Era una calda giornata di primavera del 1928. Passeggiavo con i miei genitori lungo la riva del lago che affianca la casa dove trascorriamo le vacanze, quando vidi un ragazzo disteso a terra, con lo sguardo sognante rivolto al cielo. Abbandonai di soppiatto la mia famiglia e mi avvicinai a lui chiedendogli il suo nome. Lui, con un movimento lento, mi guardò, sorrise e mi porse la mano, con fare altruistico. Mi misi nella sua stessa posizione, controllando che la gonna non scoprisse troppo le mie cosce. Guardando le poche nuvole che rendevano l’azzurro ancor più vivace, mi sentii felice: non per la banale visuale, ma perché vedevo per la prima volta le cose dal punto di vista di qualcun altro. Da quel giorno si creò un grande legame tra me e lui. Ci frequentammo di nascosto per mesi. Finite le vacanze io tornai a casa, lui si arruolò. Non lo rividi mai più.
Peccato che sono nata 70 anni dopo. Fantasticare è l’unico appiglio che ho contro la noia di queste quattro mura bianche che mi imprigionano da anni ormai.