanvera: era alquanto irritante.
Riflettei: mi sarei potuta liberare di chiunque mi stesse tenendo ferme le braccia se gli avessi dato un calcio, poi avrei dovuto difendermi da quelli che mi sarebbero saltati addosso. Magari sarei riuscita ad andarmene senza procurarmi tanti lividi o ferite, e sarei ritornata a casa perché quel giorno non avevo alcuna voglia di spiegare ai professori cosa mi era successo. Avrei avuto una giornata libera e l’avrei passata a dormire ed a recuperare le ore di sonno perdute e—
«Rukia Kuchiki, mi stai ignorando?» disse la voce stridula della kohai senza nome che mi riportò alla realtà. La guardai sbuffando, con un sopracciglio alzato, annoiata ed irritata, «Non spreco la mia attenzione per qualcuna come te» risposi. Mi divertì particolarmente il modo con cui, indispettita, unì le due sopracciglia con fare stizzito e mi diede un’occhiataccia di disprezzo. Sorrisi – ghignai –perché tutto ciò mi sembrava tanto irreale da divertirmi per la sua assurdità. Qualche minuto prima ero una normale liceale sulla strada di scuola ed alcuni dopo ero circondata da una massa di tizi di altre scuole pronti a conciarmi per le feste. Mi chiesi, in quel momento, cosa avessi fatto di male per meritarmi quella vita.
Vidi la kohai che alzava il braccio per farmi chissà cosa – darmi uno schiaffo, forse? Prevedibile. “Ora o mai più” pensai, e a mia volta alzai una gamba per calciare via il suo braccio. Diede voce ad uno strillo isterico di dolore ed io, subito, cacciai un piede all’indietro. Con molta fortuna (per me), riuscii a mettere a segno il colpo, e sentii la presa allentarsi all’improvviso. Pensai di aver esagerato un po’ nel caricare quel calcio, quando mi girai quanto bastava per vedere che colui che mi teneva bloccata gemere di dolore, barcollando e con quelle odiose e disgustose mani premute contro, ehm, avete capito. Come avevo previsto, molti dei suoi amici mi vennero addosso, ma in qualche modo riuscii a cavarmela.
Ero oramai abituata a ciò. La prima volta fu qualche giorno dopo le vacanze estive– un mese di nulla e subito dopo un uragano che m’investiva. Alle prime fui solo sorpresa e basta, ma il tempo passava ed ero sempre più innervosita e stressata da ciò, arrivando a saltare diversi giorni di scuola. Mia sorella e mio cognato spesso venivano a trovarmi quei giorni, preoccupati. Quando mi chiedevano come mi fossi procurata quelle ferite, rispondevo che a causa della mia sbadataggine cadevo spesso, ma non ero sicura se mi credessero o no.
Allora non vivevo con loro, non volevo causare problemi, e mia sorella mi disse che mi avrebbe lasciato vivere da sola a patto che scegliessero e pagassero loro il nuovo appartamento, e che io avrei dovuto accettare i soldi che mi avrebbero mandato mensilmente. Le prime volte rifiutai, ma alla fine lei l’ebbe vinta e così cominciò la ricerca del mio nuovo alloggio e della mia nuova vita.
In ogni caso, negli ultimi mesi quegli avvenimenti non m’importarono più di tanto, semplicemente, diventò la mia quotidianità. Non chiedevo aiuto, perché non si sarebbe giunti a nessuna conclusione, e se anche l’avessi chiesto nessuno me ne avrebbe prestato alcuno; ero una ragazza abbastanza scorbutica e poco aperta, conosciuta a scuola come colei che si imbatteva in diverse risse parecchie volte al mese. Rimanevo spesso da sola (e mi andava bene così) e quando mi chiedevano “Non ti senti sola?” io rispondevo che no, non mi sentivo così.
Per me, i legami non erano altro che seccature.
Quando riuscii ad uscire da quel vicolo deserto mi sentivo le gambe doloranti. Avevo incassato un bel po’ di colpi dal momento che ero una sola ragazza contro cinque ragazzi grandi il doppio di me. Ringraziai il cielo di riuscire a difendermi anche in certe situazioni disperate. Il sangue dal sapore di metallo si fece strada nella mia bocca, così lo sputai, e vidi la macchia rossa per terra che scivolava via assieme all’acqua. Avevo ancora in mano la mia cartella, e solo allora mi accorsi di tutti i tagli che avevo sulle braccia e gambe; la camicia bianca era oramai macchiata qua e là di rosso. “Merda” imprecai mentalmente, “quei bastardi avevano dei coltelli”. Cominciai solo allora a sentire le ferite bruciare, ed anche se erano dei piccoli e semplici taglietti sembrava come se mi avessero strappato la pelle di dosso. La pioggia e l’uniforme ormai completamente fradicia non miglioravano di certo le cose. Sperai solo che nessuno passasse di lì proprio in quel momento, altrimenti chissà cosa avrebbero pensato e che seccature mi avrebbero procurato.
Mi appoggiai al muro per riprendere fiato e riposarmi un po’. L’ombrello chissà dov’era finito e sperai che i libri non si fossero bagnati. Chiusi gli occhi; la giornata era appena iniziata e già ero stanca. Non avevo più voglia di fare niente.
«Hey, stai bene?»
Aprii gli occhi e mi girai verso la direzione da cui proveniva la voce. Vidi un ragazzo, indossava la divisa della mia scuola, era incredibilmente alto (o forse ero io che ero troppo bassa?) e, soprattutto, aveva dei capelli di un assurdo color arancio. Mi parve di averlo già visto da qualche parte un paio di volte, sembrava così familiare. «Potrei stare meglio» gli risposi. Mi staccai dal muretto, dandomi pacche sul retro della gonna per togliermi dello sporco inesistente, e trovai solo della stoffa inzuppata d’acqua. Feci una smorfia infastidita. «Riesco comunque a camminare» e detto ciò mi pulii la bocca e mi accorsi di avere del sangue sulle labbra. Tutto quel processo fu seguito dagli occhi di lui, che poi disse: «Tu non sei quella tipa bassina che sta con Chad assieme a Tatsuki e gli altri?»
«Chad? Chi sarebbe Chad?» domandai, allora non chiamavo Chad in quel modo. Lui sembrò lievemente confuso, «Come, non lo conosci? Chad, quel tizio grande e grosso con la pelle scura e i capelli riccioluti…»
«Oh» feci, «intendi Sado?». Lui annuì e continuò: «Sì, quel che è». Poi all’improvviso mi venne in mente chi fosse quel ragazzo: era uno che avevo spesso visto in compagnia di Chad, Tatsuki, Kojima e Asano. E poi…
«Ah, mi sembra di aver sentito parlare di te. Non erano voci belle, comunque. Sei Shiro… ki?»
«Kurosaki» mi corresse, «non “bianco” ma“nero”. Ad ogni modo, non mi sembravi una persona che presta molta attenzione ai pettegolezzi, ma a quanto pare mi sbagliavo.»Roteai gli occhi e sospirai lievemente, tenendomi dentro i gemiti di dolore per le braccia e le gambe che mi bruciavano fastidiosamente. Ricordavo vagamente che qualcuno mi aveva colpito la spalla sinistra, quindi il dolore era ancora aspro. Cominciai a massaggiarla con la mano libera cercando di alleviare la fitta. «Non sbagli» risposi, «è semplicemente perché ricordo che mi avevano parlato di qualcuno che se la passava come me, tra una rissa e l’altra, quindi sono stata felice di avere un compare.»
Lui sembrò illuminarsi. «Oh, quindi tu devi essere quella Kuchiki che va in giro a pestare la gente per legittima difesa. O era perché ti sentivi la voglia?» se ne uscì fuori, e io non potei far altro che ridacchiare, leggermente divertita. «Non sembri un tipo che da retta alle voci di corridoio» gli dissi, ripetendo le sue parole. «E, comunque, si dice davvero questo di me? Non credevo di essermi creata una reputazione simile.» Un’altra risata.
«Beh, credo che sia per la tua stessa ragione e, sì, questo è quello che ho sentito dire in giro. Comunque, non pensavo che potessi essere così… insomma, avere una figura tanto esile e gracile.»
«Sono solo piccola di costituzione, prego» obiettai, odiavo quando si parlava della mia statura o corporatura, lui fece le spallucce noncurante, «Fa lo stesso» disse. Mi sentii leggermente sollevata nel sapere che non dovevo fare nient’altro che scuotere la testa e sbuffare. Lui continuò: «Ad ogni modo, immagino che oggi non tu non abbia alcuna intenzione di andare a scuola».
Mi spostai la ciocca di capelli che solitamente restava in mezzo ai miei occhi, cominciava a darmi alquanto fastidio. «Bingo» risposi, «ma, generalmente, le persone normali mi direbbero di andare a farmi controllare le ferite in ospedale, e non si chiederebbero se oggi sarei andata a scuola o no. Tu non sei normale?»
«In qualche modo ho come la sensazione che qualcuno come te non gradirebbe –  credo che dopotutto ci assomigliamo, a me non piacerebbe se qualcuno mi dicesse cosa devo o non devo fare.» Fui un poco sorpresa, e pensai che fosse un tipo interessante. Ma non era interessante nel senso che era bizzarro, era interessante nel senso che fece muovere qualcosa dentro di me, che mi fece sentire a casa, come quando ritrovi delle amicizie troncate a metà, quei legami che avevi voluto riavere indietro perché ti eri accorto che erano troppo importanti per te per poterli abbandonare, perché era troppo difficile dire “Addio” ad essi senza avere un minimo di rimpianto adagiarsi sul cuore.
Non seppi cosa dire a quell’affermazione, annuii semplicemente e gli diedi un mezzo sorriso. «Già» potei dire in un soffio, prima che la sua faccia si facesse allarmata e mi sentii le orecchie fischiare, avvertii una sensazione strana propagarsi sul capo, e poi il niente.
Quando ripresi conoscenza, lo vidi seduto a terra a fissarmi mentre una scia di sangue attraversava il suo viso. La sua uniforme era sporca di macchie scure e, prima che potessi chiedergli inquieta cosa gli fosse successo, lui mi disse: «Non li avevi messi tutti fuori gioco; ho concluso il lavoro per te, ma solo perché hanno iniziato ad attaccare anche me.» In una circostanza del genere, un’altra volta sarei scattata subito e avrei detto: “Stai per caso dicendo che non sono abbastanza?!”,  ma non quella volta, ero troppo spossata e stanca. Mi misi in piedi, con la testa che girava in un modo assurdo, oltre al fatto che sentivo dolore. Mi passai una mano nei capelli, ma quando la guardai non notai alcuna traccia di sangue. «Una ragazza è appena corsa via, guardandoci male» mi informò, alzando la testa per continuare a fissarmi. Mi guardai attorno e vidi i diversi tizi di prima sdraiati sull’asfalto, chi con più lividi e chi con meno. Sospirai, «Immagino che questa volta saremo nei guai insieme» constatai, gli occhi che corsero di nuovo sulla sua figura. Lui si alzò e disse, tra una pacca all’uniforme e l’altra: «Immagino di sì.»
Il giorno dopo parlammo mentre pulivamo il pavimento della scuola per punizione. Ci raccontammo un po’ di cose, ma non fu niente di tanto importante. Era divertente discutere con lui, e forse trovai la pace che stavo cercando da tanto tempo.
Ichigo (era questo il suo nome) era una persona strana. Andava bene in praticamente tutte le materie, ma veniva spesso ripreso per il suo comportamento e, soprattutto, per il colore dei suoi capelli. Eppure lui non se ne curava affatto e continuava a fare ciò che gli sembrava giusto fare. Scoprii che era un compagno delle medie di Chad e che era un amico d’infanzia di Tatsuki. Scoprii che Inoue aveva una cotta per lui. Scoprii che era abbastanza amico di Asano e Kojima, e che era conoscente di Kaien e Renji. Infine scoprii che abitava praticamente a due passi dal mio appartamento, che suo padre era medico, che aveva due sorelle e che sua madre morì quando lui aveva appena nove anni.
Sin dall’inizio ci sentimmo a nostro agio in compagnia dell’altro – quella sensazione di “sentirsi a casa” non svanì affatto, anzi, si fece più intensa. Ci chiamavamo per nome con disinvoltura (eravamo compari, dopotutto) ma a scuola cercavamo di evitare per non creare malintesi. A dirla tutta, non avevamo poi così tanto in comune, eravamo il giorno e la notte, la luna ed il sole, il bianco e il nero, lo yin e lo yang. Non eravamo mai d’accordo su niente, ad ogni mia azione ritenuta da me positiva corrispondeva una sua reazione negativa e viceversa, la parola “delicatezza”  non era presente nei nostri vocabolari. Eppure, eravamo in qualche modo compatibili, ci davamo man forte quando c’era bisogno, anche se ciò significava finire nei guai.
Semplicemente, con lui stavo bene. Era una sensazione diversa da quella che sentivo con Kaien, che mi aveva sempre sostenuta, o con Renji, che conoscevo sin da bambina. Con lui volevo condividere tutto, dalla felicità alla tristezza e ansia, perché mi pareva che ci conoscessimo tanto bene da poterci capire al volo. Eravamo compagni di (dis)avventura, tutto qui, però eravamo anche due persone così legate che non potevano essere definite conoscenti, ma nemmeno intimi, eppure volevo che ci etichettassero in questo ultimo modo.
«Rukia» mi disse un giorno, sul terrazzo della scuola durante la pausa pranzo, «se quella volta non ti avessi incontrata cosa sarebbe successo?»
Alzai lo sguardo su di lui, che stava fissando il cielo appoggiato di schiena alla ringhiera. Avrei voluto chiedergli il perché di quella domanda improvvisa, ma desideravo che quella sensazione di serenità continuasse ad esserci tra noi, come era nostro solito. «Se quella volta non ci fossi stato» dissi, «non so proprio cosa sarebbe successo. Forse non saremmo stati qui, adesso.» Era la cosa più ovvia del mondo, ma per me significava dover rimanere sola, senza che ci fosse stato qualcuno che mi assomigliasse. Con lui stavo bene, ma non era un bene nel senso che volevo stare con lui per sempre, come se fossimo innamorati, promettendoci l’eternità. Perché, prima o poi, tutti si separano.
Poi fui io a chiedergli: «Secondo te? Cosa sarebbe successo?» Prendendo un sorso di succo, Ichigo si voltò, finalmente, a guardarmi. Quando parlavamo, noi due non ci guardavamo spesso negli occhi, ma nessuno volle cambiare quell’abitudine, faceva ormai parte della nostra normalità. «Credo che tu abbia ragione, forse ora non saremmo qui» rispose, girandosi su se stesso ed appoggiando il braccio sulla ringhiera. Non sentendomi più la gamba destra, dalla mia scomoda posizione in ginocchio seduta sulla sinistra cambiai, portandomi entrambe le gambe al petto. «Rukia, ti penti di avermi incontrato?»
Non seppi rispondere sul momento. Avevo solo la tremenda voglia di non dire niente e di rimanere in silenzio, ma sapevo che lui era uno insistente, e non mi avrebbe dato pace fino a quando non avrei risposto alla sua domanda, «Se fossi stata io a chiederti una cosa del genere, tu avresti storto il naso e mi avresti detto di non preoccuparmi di cose del genere» gli dissi, sperando che bastasse. Lui mi diede un’occhiataccia, aveva un sopracciglio alzato e la bocca semiaperta. Poi sospirò, sorridendo: «Sì, molto probabilmente». Restammo per un momento in un rilassante silenzio, con il vento che fischiava lieve nelle orecchie. «Il fatto è che…»
«I-CHI-GOOOOO!» strillò Asano, spalancando la porta del terrazzo e correndo verso il mio compare. Quest’ultimo gli passò il braccio attorno al collo, con fare annoiato, il che causò al mio compagno di scuola uno grido strozzato nel tentare di liberarsi dalla stretta. Balbettò qualcosa come “Mi arrendo, mi arrendo!”, e nel frattempo Kojima e Chad ci raggiunsero. «Uh, certo che voi due state sempre appiccicati, eh?» osservò il primo, ridacchiando un po’. Per un momento, vidi l’ombra di un sorriso sulle labbra di Chad. «Come no» gli risposi io sarcasticamente, piegando di lato la testa e chiudendo indispettita gli occhi. A quanto pare se n’erano accorti. Mi chiesi se fosse ora di smettere di stare tanto attaccata ad Ichigo.
«Ah, Kuchiki-san» fece Asano, tossicchiando dopo essersi liberato, «Inoue-san e Arisawa-san ti stavano cercando. Mi hanno detto di dirti che sono in giardino.»
«Oh, capisco. Allora è meglio che vada. Divertitevi.» Il mio “Grazie per avermi salvata da una conversazione imbarazzante” era implicito. Pensai che non avrei mai saputo cosa Ichigo stesse per dirmi, ma non importava.
Una volta raccolte le mie cose mi avviai verso la porta che conduceva alle scale antincendio, ma qualcosa mi sembrò essere fuori posto; indugiai sulla maniglia. «Kurosaki» lo chiamai, girandomi verso l’allegra (?) compagnia. Mentre Asano continuava a fare casino, con gli altri due che continuavano a guardarlo consapevoli di non poter fare nulla, Ichigo si volse verso di me. Per un attimo ebbi paura di non sapere cosa dirgli. «Se» cominciai, abbassando lo sguardo per poi riposarlo subito su di lui, «se quella volta non ci fossimo incontrati, sono sicura che alla fine ci saremmo comunque conosciuti. Solo che non saremmo stati compari e non avremmo avuto questo legame.» Senza dargli tempo di rispondere, aprii la porta e scesi le scale, ma non prima di avergli regalato un lieve sorriso.
E proprio perché eravamo compari, non c’era niente di sbagliato tra di noi o in noi. Più che altro, non doveva esserci, altrimenti quell’impercettibile barriera tra di noi sarebbe crollata in meno di un batter di ciglia. Sarebbe stato come l’Europa nel momento in cui l’impero Romano cadde, solo che a differenza sua noi non avremmo potuto avere un nostro Rinascimento.
Allo stesso tempo, non potevo dipendere sempre da lui. Dal giorno in cui ci incontrammo, andavamo a scuola e tornavamo insieme, mangiavamo il pranzo insieme, prendevamo a pugni e calci gli altri insieme (certe volte, però, ci si aggiungeva anche Chad), ci annoiavamo insieme. Lui sapeva che vivevo da sola, e talvolta mi invitava a casa sua a cenare, con grande gioia della sua famiglia, e dopo aver mangiato eravamo soliti a salire sul tetto a guardare le stelle, parlando di cose inutili ed insultandoci a vicenda e litigando per argomenti insignificanti, fino a quando uno di noi due non si sentiva troppo stanco e solo allora andavamo a dormire.
Lo sentivo come un amico, un fratello ed un amante insieme, eppure non era nessuno dei tre; eravamo compari, e ci sostenevamo a vicenda. Un simile attaccamento non andava per niente bene.
Una volta ne parlai con Rangiku – “Ho paura di diventare troppo attaccata a lui” – e dopo aver risposto scherzosamente come suo solito mi disse di non preoccuparmi, vada come vada, di vivere il presente senza troppe preoccupazioni, e se le persone vanno via vorrà dire che hanno terminato il loro compito di stare accanto a noi. Probabilmente, lo disse perché il ricordo della morte di Gin ancora la perseguitava, ma decise di deglutire quell’amara sensazione e di andare avanti.
E solo allora mi accorsi di quanto, in realtà, avessi paura di perdere tutto quello che io ed Ichigo eravamo, e di quanto Rangiku fosse forte nonostante tutto quello che lei aveva veramente perso. Io, se mi fossi trovata nella sua situazione, sarei rimasta aggrappata a tutto ciò che mi avrebbe lasciato Ichigo se se ne fosse andato.
Luglio ed agosto passarono velocemente, e al primo fine settimana di settembre, approfittando delle ultime giornate estive, Asano ci invitò a fare una piccola gita fuori città, tanto per rilassarci (dopo che il secondo trimestre era cominciato da appena una settimana). Quello era un bungalow carino, e mi chiesi come faceva uno come Asano, del quale famiglia non era il genere da spendere soldi su certe cose, a possedere qualcosa del genere – poi scoprii che l’aveva affittato; aveva molte stanze, ma non ricordo molto di essa, tanto era grande e poco era il tempo per ammirarla nei minimi particolari. Nel pomeriggio, facemmo una piccola passeggiata nei dintorni. C’erano campi di girasole dappertutto – tinture gialle sotto il sole di fine estate – e la cittadina vicino al nostro alloggio era graziosa e piena di profumi freschi e nuovi, o, almeno, così era per me.
La notte, quando tutti furono addormentati, io sgattaiolai fuori dalla mia camera (la dividevo con Inoue e Arisawa) ed uscii dalla costruzione. L’autunno ancora non era arrivato, quel giorno faceva un po’ più fresco del pomeriggio, ma si stava bene. La brezza fresca di inizio settembre mi colpì e potei rilassarmi un poco, il giusto per riuscire a prendere sonno ed ammirare il paesaggio intorno a me.
«Immaginavo che non riuscissi a dormire» disse la stessa voce che mesi prima avevo sentito in quel giorno di pioggia. Mi voltai, «Certo che mi conosci bene». Parlammo di cose talmente inutili e quotidiane che ad un certo punto mi chiesi perché mi piaceva così tanto stare in compagnia di Ichigo. E mi accorsi che un giorno, prima o poi, anche noi ci saremmo separati, e di quanto il nostro legame fosse in verità fragile. Mi accorsi che c’erano un sacco di persone attorno a noi che ci parlavano dietro e, anche se nessuno di noi credeva alle voci di corridoio, uno solo di essi poteva rovinare tutti quei mesi di piccola felicità che mi ero costruita.
«Riesco già a vederti a 24 anni» disse all’improvviso, sdraiandosi sul prato che odorava di erba tagliata, passando il braccio destro dietro la testa mentre quello sinistro si adagiava sull’addome. Mi voltai a guardarlo, con una certa sorpresa scintillarmi negli occhi. «Ah, sì?» feci, studiando il suo profilo.«Sì» continuò – la curva del collo interrotta dal pomo d’Adamo che si muoveva su e giù alle sue parole, la pelle nuda che spariva dentro la maglietta estiva. I suoi occhi ambrati avevano preso il colore del cielo stellato estivo, ma le stesse sfumature arancio del tempo diurno facevano timidamente capolino sulle iridi velate di cobalto.
Era attraente. Solitamente si sarebbero usate altre parole per descrivere qualcuno che assumeva quella posizione, ma, allora, per me non era bello o figo o sexy o… per me era semplicemente attraente.
«Posso vederti al parco, o su un mezzo pubblico, oppure anche in un ristorante, a mordicchiare la penna e guardare un foglio bianco mentre i tuoi pensieri si confondono nella tua mente. Posso vederti davanti al computer a notte fonda, in una casa che hai comprato con i tuoi soldi, a fissare quella pagina di documento bianco mentre cerchi l’ispirazione e le parole giuste da mettere giù. Poi ti alzerai ed andrai in cucina a fare il caffè per tenerti sveglia, e intanto guarderai fuori dalla finestra e fisserai le luci della città. Riesco già a vedere i titoli sui giornali: “24 anni di esordio spettacolare, Rukia Kuchiki giovanissima autrice di un best seller”.» Annuì convinto, «Ti ci vedo benissimo come scrittrice, Rukia».
Fu attraente anche il modo in cui lo disse, e ciò mi scaldò il cuore. «Ma, Ichigo» feci io, «solitamente agli scrittori non si dedica un articolo intero.» Risi, perché era vero e perché quel fare “attraente” era diventato buffo – era la cosa più bella che qualcuno mi avesse mai detto.
«Beh, se io fossi un giornalista lo farei di sicuro» disse, voltandosi a guardarmi. Scontrai le mie iridi con le sue. «Idiota, sei davvero idiota.» Ripetei l’aggettivo due volte, solo perché volevo sopprimere quella voglia di dire “Grazie per esserci sempre, per non cambiare mai, per tutte le cose positive che hai portato nella mia vita” ed un mucchio di altre cose che, ora come ora, non mi vengono in mente. «Ora che ci penso, potresti fare anche la giornalista» fece ancora. «Non riesco proprio ad immaginarti in un mondo in cui non possa scrivere.»
«Non sai nemmeno se sappia mettere nero su bianco storie oppure no» puntualizzai. Se fosse stato in piedi, avrebbe semplicemente alzato le spalle e mi avrebbe detto che me lo avrebbe fatto piacere, con la forza, se necessario. «Pazienza» sospirò, «continuerò a desiderare che tu abbia un futuro nel mondo della scrittura.»
In quel momento mi sentii di dover dire qualcosa pure io. Ichigo era ritornato a fissare le stelle e mai prima d’ora mi ero sentita di dovergli dire qualcosa. «Io invece ti ci vedo come fotografo» spezzai il silenzio, ritornando a guardare il campo di girasoli estendersi sotto di noi, «Posso immaginarti scattare foto dappertutto, poi nella camera oscura a svilupparle mentre la luce della lampada rossa illuminare i tuoi capelli. Forse sarà l’unica volta che nessuno ti dirà niente a proposito del loro colore.» Ridacchiai per la mia stessa affermazione, ma non controllai che faccia stesse facendo. «Mi immagino guardare i tuoi scatti. Posso vedere già che tipo di foto farai, mi piace pensare che tu sarai un amante della natura e che scatterai un sacco di foto di paesaggi e dettagli naturali: primi piani di insetti sulle foglie, campi di fiori e acqua che scorre; poi farai una raccolta sugli aspetti cittadini.» Lo guardai, forse un po’ troppo nostalgica perché sulla punta della mia lingua c’era amarezza: non sapevo nemmeno se otto anni dopo saremmo stati ancora insieme. I suoi occhi ambra emanavano un debole bagliore. «Poi farai le foto ad un sacco di persone.» – Vorrei che tu tenga un sacco di foto di noi due. Era un desiderio espresso inconsciamente, non avrei mai voluto che noi due prendessimo strade diverse, avrei voluto invecchiare insieme a lui e ricordare i tempi passati.
«Potrebbe essere. Non sai nemmeno se mi piacerebbe un’attività simile alla fotografia» disse ghignando, ripetendo le mie stesse parole. Ridacchiai. Rimanemmo in un confortevole silenzio, con il vento che fischiava un meraviglioso notturno assieme all’ultimo coro di cicale. Ascoltai il suono dell’estate che moriva nella stagione successiva, e realizzai che presto si sarebbe susseguito un altro anno, ed insieme ad esso sarebbero stati 365 giorni che conoscevo Ichigo. Mai avrei pensato che una persona tanto semplice si sarebbe introdotta nella mia vita rivoluzionandola così tanto con poche parole, e ciò mi scaldò il cuore.
«Fra otto anni» esordii, «nel caso che non fossimo più insieme come ora – a quelle parole esitai per un attimo – che ne dici se ci incontrassimo di nuovo?»
«Fra otto anni, sarà tutto diverso» mormorò in risposta lui, chiudendo gli occhi. Il mio sguardo, invece, lo lasciò, e si mise a contemplare la volta celeste. «Sarebbe una buona idea ricordare i vecchi tempi dopo così tanti anni» continuò. Riuscii ad individuare la costellazione di Pegaso, eppure non riuscii a nascondere un sorriso.
Ichigo assomigliava alla cioccolata calda d’inverno. Il fatto che essa ti riscaldi non significa che quel calore rimarrà per tutta la giornata, ed il fatto che lui riuscisse a farmi sentire in pace con me stessa non significava che quella pace sarebbe sempre durata. Ma quando ti ricordi di quel sapore dolce che si insinua nella tua bocca è sempre un delizioso piacere. Non avevo mai parlato del futuro con Ichigo, quindi immaginai che non fosse tanto importante. Allora non intendevo assaporarmi di nuovo i momenti in cui la tazza fumante di cioccolata era ancora nelle mie mani.
Ci facemmo promesse, da quel momento. Preziose, piccole e di poco conto promesse, che riempivano i nostri giorni tra un battibecco e l’altro, che chissà se si sarebbero avverate, ma portavano spicchi di luminosità nella mia vita. Se allora mi avessero chiesto se mi fossi sentita sola, io avrei risposto che no, non mi sentivo così, e sotto sotto avrei pensato che, per la prima volta nella mia vita, non mi sentivo veramente tale, finalmente.
«Hey, un giorno, dobbiamo bigiarcela insieme ed andare da qualche parte di interessante.»
«Mi è venuta un’idea, perché non facciamo uno scherzo a Mizuiro e spargiamo un po’ di voce su di lui?»
«Se nevica, andremo a fare un pupazzo di neve.»
«L’anno prossimo, quando ci diplomeremo, guardiamo i fiori di ciliegio tutti insieme.»
«Uno di questi giorni restiamo svegli tutta la notte a parlare e poi dormiamo in classe.»
Ciò che Ichigo ed io riuscivamo ad essere poteva essere descritto in milioni di modi da tutti gli altri, ma nessuno di quei milioni di modi sapeva essere all’altezza della parola “compari”. Mi piaceva spesso inserirlo nelle nostre conversazioni, e lui non se la prendeva, e di tanto in tanto la usava anche lui. Ma il punto non era il suono che faceva. Il punto era che non volevo –non volevamo – descriverci in altro modo. E ciò mi andava bene: per una volta nella mia vita, riuscivo finalmente a sentire solo pace nel mio cuore.
Poi, verso la fine dell’estate del nostro terzo anno, Ichigo si trasferì.
Era per il lavoro di suo padre, e lui e la sua famiglia se ne andarono lontano, in una di quelle città che si sentivano spesso nominare in giro. Fu come se mi strappassero il cuore dal petto; non sentivo dolore, ma allo stesso tempo mi mancò una parte di me, e le giornate divennero nuovamente vuote e senza colori. Non ebbi più una persona con cui pranzare, andare a scuola e tornare insieme, e le serate passate a fissare le stelle ed a parlare di cose inutili sparirono. Anche se rimanemmo in contatto, non fu per niente la stessa cosa. Presi parte a sempre più risse e diventai più acida e scorbutica di prima, eppure nessuno mi chiese “Ti manca Kurosaki?” perché, ne ero certa, conoscevano già la risposta.
Quando la cerimonia di diploma terminò, mi ricordai della promessa che ci fummo fatti appena un anno prima. Non rividi mai più i fiori di ciliegio cadere assieme a Ichigo.
Se tutto ciò che ci dona la vita è il prezioso oro, se certi segreti non possono essere svelati, se si può dire che per raggiungere la felicità basta la presenza della tua persona più cara, allora è tanto reale il desiderio da me nascosto di scappare da tutto e di ritornare ai giorni sereni. Perché, in un modo o nell’altro, sarei riuscita a non rivelarlo custodendolo avidamente nel mio cuore, a chiuderlo in una cassaforte ed a dimenticarmene il codice, in modo tale da non poterlo più tirare fuori.
In modo tale da non rimpiangere la gioia racchiusa nei miei ricordi.
Di lui restò poco o niente. Era come se ci fosse stata una pioggia improvvisa che poco dopo cessava, lasciandosi dietro solo pozzanghere che presto si sarebbero asciugate alla luce accecante del sole – la ormai lontana realtà mi pareva un’illusione che aveva celato la prima parte della mia esistenza. Possedevo le tracce di un anno poco più brillante degli altri, il quale era durato abbastanza perché io non riuscissi a separarmi da esso, eppure allo stesso tempo troppo poco per poterne catturare qualche altra immagine sbiadita.
Di lui mi rimasero solo poche fotografie che si sarebbero ben presto scolorite col passare degli anni, le uniche prove concrete che dimostravano che non era stato tutto un sogno, che una persona chiamata Ichigo Kurosaki aveva illuminato il periodo meno importante della mia vita.
Ed il fatto che lui da allora non sarebbe stato al mio fianco non mi faceva più paura come prima. Cambiarono poche, impercettibili cose, sebbene viste da fuori fossero sembrate più grandi di me, ma io ritornai alla realtà. Ichigo era una persona importante per me, per questo l’avevo lasciato andare e per questo mi aveva lasciata andare. Nessuno dei due era veramente pronto a passare il resto della propria vita ad inseguire un’illusione, convincendosi che essa sia la realtà.
Mi venne in mente un giorno, a 24 anni, quando i ciliegi fiorirono di nuovo ed io guardai fuori dalla finestra come ero solita a fare al liceo, e quasi mi vennero le lacrime agli occhi, e mi chiesi cosa Ichigo stesse facendo in quel momento, se avesse trovato una fidanzata, che obiettivi avesse allora, se si ricordasse ancora della sua compare e di tutto ciò che avevamo condiviso. Se, anche solo per caso, gli venisse in mente il mio nome uno di quei giorni ed esclamasse “Ah, è passato un po’ di tempo da allora” con la stessa voce di anni prima, ma con un tono poco più maturo e poco più nostalgico.
Dopo che mi fui diplomata, riuscii finalmente a meritarmi una vacanza assieme a tutti i miei compagni (o, almeno, assieme a coloro che consideravo più stretti), sebbene non fossi tanto propensa a condividere quel periodo di pace con tutte quelle persone, ma potei vedere di nuovo il mio compare, quindi non mi lamentai tanto. Parlammo per tutto il tempo come una volta – la felicità riempi quel vuoto lasciato – e quando il momento di salutarci arrivò di nuovo, mi si strinse il cuore, chissà quando lo avrei rivisto.
Il periodo degli esami per entrare nell’università dei miei sogni arrivò, e quando fui accettata con mio grande sollievo, mi trasferii in un’altra città pure io, ed i contatti miei e di Ichigo si assottigliarono ancora di più. Ci scrivevamo un mese sì e un mese no, le telefonate divennero più rare, e i libri che ingombravano la mia nuova scrivania divorarono tutto il mio tempo libero – il colmo, se si pensa che sarei dovuta essere io a divorarli. E poi improvvisamente, un giorno mi accorsi che non avevo più sue notizie da diversi mesi, se non da un anno. E per la prima volta, se mi avessero chiesto se mi sentissi sola, avrei risposto che volevo indietro il tempo che avevo perso nel dimenticarmi il sapore della gioia.
«Rukia? Qualcosa non va?» Al richiamo della voce di Renji distolsi lo sguardo dalla finestra. «Non è niente» risposi noncurante, cominciando ad aprire uno dei tanti scatoloni che ora invadevano il mio nuovo appartamento. Mi venne malinconia, ma la scacciai per far sì che il guscio che mi sono costruita ancora una volta non venisse distrutto nuovamente. Mi concentrai sul togliere il nastro adesivo dalla superficie di cartone.
Avevo una nuova vita. Un nuovo appartamento. Un nuovo futuro. Il passato non doveva mettersi tra i piedi, altrimenti non avrei saputo nemmeno come sbattere la testa, figuriamoci dove andare a sbatterla.
Quel silenzio – opprimente – inghiottì tutta la stanza, io non dicevo niente, lui – Renji – non diceva niente, era strano, avrei voluto andare via, la colpa era mia, ero io che avevo fatto quell’espressione stupida, avrei voluto sradicare via quell’albero da sotto la finestra facendo finta che non fosse mai esistito.
«Ah, Rukia» fece lui all’improvviso, dandomi un colpo al cuore, «dove dovrei metterli, questi?»
Voltandomi verso di lui, mi accorsi che quella era una scatola normale, ma sapevo perfettamente cosa c’era dentro. Mi avvicinai, e la richiusi. «Credo dovresti andare via, ti ho trattenuto anche troppo» gli dissi.
Dalla porta, Ikkaku irruppe nell’appartamento con un altro paio di scatole in braccio. «Rukia, questi sono gli ultimi» riferì. Con mio grande sollievo, mentre quello li appoggiava a terra, dissi loro: «Grazie per l’aiuto, ora potete andare a rilassarvi da qualche parte.»
Il mio amico d’infanzia mi guardò, con una nota di perplessità nella voce. «Oggi sei particolarmente strana» disse, alzando un sopracciglio. «Dici?» risposi con tono scocciato, mentre lo spingevo verso la porta. Ikkaku indietreggiò borbottando «Hey, hey, piano», mentre Renji non si lamentò affatto. Volevo semplicemente stare da sola, almeno per quei pochi minuti che bastavano. «Grazie ancora per l’aiuto, da adesso posso fare tutto da sola, potete andare» li congedai con tono piatto, prima di chiudere la porta e girare la chiave.
Il letto che avevano portato su era ancora costituito da un semplice materasso, ma non ci badai e mi coricai sopra di esso.
Mi accorsi di avere così tanta confusione nella mente che decisi di non sforzarmi più a trattenermi. Riaprii quella scatola che Renji aveva accennato, e guardai dentro.
Erano album fotografici, anche se non avevo mai fatto tante foto. Erano perlopiù scattate da Inoue e Asano, ritraevano quei 3 anni di liceo a cui, fino ad allora, non avevo mai pensato. Era futile fare ciò, mi ero detta. Ero restia nell’aprire il primo, non mi era tanto piaciuto già l’album in sé – era stata sempre Inoue a sceglierlo – ed inoltre, se lo avessi aperto, non sarei più riuscita a richiuderlo. Non mi piaceva essere una persona che sembrava essere troppo attaccata a ciò che era successo. Fissai per un po’ la copertina, ed alla fine decisi di rimetterlo a posto. Quella era una scatola che mi ero promessa di non aprire mai. Era qualcosa di troppo personale, che mi faceva imbarazzare e sentire malinconia allo stesso tempo.
Era qualcosa di troppo intimo per poter essere svelato con tanta leggerezza.
Verso tramonto, quando sistemai gli ultimi scatoloni, quello in cui avevo rimesso l’album scivolò e cadde, rivelando molteplici ricordi che pensavo di aver sepolto quel giorno in cui entrai all’università.
C’era un CD minuziosamente nascosto nell’album, con la copertura trasparente, senza nessun titolo ad intestare su cosa fosse, perché era troppo importante e troppo stereotipato. Sperai che non si fosse rotto o che almeno abbia conservato la qualità di tanti anni fa; sapevo benissimo quanto significasse, ancora allora, quel disco per me.
Solo in quel momento, quando misi il CD nel mio computer portatile per l’ennesima volta, capii che avrei voluto rivedere Ichigo. L’ondata di ricordi che ne seguii fu solo una delle conseguenze del restare troppo attaccata a qualcuno, ne avevo paura ed allo stesso tempo essa mi rincuorava: sapevo che tutte le conversazioni di allora mi avevano fatta sorridere, che non era stato tempo perso e che i miei sentimenti di allora erano ancora vividi.
Sperai che il mio compare avesse avuto lo stesso numero che aveva l’ultima volta che ci fummo sentiti, disfai l’ordine che avevo creato, e quando lo chiamai e la segreteria telefonica mi rispose il cuore mi batteva forte; ero una ragazzina al suo primo appuntamento, e mai mi ero sentita tanto emozionata. «Sono Ichigo Kurosaki; al momento ho da fare, ma potete lasciarmi un messaggio e cercherò di richiamarvi il prima possibile» disse meccanica la voce del mio compare di una volta, la sua nota era leggermente diversa da come la ricordavo, più profonda e più calda, tanto da farmi stringere il cuore, soffocando tutte le mie sensazioni che erano sul punto di esplodere. «Ichigo, sono Rukia» riferii all’apparecchio, «ti ricordi ancora di me? Mi sei venuto in mente, così ti ho chiamato.» Non sapevo che dire, quindi cominciai a parlare di cose stupide e senza senso, fino a quando non capii che era ora di smetterla. Non volevo sprecare il mio tempo così. «Spero che tu abiti ancora in quella città» gli confidai, con il cuore in gola. Ebbi di nuovo il coraggio di guardare fuori dalla finestra, il rosa del ciliegio che tingeva quel monologo che sapeva ancora di giovinezza.
«Sto venendo a trovarti.»
Il rosso cremisi del sole morente accompagnava il mio viaggio, le mani che quasi tremavano sul volante. Avevo lasciato perdere tutto, al diavolo la mia cena, la mia serata con Renji e gli altri, la mia agognata dormita. In quel momento la mia mente era occupata da altro. Il desiderio segreto era stato rivelato per la prima volta dopo così tanti anni, ed era così malinconico che non ero riuscita proprio a resistergli, il mio impulso ebbe la meglio come succedeva sempre con quelle litigate con il mio compare.
Lui solo aveva quel potere di farmi sentire così istintiva – e viva, soprattutto.
Non era un problema mio, ma era il fatto di relazionarmi con gli altri che c’entrava. Preferivo restare chiusa perché tutti quei sentimenti accumulati erano tanto inutili, seccanti. Poiché mi accorsi di non riuscire a gestire bene tali relazioni, restavo per conto mio, cosicché il mondo esterno non potesse rompere quel cuore di pietra nemmeno se lo si avesse sottoposto alle condizioni climatiche peggiori. Ichigo era strano e diverso da tutti gli altri, e ciò esercitava un bizzarro potere su di me e sulla mia mente. Molte volte mi chiesi se non mi avesse fatto il lavaggio del cervello a mia insaputa. Ma sapevo che non era così, e che era invece quello un problema mio.
Non mi fermai nemmeno quando la notte scese, ma l’autostrada sfrecciava veloce fuori dai finestrini della mia macchina. I lampioni illuminavano la strada quasi deserta, se non fosse per qualche vettura qua e là, sicuramente di ritorno alla propria città. Mancavano almeno altre 2 ore di viaggio. Non rimpiansi il fatto di essere uscita così tardi, non avevo paura, perché una volta raggiunta la mia meta non dovrò fare altro che smettere di pensare a come rendere migliore la mia vita perché mi accorsi di non poterlo fare da sola, ed avevo bisogno di colui che l’aveva migliorata anni prima. Dalla radio, una ballata si diffondeva in quel spazio chiuso.
Il mio cellulare squillò all’improvviso, e feci un balzo sul posto per la sorpresa. Diedi un veloce sguardo al display, e, notando che chi mi chiamava era proprio la persona che stavo andando ad incontrare, accostai la macchina e spensi il motore.
«Sì?» risposi, con il cuore in gola. Erano almeno 4 anni che non lo sentivo, e ciò mi rendeva confusa, nervosa, emozionata. Con che coraggio avevo di farmi sentire dopo così tanto tempo? In quel momento non seppi se pentirmi o meno.
«Hey, Rukia, sono Ichigo» disse la voce dall’altra parte della linea; era da molto tempo che non sentivo il mio nome pronunciato da lui. Sorrisi, perché il suo rassicurante tono mi fece scaldare il cuore come la prima volta che ci incontrammo, e capii di non dover mai pentirmi quando si trattava di Ichigo. Se mi aveva accettata sin dall’inizio, mi avrebbe accettata per tutta la vita.
«Ciao» dissi sommessamente, quasi per paura di rompere quel silenzio che diventava sempre più confortevole – non come quello di qualche ora prima con Renji. «Come va?»
«Sono ok» rispose, «spero anche per te.»
Ero spaventata dal fatto di non riuscire più ad essere quella di una volta. Sembrava fosse passata un’eternità da quando avevo sentito per l’ultima volta la familiare sensazione di essere protetta, ed ero terrorizzata dal fatto di sembrar diventata troppo vulnerabile senza che qualcuno vegliasse su di me.«Sì» risposi, «sì, sto bene.»
«Dove sei adesso? Eri davvero seria quando hai detto che stavi venendo da me?» chiese, questa volta con tono poco più allarmato, e sorrisi ancora una volta. «In autostrada e, sì, ero seria. Credo che manchino solo un paio di ore prima che ti raggiunga.»
«Una volta non eri così poco cauta» mi disse in risposta lui, e me lo immaginai alzare un sopracciglio. Risi piano, perché era vero. «Te l’ho detto, è che mi sei venuto in mente. Mi è venuta un po’ di malinconia, quindi ho deciso di doverti assolutamente vedere» gli riferii.
«Sono le 10 di sera, e non credo sia una buona idea guidare fino a qui da sola. Dove sei, vuoi che ti venga a prendere?» La sua premura quasi mi fece venire le lacrime agli occhi, pensai che lui e la sua mania di dover proteggere tutti quanti non siano per niente cambiati, e la cosa era talmente bella che mi sembrò che fossimo ritornati ai tempi del liceo. Così ribattei:«Hey, ti sei già dimenticato che so difendermi benissimo da sola? Non credevo che fossi così smemorato.»
«Sta’zitta» rispose scocciato, ed io risi un’altra volta. Riuscivo benissimo a vederlo con le sopracciglia aggrottate e lo sguardo corrucciato. I lampioni della strada sembrarono attenuarsi, e per la prima volta mi accorsi che il cielo era puntinato di stelle, sebbene non molto visibili.

Era bello. Non avevo paura. L’uragano dei migliori momenti della mia vita era ritornato, e mai mi ero sentita tanto attaccata alla vita, attaccata a ciò che mi ero promessa di non fare mai: avere qualcuno di speciale.
Volevo affidargli tutti i miei più profondi segreti, rivelarglieli senza mai perdere la fiducia che avevo ciecamente posto su di lui. Quando lo avrei rivisto, gli avrei detto sorridendo e forse, solo forse, poggiando la testa sul suo petto cercando i battiti del suo cuore, “Sono a casa”, ed ero sicura che lui mi avrebbe accolta con un “Sei a casa” sommessamente pronunciato mentre mi abbracciava. Potevo immaginarmi sepolta nella marea dei ricordi riportati indietro, avremmo parlato di nuovo come se avessimo avuto di nuovo 16 anni e avremmo guardato il sole nascere. Avrei poggiato la testa sulla sua spalla, chiudendo gli occhi, sentendo il confortevole calore che mi aveva donato anni fa, e sussurrando nel frattempo cose inutili ed il suo nome – Ichigo, solo Ichigo e nient’altro – ancora e ancora e ancora, fino a quando non mi sarei addormentata, con la consapevolezza che sarebbe stato lì con me.
Da quel momento in poi.
«A proposito» ripresi a dire, sorridendo lievemente, «come mai sei riuscito a liberarti solo ora? Credo di averti chiamato almeno 4 ore fa.»
«Ah, è che ero a fare tirocinio. Mi dispiace se ho seguito la strada della medicina anziché della fotografia» mi rispose, facendomi ricordare di quella promessa di tanti anni prima. Nostalgia si insinuò sulla punta della mia lingua. «Stessa cosa per me» ribattei, «non sono diventata scrittrice, ma in compenso ho una laurea in architettura.»
«Buon per te, allora. Immagino di dovermi complimentare, anche se ti ci vedevo meglio come scrittrice.»
«Questa dovrebbe essere la mia battuta, come fotografo potevi essere fantastico.»
«Peccato, non lo sono diventato. Fattene una ragione.»
Mi venne voglia di ridere istericamente, perché era da così tanto che non mi sentivo libera di dire ciò che volevo. Con Ichigo era tutto diverso, più naturale, non dovevo nascondermi da niente: lui mi leggeva dentro, e riusciva a tirare fuori da me ogni cosa senza tanta fatica, anche se fossi stata restia a riferire ciò che non volevo che gli altri sapessero. E lui manteneva tutti i miei segreti con una tale bravura che era come se non gli avessi mai riferito niente.
Ichigo Kurosaki era stato una persona importante per tutti gli anni in cui lo avevo conosciuto, e giurai che mai non avrebbe avuto un posto speciale nel mio cuore.
«Se ci pensi, sono passati davvero 8 anni da quel giorno» gli feci notare, sperando di potergli strappare un sorriso. «Credo che dovremmo mantenere quella promessa.» Non mi ero mai riferita alle parole di quella volta come una “promessa” davanti a lui, eppure in quel momento non rimpiansi affatto di averla considerata tale.
«Già, hai ragione. Quindi credo che dovresti muoverti ad arrivare, non vorrei che guidassi tutta sola nella notte. Se hai bisogno chiamami, starò sveglio fino a quando non arriverai.»
«Sai, Ichigo, credo di essere stata davvero fortunata ad averti incontrato» me ne uscii, senza pensarci più di tanto. Quel giorno volevo assolutamente mettere a nudo tutti quegli anni di solitudine. Ne avevo bisogno, perché lui, per tutto il tempo, mi aveva invitata a non sopportare un peso troppo grande per me, e di condividerne un po’ con lui, tale che non debba sentirmi troppo triste. Credo che sorrise, perché mi disse: «Ne sono felice, perché è la stessa cosa che volevo dirti io. Ora sbrigati a rimetterti in viaggio, fammi uno squillo quando arrivi. A dopo.»
Guardai fuori dal finestrino della macchina, una mano appoggiata al volante; il mare scintillava tremante alle diverse luci sulla strada. Riuscii finalmente, dopo tanti anni, a tirare un sospiro che era di sollievo. Il blu della notte tinse l’inizio di quel nuovo periodo.
«Sì, ci vediamo dopo.»




















[EDIT: revisionata il 30/07/2012]
N/A: Quindi, dopo esattamente 3 mesi, sono finalmente riuscita a pubblicare qualcosa.
Possiamo definirla la più epica delle mie fan fiction, perché ci sto lavorando su da inizio marzo. E mai prima d’ora sono stata tanto sicura su un titolo. Doveva essere “Secrets”, ispirata ad una canzone degli One Republic, che mi aveva particolarmente aiutata nella stesura della parte centrale di questa fan fiction. Quando ho riletto la prima parte per controllare se ci fossero errori, ho pensato: “Oddio, l’ho davvero scritto, non ci posso credere”. Sono la peggiore, lo so, ah ah. Faccio schifo comunque a scrivere trame. Questa fan fiction è ciò che l’IchiRuki è per me, quindi vi prego di non far caso all’OOC probabilmente presente. Credo che sia the pairing with the most chemistry I’ve ever shipped (perché rende infinitamente meglio in inglese). Se Kubo la rendesse canon sarei la persona più felice del mondo. A tal proposito ho scritto un po’ di teorie sul mio Tumblr, che ora come ora non ho proprio voglia di elencarle qui D:
Il fandom di Bleach è morto, proprio adesso che ne sono ossessionata! Vorrei che rivivesse. E, ommioddio, avete letto il capitolo di questa settimana? [SPOILER] Non posso crederci che Kira sia morto. Lui non può morire, cosa ne sarà della Wabisuke? È una delle mie zanpakuto preferite. E, Rukia, my baby, non andare, Ichigo deve ancora confessarti il suo amore segreto per te, non puoi morire, oh god, please, Kubo gnfrbnasmdmv #all my feelings. [FINE SPOILER] Sì, insomma, sono anche ossessionata con l’IchiRuki, l’avete capito, no?
Ah, già, ho anche intenzione di tradurre questo racconto in inglese per poi postarla su FanFiction.net. Quindi sto cercando un buon beta reader che abbia una ottima conoscenza dell'inglese, così posso presentargli il mio manoscritto in lingua anglicana piena di errori :’D
Ad ogni modo, mi piacerebbe sapere cosa ne pensate di questa fan fiction, dato che è molto importante per me. A proposito, vi prego di segnalarmi gli eventuali errori che non ho corretto! Ve ne sarei grata.
Ci vediamo presto, si spera!
Noth.
P.S.: gradirei anche se leggeste questa fantastica fan fiction in inglese, una delle migliori sull’IchiRuki che abbia mai letto: Ever After, by Silver Matter. Vi avverto che è un sacco strappalacrime e lunga, però!
   
 
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