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Trattenne il respiro e i suoi occhi si sgranarono, mentre sentiva Sanzo pronunciare quelle parole.
“Che cosa dici?” gli domandò, perplesso “Sai cosa significa
guardare in quello specchio?”
Si scostò, sentendo che Sanzo non
rispondeva, e lo guardò in viso. Il monaco aveva volto lo sguardo verso le
pareti del corridoio, e stava immobile, forse pensando, o forse cercando di non
pensare.
Lui chiuse i suoi di occhi, e sospirò stancamente, apostrofandolo
con voce rassegnata, debole.
“Significa… rivedere i tuoi demoni, i tuoi spettri più profondi.
Sei davvero sicuro di volerlo fare?”
Anche se Sanzo non lo guardava, lui poté
quasi immaginare le sue profonde iridi
viola farsi più cupe ed intense, mosse da un desiderio forse assurdo, forse
dettato da un momento di momentanea follia.
Ah, ma chi era lui per farlo desistere?
“Perché così all’improvviso?” incalzò allora.
Sanzo serrò gli occhi, le sue labbra divennero una smorfia acida.
“Non lo so… non so più nulla.”
Goku avrebbe desiderato confortarlo. Sentiva che stava provando
dolore, lo sentiva distintamente. E gli faceva male, anche a lui. La sola cosa
che fu in grado di fare, però, fu stringerlo un poco sperando di aiutarlo in
qualche modo.
Lo prese per mano, delicatamente.
“Se veramente lo vuoi… andiamo…”
Ma non era convinto, non del tutto. C’era qualcosa di opprimente a
pesargli sul cuore, la preoccupazione per Sanzo
certo… ma non soltanto. E il fatto che non riuscisse a comprendere di cosa si
trattava non lo rendeva più tranquillo.
Appena varcarono la maledetta soglia di quella stanza, la prima
cosa che fece fu inalare il lieve odore di muffa e umido dell’aria. Poi guardò Sanzo, con gli occhi lucidi per la sofferenza. Mentre lo
guardava sentiva il dolore farsi sempre più acuto. Batté le palpebre, e
continuò a fissarlo comunque. Era in tempo per tornare indietro, ancora. Poteva
evitare di rivivere i suoi incubi… incubi che una persona avevano il potere di
distruggerla.
Guardò lo specchio, che era stato parte così integrante della sua
venuta in quel mondo, e guardò ancora il monaco.
Lo vide avvicinarsi allo specchio, lo vide guardare. Poté misurarne
ogni passo.
E chiuse gli occhi, cedendo.
Temeva che non sarebbe riuscito a guardare, ma alla fine il suo
desiderio di aiutarlo ebbe la meglio. Lo avrebbe aiutato a superare il passato…
o quantomeno ci avrebbe provato. C’erano cose che non si potevano dimenticare,
no. Cose che ti segnavano all’infinito. Cose con cui o imparavi a convivere o
ne uscivi pazzo.
Non seppe mai di preciso cosa Sanzo vide
nello specchio quella volta. Non lo seppe mai e neppure glielo chiese. Ancora
una volta, non aveva diritto di impicciarsi. Si sarebbe accontentato di stargli
vicino, di tirarlo fuori da quell’incubo.
Non seppe cosa lui stesse rivivendo, ma certamente era qualcosa che
per lungo, lungo tempo l’aveva segnato. Qualcosa che non s’era mai perdonato.
Non lo seppe mai, ma gli fu accanto come lo vide tremare, e
accasciarsi in ginocchio a terra. Era come se stesse chiedendo perdono a
qualcuno, senza vedere più nulla a parte quella proiezione della sua mente.
Lo sentì sussurrare una singola parola: “Maestro…”, e si
inginocchiò accanto a lui abbracciando il suo corpo che fremeva.
Stava male, stava soffrendo insieme con lui.
Poi, mentre ancora le sue mani cingevano forte le spalle del bonzo,
un guizzo nella superficie dello specchio attrasse la sua attenzione. Qualcosa
che aveva captato con la coda dell’occhio, qualcosa che avrebbe potuto
tranquillamente ignorare. Ma c’era in fondo al suo cuore una sensazione che gli
guidò gli occhi verso l’alto, e le sue iridi di miele s’allargarono, con paura
e indicibile dolore. Con rassegnazione, con consapevolezza.
Perché lui quel che stava vedendo in quello specchio lo sapeva
bene, e altrettanto bene lo comprendeva. Ma non poteva impedirsi di star male.
C’era Sanzo, lui lo vedeva solo riflesso,
in ginocchio, e vedeva le sue braccia che lo stringevano, sperando di aiutarlo
anche solo con la sua presenza.
Però… quei capelli, quel volto, quegli occhi che lo guardavano in
una sorta di cupa mestizia, con qualcosa che a lui parve tanto pietà, erano
quelli dell’altro.
Era l’altro ad abbracciare Sanzo, non
lui.
E lui lo sapeva, lo sapeva, lo sapeva, sempre l’aveva saputo, oh
cielo dannato!
Si trovò a scuotere il capo, lentamente, con movimenti quasi
intorpiditi, fissando con le labbra socchiuse le iridi del suo riflesso.
‘Non mi compatire… non mi compatire… non mi compatire…’
Tentò di fermare le lacrime. Ci provò, respirando quanto più a
fondo i suoi polmoni gli consentissero, riuscendo solo ad emettere un rantolato
lamento gutturale, interrotto da singhiozzi simili a convulsioni che gli
provocavano dolore in ogni muscolo del petto.
Non riusciva ad abbassare lo sguardo, per quanto ardentemente lo
desiderasse.
‘Non mi compatire…’
Solo guardarlo poteva, con gli occhi larghi e il respiro affannato
per lacrime che gli scendevano fino in gola.
Non voleva avere pietà da lui. Era perfettamente cosciente di quale
fosse il suo destino. L’aveva capito molto e molto tempo prima.
‘Della tua compassione non me ne faccio nulla… perciò… smetti,
smetti, smetti di guardarmi!’
E in mezzo al dolore sovvenne un moto di rabbia, improvvisa e cieca
come la gelosia, che si estinse nelle lacrime al pensiero di quanto inutile,
effimero, penoso fosse stato tutto quel che aveva fatto fino a quel momento.
Quanto sarebbe stato meglio che mai, mai, mai si fosse avvicinato a
Sanzo al punto da toccare quel suo corpo, al punto da
sciogliere il legaccio dei suoi sentimenti fino a venirne soverchiato!
Perché ora, in confronto a quel dolore, tutto gli pareva minimo.
Ogni cosa.
Riuscì a deglutire, e sentì come se quelle lacrime indecenti gli avessero
infine bloccato perfino il respiro. Faticosamente distolse lo sguardo da quello
dell’altro, voltò il capo e serrò gli occhi, le labbra contorte in una smorfia
amara, poi respirò, più e più volte, profondamente, il corpo scosso da un unico
tremito inarrestabile, preda ancora di quei maligni singhiozzi disperati.
E, alzando le braccia al cielo, urlò.
Urlò fino a non sentir più la sua voce, urlò fino a sentir vibrare
ogni sua cellula, urlò fino a stordirsi, senza percepire più nulla.
E nelle urla, in quel momento si sentì morire, e sentì il peso
soggiogante di quella sconfitta, e volle solo che il dolore lo inondasse,
emergendo dentro di lui e dilaniandogli la mente, il corpo, il cuore,
disintegrando perfino i pensieri. Orrendamente macellando tutto ciò che poteva
rimanere di se stesso.
Più nulla vide, né sentì se stesso crollare contro il pavimento
simile a un burattino di legno coi fili strappati.
Volle solo la morte, con tutte le sue forze la chiamò, pregando per
non dover sopportare più il peso di quella colpa che era stata, per lui, amare.
Fu nel buio e solo nel buio che per qualche istante vide gli occhi
di un ragazzo.
Occhi azzurri come il cielo di primavera.
Occhi che lo guardavano come se capissero.
Non gli parlò né fece nulla.
E tornò il buio.
Inspirò, allargando appena le narici. E tornò ad espirare. Mosse
appena le dita delle mani, e sentì un breve chiarore dietro le palpebre chiuse.
Seppe che era giorno, e seppe di essere su un letto avvertendo la
morbidezza di un materasso dietro la schiena.
Allora non era stato esaudito… la morte non era infine
sopraggiunta…
Allungò silenziosamente un braccio al suo fianco, e come
s’aspettava trovò un’altra mano, identica alla sua, di un corpo che gli stava
steso accanto.
Non volle guardarlo, anche se aprì gli occhi.
Non volle, perché sapeva che l’avrebbe odiato. E non voleva farsi
ancora del male.
La testa gli doleva come se qualcuno gli stesse scavando nel
cervello strappandoglielo a brandelli. Non riusciva neppure a pensare.
Chiuse gli occhi, quando ne captò l’odore. L’odore per lui
inconfondibile di quel monaco che amava tanto.
Una volta di più fu certo di quanto fosse troppo, troppo tardi per
tornare indietro.
Non avrebbe voluto sentirne la voce, ma prima che fosse in grado di
impedirlo aveva già parlato: “Che è successo?”
“Sei svenuto.”
La solita, vaga, rassicurante inespressività di quella splendida
voce. Si trovò a sorridere, suo malgrado, piccolo, ingenuo, immaturo ragazzino
innamorato. Gli era parso di scorgere del sollievo nel tono di Sanzo. Sperò di aver visto giusto, perché ancora, testardo
e orgoglioso, non s’arrendeva a una sconfitta inevitabile. Illuso.
“E tu? Come stai?”
Sanzo lo guardava, e non gli rispose nulla. A Goku
bastò leggere il dolore nei suoi occhi, e non gli chiese più altro. Non se ne
sentiva in diritto, anche se forse l’altro l’avrebbe fatto. Ma lui… lui no. Lui
di quel mondo non era mai stato parte.
“Ho sognato…” sussurrò allora, ricordando “…ho sognato Hyaris…”
Vide Sanzo sgranare appena gli occhi, e
sorrise. Sentiva il corpo molto debole, troppo, ma non ci diede alcun peso.
Immaginò che fosse a causa dello shock di poco prima.
Non disse altro a Sanzo, non gli disse
che anche negli occhi di Hyaris aveva letto la stessa
pena che c’era in quelli di Goku.
Non glielo disse per non essere compatito anche da lui.
“Ora vorrei riposarmi un po’… se non ti dispiace. Mi fa male la
testa.”
Sanzo annuì, lo lasciò solo, e Goku
gliene fu grato.
Nel buio udì soltanto il suo respiro, e cercò la mano dell’altro.
“Il mio vero corpo…” sussurrò.
Sentì ancora quella rabbia sorda, e se ne avesse avuto le forze
avrebbe pianto. Ignorò, scelse di ignorare quell’orrida sensazione.
Digrignò i denti.
“Maledetto…” mormorò al buio.
Ma non l’avrebbe odiato, no, mai. Non avrebbe odiato il suo cuore.
Sapeva bene quanto sarebbe stato inutile anche quello.
Prima di potersene rendere conto, s’era addormentato.
Un sonno senza sogni, un sonno quieto, così totale… il sonno che
avrebbero potuto fare i morti.
Il senso d’inquietudine tornò poi, quando il suo sonno si fece pesante,
maligno, soffocante come piombo sul suo corpo.
I suoi occhi non s’aprirono. Non vollero aprirsi, le palpebre
incollate l’una all’altra come da del cemento.
Ma lui era ancora così cosciente! E quella sensazione… ah, se la
conosceva! Era la stessa, medesima sensazione di quand’era rinchiuso. Così
inerme, così debole, così desideroso ma incapace di muoversi, incapace di
qualunque cosa!
Fu nel silenzio che il giorno tornò, anzi era buio, notte in
realtà, e i suoi occhi finalmente si schiusero di nuovo.
Scoprì di far fatica a tenerli aperti, ma aveva anche la sensazione
di non potere chiuderli, troppa era la paura improvvisa di non svegliarsi mai
più! La fatica era insopportabile, ma si impose di non cedere, di non dormire.
Che oscuro, terrificante risveglio era mai quello?
Tentò d’alzare un braccio. Nulla, neanche quello gli era concesso.
Se avesse voluto aprire la bocca per parlare, non avrebbe potuto
farlo se non dopo uno sforzo che gli pareva immenso, e tutto ciò che gli fu
possibile emettere fu un flebile e lamentoso uggiolio.
Doveva calmarsi, e concentrarsi. Non era ancora morto. E mai, mai
aveva sentito così forte il desiderio di vivere ancora un po’. Lo chiamò, e
sentì il suo potere, la sua energia spirituale affluire con forza,
riscaldandogli i tessuti, percorrendogli la carne ed irrorando di vita i suoi
muscoli.
Mai gli era accaduto di doverlo fare, prima.
Mai era stato così sofferente, prima.
Quel corpo fasullo si stava forse degradando?
No, poteva dirlo con certezza: ne sentiva ogni fibra, ogni cellula,
ed erano tutte meravigliosamente vive.
Finalmente poté tornare a respirare, quando quello stato di
malessere parve attenuarsi. Inalò la fresca aria notturna con sollievo, e
quando finalmente i suoi polmoni ne furono inondati si levò a sedere, ignorando
la leggera fitta di dolore che gli aveva scosso lo stomaco.
“Che sta succedendo?” si chiese.
La risposta gli giunse chiara come la luce, dopo qualche secondo di
attenta riflessione. Probabilmente, se il suo corpo era a posto, stava
accadendo qualcosa a chi quel corpo gliel’aveva dato.
S’alzò in piedi lentamente, scoprendo per sua fortuna di riuscirci
quasi senza sforzo.
Neppure ci pensò, ma corse immediatamente verso la camera di Sanzo. Poco importava che stesse dormendo, cosa quasi certa
vista l’ora. Era importante. Era importante che lo facesse.
Aprì la porta, che non era chiusa a chiave, ed entrò.
“Sanzo…” sussurrò.
Lo vide che dormiva, e trattenne il fiato. Era così bello, così
bello! E lui… che cosa gli avrebbe detto?
Osservò quella figura distesa, pallida contro la luce della luna
che filtrava dalla finestra, e sentì il suo cuore arso riscaldarsi.
Sorrise, poi arrossì un poco.
Ah… si sarebbe dato del coglione. Aveva finito
per innamorarsi come un bambino ma, si ripeté, il suo cuore non l’avrebbe
maledetto. Anche se sarebbe finito soffrendo, e anche di questo era certo.
S’avvicinò al letto e si stese sopra Sanzo,
stando bene attento a non svegliarlo, poi sfregò una delle sue guance calde
contro la sua fronte e gli baciò le labbra.
Chiuse gli occhi e lo tenne stretto, ancora per un po’. Non voleva
altro, in quel momento. Nient’altro se non potersi cullare in quell’amore in
eterno.
Ormai non sarebbe riuscito a lasciarlo, il solo pensiero era in
grado di terrorizzarlo. Sarebbe stato ucciso dal dolore.
S’alzò e fece per allontanarsi dal letto. Poteva solo allontanarsi,
scappare. Ancora pochi passi e sarebbe stato fuori della stanza.
Ma il suo piede non toccò mai la terra, e ancora i suoi occhi
videro solo il buio.
- continua -
N.d.A. Bene… posso tirare un
sospiro di sollievo avendo finito questo capitolo che mi ha fatto venire un
magone atroce. Nel prossimo capitolo, il venti, la vicenda del Seiten arriverà a una conclusione. Ma più che di questo mi
interesserebbe parlare un po’ del rapporto fra lui e Goku,
su cui ho incentrato questo capitolo. Il Seiten vuole
bene a Goku come parte di se stesso, ma al contempo
prova una gelosia inarrestabile e anche abbastanza ovvia. Sa bene, in ogni
caso, di non poter competere con lui ed è questo che lo fa soffrire più di
tante altre cose… il sapere che per quanto lo ami, Sanzo
non potrà mai essere completamente “suo”. Questo ovviamente perché lui non
comprende di essere una cosa sola con Goku…
Arrivederci al prossimo
capitolo!