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Autore: Kary91    03/06/2012    18 recensioni
Sono trascorsi quasi trent'anni da quando abbiamo incontrato per la prima volta Elena Gilbert e i fratelli Salvatore.
A Mystic Falls molte cose sono cambiate da allora; i ragazzi sono cresciuti, gli adulti invecchiati. Nuove generazioni di adolescenti portano il cognome delle famiglie fondatrici, eppure certi dettagli hanno concluso per rimanere in circolazione nella vita di ogni giorno destinati a ripetersi all'infinito ; in un modo o nell'altro la storia si ripete e Caroline Forbes di questo è al corrente, nel momento in cui decide di tornare a Mystic Falls:questa volta per restare.
***
“…Hai presente quando eravamo piccoli e io cercavo di farti cagare sotto, raccontandoti storie di cadaveri sanguinolenti e orripilanti mostri succhia-sangue?”
Jeffrey assunse un’espressione perplessa.
“Me lo ricordo fin troppo bene, direi…”
“Ricordi anche quando cercavo di convincerti che mio padre fosse un lupo mannaro?”
“Per via di quella storia, avevo incominciato ad andare nel panico ogni volta che rimanevo da solo in una stanza con lui…”
“…E se ti dicessi che non tutte le stronzate che dicevo da bambino fossero effettivamente delle balle?”
“Ti risponderei che bevi troppo.”
Genere: Introspettivo, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Elena Gilbert, Jeremy Gilbert, Matt Donovan, Nuovo personaggio, Tyler Lockwood
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'It calls me home.'
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“Write me a paper,then.”

 “Ok, about what?”

“History. Pick a topic, keep it local and no Wikipedia regurgita. These old towns have a lot of rich history, so…Just get your hands dirty, make it sing and you’re back on track. Deal?”

 “Yeah,deal!”

Episode 1x09. History Repeating

 

Chapter 8.

History Repeating.

 

Well I know the feeling
Of finding yourself stuck out on the ledge
And there ain't no healing
From cutting yourself with the jagged edge.

Lullaby. Nickelback

 

 

Il telefono squillò a vuoto diverse volte, prima che Tyler avvertisse dall’altra parte del ricevitore la voce della segreteria telefonica. Inspirò profondamente, continuando a camminare avanti e indietro lungo il corridoio, lo sguardo teso, pronto a scattare alla minima fonte di rumore. Si decise a lasciare un messaggio in segreteria, la voce scalfita da una nota di esitazione.

“Caroline… sono Tyler.” inspirò a fondo una seconda volta, prima di proseguire. “Stai bene?”

Una porta si aprì alle sue spalle; si affrettò a voltarsi, osservando poi con delusione due infermieri attraversare il corridoio: la porta della sala operatoria era ancora chiusa. Appoggiò la schiena al muro e riprese a parlare al cellulare.

“Ascolta… ho bisogno che tu mi raggiunga in ospedale il prima possibile. Passa di qui non appena ricevi il messaggio. Fa’ in fretta.”  aggiunse. Chiuse la chiamata e si cacciò nuovamente il cellulare in tasca, lo sguardo a interrogare in silenzio la porta della sala operatoria. Più i minuti scorrevano e più si trovava a desiderare che non si aprisse mai; era ansioso al pensiero di quello che avrebbero potuto comunicargli i medici. Voleva starsene lì, dove ancora poteva aggrapparsi a qualche brandello di fune sfilacciata per evitare di cadere a terra. Lì, dove se ne stavano i codardi, incapaci di mettersi in gioco quando a sfidarli erano le loro paure più grandi. Lì, dove suo figlio Mase sarebbe rimasto per sempre un ragazzino spaventato: ma nulla di più.

Appoggiò anche la testa al muro, incrociando le braccia al petto. Le iridi scure dell’uomo fulminarono la porta della sala operatoria ancora una volta, prima di saettare verso le scale, riconoscendo i passi affrettati di due persone.

“Papà!”

Si irrigidì, nell’avvertire quel tono di voce. Ricki camminava con andatura incerta, lo sguardo stralunato e l’aspetto scomposto di chi è stato appena scrollato con forza, dopo aver avuto un incubo. Jeffrey camminava al suo fianco.

 “Papà, che succede?”

“Vai a casa, Ricki.”

Le iridi scure di Tyler si scontrarono con quelle identiche del figlio e le fulminarono con aria di ammonimento. Ricki non lo ascoltò.

“Ha appena chiamato Vicki.” continuò imperterrito guardandosi intorno, come se stesse cercando qualcuno. “Un incidente... ha detto… ha detto che c’è stato… dov’è Mase? Papà, dov’è…”

“È a casa. Sta bene.”

Lo interruppe bruscamente il padre, spezzando l’incontro fra i due sguardi. “Vacci anche tu. Anzi, resta a dormire da Jeffrey per questa notte. Guida tu.”  aggiunse, rivolgendosi all’altro ragazzo che annuì, afferrando l’amico per un braccio.

“Andiamo…” comunicò a Ricki, che tuttavia non si mosse.

“Se Mase è a casa, come mai sei qui?” domandò ancora, liberandosi dalla presa di Jeff. Tyler sbuffò, lo sguardo improvvisamente più vivo, più brusco.

“Ho investito qualcuno.” ringhiò in tono di voce meno fermo, ricambiando l’occhiata decisa del figlio. “Lo stanno operando, adesso vai e resta dai Donovan fino a quando non ti richiamo io.”

“Ricki, muoviti…” cercò di convincerlo l’amico, notando con nervosismo l’espressione adirata di Tyler. Lo tirò una seconda volta per il braccio, ma Ricki si liberò dalla sua presa.

“Chi hai investito? Papà, è successo qualcosa!” riprese, appoggiandogli le mani sulle spalle, per poi sostenere il suo sguardo con espressione preoccupata. “Quel mal di testa strano, è successo anche a te, vero? E a Mase? Mase sta…”

Tyler si passò una mano sul viso, riprendendo a inspirare con forza. Ricki arretrò, indugiando sulla venatura di rabbia che aveva preso a illuminare i suoi occhi.

“Ha bevuto troppo…” lo giustificò Jeff, afferrandolo per il braccio e strattonandolo all’indietro. Ricki scosse il capo, allarmato dall’eccesso di collera del padre.

“È successo qualcosa a mio fratello.” intuì, mormorando la frase a mezza voce. Improvvisamente si sentì stanco; stanco e pesante. Aveva attraversato l’ospedale di corsa senza mai vacillare, ma in quel momento si sentì piombare crollare addosso tutto quello che gli era accaduto nel corso della sera; l’eccesso di alcool, il mal di testa improvviso, la chiamata di Vicki, la paura che aveva avuto. Tutto.

Sollevò il capo in direzione del padre e si accorse, con paura, che il suo sguardo riluceva di rabbia. Di rado l’aveva visto così in collera. Arretrò d’istinto.

“Ricki, cristo, fuori di qui.” ringhiò ancora una volta Tyler, indicando le scale con un gesto fermo del braccio. “Se me lo fai ripetere ancora una volta, giuro che fuori ti ci mando io!”

Ricki annuì. Gli rivolse un’ultima occhiata apprensiva e gli diede le spalle, allontanandosi con Jeffrey al seguito. Tyler sospirò, recuperando con calma il controllo su se stesso. L’eccesso di rabbia sfumò lentamente nella stanchezza mista a nervosismo che gli aveva fatto compagnia per i venti minuti di veglia precedenti all’arrivo del figlio. Stava cercando una sedia, quando il cellulare incominciò a vibrare. Lo estrasse in fretta dalla tasca e controllò rapidamente il display: era sua moglie.

“Ehy…”  il timbro pacato della voce di Lydia riuscì a lenire in parte la sua rabbia “Hai parlato con Caroline?”

“Ha il cellulare spento…” rispose Tyler, tornando a fissare la porta della sala operatoria. “Penso si sia sentita male anche lei.”

“Ha chiamato proprio adesso Elena. Caroline è a casa sua con Liz e Matt, Elena lo sta chiamando per avvertirli; Caroline arriverà presto.”

Tyler annuì. Esitò un istante, prima di rivolgersi nuovamente alla donna.

“Mase sta bene?” domandò a quel punto.

“È qui vicino a me.” rispose Lydia. “Gli vuoi parlare?”

Tyler si irrigidì. Strinse con più forza il cellulare, cercando di convincersi a parlare con il figlio, ma alla fine ci rinunciò.

“Digli che andrà tutto bene.” si limitò a comunicare, posandosi stanco una mano sul volto.

Mi dispiace, aggiunse mentalmente in silenzio, prima di chiudere la chiamata. 

And you can't tell
I'm scared as hell
Cause I can't get you on the telephone

Lullaby. Nickelback

 

***

Fell attraversò in fretta la strada per raggiungere il luogo dell’incidente, l’espressione guardinga a esaminare la macchina che aveva causato il tutto, il cellulare appoggiato all’orecchio.

“Sì, sono già qui.” spiegò al suo interlocutore, sorvolando sul motivo per cui avesse impiegato così poco a raggiungere quella zona.  “Ero sulla strada.” si limitò ad aggiungere, camminando vicino alla macchia di sangue di fronte alla vettura. “Chi è stato investito?”

“Un certo Jerome Clay.” comunicò il suo collega dall’altro capo del ricevitore. Fell fece una smorfia incredula.

“Il vagabondo?”  sbottò spiccio, scoccando un’occhiata di sfuggita alla sua auto: si assicurò che la scatola recuperata dai Lockwood non fosse individuabile, sbirciando attraverso il finestrino.

“Sì, è un senzatetto che bazzica spesso da quelle parti.” confermò l’altro. “Diciamo che in parte se l’è cercata, era completamente ubriaco.”

“È morto?” domandò a quel punto Fell, frugandosi in tasca con la mano libera alla ricerca di una sigaretta.

“Non ancora.” dichiarò il collega con un barlume di esitazione, mente controllava gli ultimi messaggi che gli erano arrivati. “Lo stanno operando, ma a quanto pare è davvero mal ridotto.”

“Chi ha causato l’incidente?” chiese ancora lo sceriffo, analizzando la vettura ferma in mezza alla strada con una punta di sospetto nello sguardo: conosceva quella macchina.

“Ah, non ci crederai mai.” ribattè il suo interlocutore, facendo una pausa, per fomentare la curiosità dell’altro uomo. “Tyler Lockwood.” dichiarò infine.

Fell si fermò di scatto.

“Lockwood?” sbottò di rimando. Tacque un istante, per ascoltare le parole del collega dall’altro capo del ricevitore.

“Proprio così. Stava portando a casa il figlio da una festa e pare che Clay sia sbucato fuori all’improvviso.”

 La sua espressione inquieta, venne d’un tratto velata un alone di consapevolezza.

“A che ora è successo tutto questo?” domandò in fretta, spostando lo sguardo in direzione della tenuta dei Lockwood. Sorrise in maniera appena percettibile, quando il collega gli comunicò la sua risposta.

“Saranno stati quaranta, quarantacinque minuti fa.”

Fell ignorò la sfumatura di incertezza nel tono di voce dell’uomo e fece rapidamente mente locale: l’orario coincideva, bene o male, con il momento in cui la figlia dei Donovan lo aveva sorpreso nel cortile dei Lockwood. Che il dispositivo avesse funzionato sul serio? In tal caso, se Lockwood ne era rimasto affetto, significava che le ricerche di Bill Forbes erano corrette? I Lockwood erano oppure no afflitti da  una maledizione?

“Qualche testimone, oltre al ragazzo e a Clay?” chiese ancora una volta, tornando a dirigersi in direzione della sua macchina.

“Nessun testimone.” ribattè pronto il suo interlocutore. “Il resoconto di Lockwood regge, comunque. Clay non ha attraversato sulle strisce e gli è andato addosso.”

“Era sicuramente oltre i limiti di velocità…” obiettò ancora Fell, scoccando un’ultima occhiata pensierosa all’auto di Tyler. Il collega esitò un attimo, prima di rispondere.

“Mi dispiace.” commentò infine, mentre lo sceriffo si affrettava a recuperare le chiavi della sua auto. “Non so proprio dirti di più.”

Si salutarono e Fell chiuse la chiamata. Una volta entrato in macchina si chinò per recuperare la scatola che aveva infilato sotto uno dei sedili; ci sbirciò dentro, rimuginando sull’incidente. A quanto scriveva Forbes nelle sue ricerche, per scatenare la maledizione dei Lockwood era necessario compiere un omicidio. Né lui, né gli altri membri del Consiglio erano riusciti a verificare se Tyler Lockwood avesse mai provocato la morte di qualcuno. A quel punto, l’unica cosa che potevano fare era attendere: se Jerome Clay fosse morto quella notte in ospedale, investigare sul passato di Lockwood non sarebbe più stato necessario.

***

Please let me take you
Out of the darkness and into the light
Cause I have faith in you
That you're gonna make it through another night

Lullaby. Nickelback

Lydia appoggiò il cellulare sul comodino, lasciandosi sfuggire un sospiro. Si sedette sul letto del figlio minore e appoggiò con tenerezza una mano sul capo del ragazzo, per fargli una carezza; Mason non reagì. Rimase immobile, ancora rannicchiato su un fianco, lo sguardo impassibile puntato contro il muro. Tremava.

“Hai freddo, tesoro?”  domandò la donna, accentuando la preoccupazione sul suo volto. “Fammi controllare il taglio sull’occhio.”

Si chinò leggermente, per esaminare la fronte del ragazzo; durante l’urto contro il volante, Mase si era provocato un taglietto all’altezza del sopracciglio. Era una ferita superficiale, risolta con pochi punti e un paio di raccomandazioni da parte degli infermieri. Mason aveva voluto lasciare l’ospedale il prima possibile e non appena arrivato a casa era corso a rifugiarsi in camera sua; non si era mosso da allora. Se ne stava in silenzio e, di tanto in tanto, tirava su col naso. Lydia aveva continuato a fargli compagnia, gli occhi tristi che lo vegliavano con tenerezza, il cuore in conflitto tra la fiducia e il dolore. L’apprensione le velò il volto, nel riconoscere tutto quello smarrimento nei silenzi, nel volto di suo figlio. Sapeva che qualcos’altro di ben più grave stava lottando per mettere a rischio il futuro di Mason, ma in quel momento faticava a prestare ascolto a quei pensieri. Era rannicchiato su se stesso, tirava su col naso e tremava. Era spaventato; l’unica cosa di cui Lydia voleva occuparsi, era cercare di stargli vicina.

“Morirà, vero?” lo sentì domandare dopo una decina di minuti; lo sguardo del ragazzo era ancora puntato contro il muro. “Morirà. L’ho ucciso.” lo disse in tono di voce secco, ma Lydia avvertì distintamente un principio di esitazione tra le sue parole.

“Starà bene, vedrai.” cercò di rassicurarlo, accarezzandogli la schiena con dolcezza. “Non è stata colpa tua, Mase.” Mason colpì il muro con le nocche.

“S-Sì che è stata colpa mia!” sbottò, alterando il tono di voce. “C-Chi stava guidando?” ringhiò, inciampando nelle sillabe iniziali della prima parola. “C-Chi, chi non ha fermato la macchina in tempo? Io!” .

“No, Mase…”

Lydia mormorò scuotendo il capo, le mani a circondare con fermezza le spalle di suo figlio. Sospirò, appellandosi al barlume di controllo che ancora non aveva ceduto terreno allo sconforto.

“Non è stata colpa tua.” ripeté decisa, scandendo lentamente le parole. Mase tornò ad affondare il capo nel cuscino, lo sguardo nuovamente aggrappato alla parete, ferito e disilluso.

“Combino sempre casini.” mormorò infine, scuotendo appena il capo, le lacrime a rigare silenziose il suo volto. “P-Perché…”

“Shhhh…” la madre cercò di tranquillizzarlo, prima di chinarsi ulteriormente per abbracciarlo. “Andrà tutto bene.” lo rassicurò con dolcezza. “Non ci pensare per ora, andrà tutto bene.”

 “P-perché sono sempre io a combinare c-casini?” insistette Mason, tornando ad alzare il tono di voce. “P-perché, perchè faccio così schifo, perché?”

“Ehi!” Lydia lo rimproverò in tono di voce fermo, stringendosi maggiormente a lui. “Basta così. In questa famiglia non c’è nessuno che fa casini e non c’è nessuno che fa schifo. Sono stata chiara?” domandò, alzando appena il tono di voce. Ma si sentì a pezzi nell’individuare le lacrime che rigavano le guance del figlio.

 

Stop thinking about
The easy way out
There's no need to go and blow the candle out

Mase non rispose; rimase in silenzio per qualche istante, prima di inspirare con forza, voltandosi in direzione della madre.

“S-Sono quello uscito peggio dei tre.” ammise. infine Lydia negò prontamente.

“Questo non è vero.” ribattè con fermezza.

 “I miei fratelli …”

“Ricki e Caroline hanno tanti difetti, quanti ne hai tu.” lo interruppe la madre, prima di tornare ad accarezzargli i capelli. “E vi amiamo anche per questo, lo sai?” aggiunse con dolcezza. “Tutti e tre alla stessa maniera. Puoi ‘combinare tutti i casini’ che ti pare, Mason Lockwood: per quanto ci riguarda, io e tuo padre continueremo a considerarti una delle tre cose più belle e importanti che ci siano mai capitate. E nessuna di queste tre è uscita peggio rispetto alle altre due. Perciò non dire mai più una cosa del genere, perché è la sciocchezza più grande che abbia mai sentito.”  aggiunse, chinandosi per baciargli il capo. “Ti voglio bene, Mase.”

Mason annuì, lasciandosi ricadere nuovamente sul cuscino. Inspirò a fondo più volte, cercando di riprendersi.

“Ho deluso papà.” ammise ancora infine, stanchezza e sensi di colpa mescolati nel suo sguardo. Lydia scosse il capo con decisione.

“Non dirlo nemmeno per scherzo.” lo contraddisse con dolcezza, tornando ad accarezzagli il capo. “Tuo padre è solo preoccupato per te. Vuole che tu stia bene, solo questo.” lo rassicurò.

Mase si decise finalmente a voltarsi, per ricambiare lo sguardo della madre. Le lacrime ancora presenti e lo smarrimento rappreso fra quei lineamenti generalmente fermi e scostanti le infusero ancora più tristezza.

“E, e allora, perché non è qui?” domandò Mase a bassa voce, accennando a una smorfia, nel sentirsi inciampare di nuovo sulle prime sillabe.

Lydia sospirò. Il suo sguardo accarezzò con tenerezza i lineamenti del suo ultimogenito, un barlume di tristezza incastonato fra gli occhi chiari; pensò a suo marito, al tono di voce stanco e risentito con cui le aveva parlato al telefono e la fiducia che l’aveva sostenuta fino a quel momento vacillò.

“Tornerà non appena i medici usciranno dalla sala operatoria.” lo tranquillizzò un’ultima volta. “Adesso, però, cerca di dormire un po’.” aggiunse infine, alzandosi in piedi. Mase annuì, passandosi con un gesto brusco il dorso della mano sulle guance. Chiuse gli occhi, tornando a girarsi su un fianco. Non aveva più voglia di pensare, né di battersi per cercare di evidenziare alla madre i problemi in cui finiva per invischiarsi ogni volta che metteva piede fuori casa. Si sforzò di prendere sonno augurandosi, in silenzio, che al suo risveglio non ci sarebbe stato più nulla di cui preoccuparsi. L’uomo che aveva investito sarebbe sopravvissuto all’intervento. Il mal di testa sarebbe scomparso. Il senso di colpa sarebbe scivolato via dal suo stomaco.

Lydia lo osservò dormire per un po’, incapace di abbandonare la stanza. Recuperò il telefono dal comodino e lo strinse forte, interrogandone lo schermo vuoto con lo sguardo. Si chiese come stessero procedendo le cose in ospedale; se Caroline avesse raggiunto Tyler, se in quel momento si trovasse in sala operatoria, o se non fosse arrivata in tempo. Si sforzò di sfuggire a quei pensieri e tornò a sedersi sul letto di Mason. Gli fece ancora una carezza, il cuore conteso tra l’apprensione e la tristezza.

Andrà tutto bene, Mase.  Pensò fra sé, cercando di infondersi fiducia; così ad occhi chiusi, rannicchiato su un fianco, suo figlio le sembrava ancora più bambino di quanto già non fosse.

Il suo bambino.

Non gli sarebbe successo nulla. Non doveva succedergli nulla. Lei non l’avrebbe permesso.

Andrà tutto bene.


Because you're not done
You're far too young
And the best is yet to come

Lullaby. Nickelback

***

Si accorse che Mason si era arrampicato su una sedia

e aveva preso a sbirciare fuori dalla finestra con aria preoccupata.

“Ehi giovanotto.” lo richiamò, raggiungendolo.

“È ora di andare a nanna.”

Mason scosse il capo lentamente, voltandosi in direzione del padre.

“Lu-lupi.” mormorò con aria spaurita indicando la luna.

“Nessun lupo verrà a darti fastidio questa notte.”

lo rassicurò Tyler, accarezzandogli il capo con tenerezza..

“Te lo prometto.”

 

da She’s watching over us.

Di tutti i posti in cui non aveva messo più piede a Mystic Falls, il reparto di terapia intensiva dell’ospedale era di certo l’ultimo che avrebbe scelto di visitare per darsi una rinfrescata alla memoria.

Caroline Forbes stava rimuginando qualcosa di simile nel momento in cui raggiunse il corridoio che portava alla sala operatoria. Individuò subito Tyler, lo sguardo chino e le mani intrecciate appoggiate alle labbra, seduto a pochi metri di distanza da lei.

“Tyler!” esclamò a quel punto, correndogli incontro. “Scusa il ritardo, non so che cosa sia successo… ho sentito un dolore fortissimo alla testa e sono svenuta.” spiegò in fretta, prima di rivolgergli un’occhiata apprensiva. “È successo anche a te?  Matt mi ha detto che stavi guidando e che hai avuto un incidente…”

Tyler non rispose; si passò una mano sotto il mento e inspirò con forza, appoggiando la schiena al muro. Caroline si morse un labbro, marcando l’esitazione nel suo sguardo. “Mi ha detto anche che qualcuno è stato investito.” aggiunse con delicatezza. “È in sala operatoria? Posso salvarlo.”

Tyler scosse il capo un paio di volte, prima di convincersi a incrociare lo sguardo di Caroline.

“Troppo tardi.” ammise in tono di voce atono, tornando poi a scrutare la parete di fronte a sé. “È morto.”

La decisione tratteggiata nel volto di Caroline scomparve; la ragazza si sedette accanto a lui.

 “Tyler…” lo richiamò, analizzando tristemente la sua espressione afflitta. Cercò di immaginare che cosa stesse provando; entrambi avevano ucciso più di una volta, entrambi non avevano avuto scelta: eppure, quella consapevolezza non placava del tutto il senso di colpa .  “È stato un incidente; tu non potevi fare nulla. Di sicuro ti è capitata la stessa cosa che…”

“Caroline.” la interruppe Tyler bruscamente, squadrando con decisione la ragazza. Rimase in silenzio per qualche istante e i suoi occhi si spensero di nuovo, mentre l’uomo riprendeva a parlare. “Non sono stato io a investire quell’uomo.” ammise infine, un’ incrinatura a spezzare il  tono di voce. Caroline scosse appena il capo con aria confusa, non riuscendo capire.

“Che cosa?”

“È stato Mase.” ammise infine Tyler, abbassando il tono di voce e indirizzando un’occhiata furtiva al corridoio. “Era Mase che stava guidando, lui ha avuto l’incidente. È stato Mason a uccidere quell’uomo.” ribadì infine, passandosi una mano sugli occhi. “Mase; mio figlio quindicenne. Non sono nemmeno stato capace di…” si interruppe, notando lo stupore e l’avvilimento nello sguardo di Caroline. “…strappargli via il volante di mano. Non ho fatto nulla.” concluse.

La ragazza scosse il capo lentamente, sorpresa e turbata al tempo stesso. Ripensò agli avvenimenti di quella sera; ricordò la conversazione che aveva avuto con Mason meno di una manciata d’ora prima. Evocò la sua iniziale diffidenza nel momento in cui l’aveva avvicinato, i sorrisi che era riuscita a strappargli. L’aria distesa, da ragazzino qualunque, che per la prima volta aveva colto a piegare i suoi lineamenti. Nel ricordarlo così tranquillo e sereno a poche ore di distanza da quel momento, il suo sgomento si estese. Quello che gli stava raccontando Tyler era ingiusto; terribile ed ingiusto. Sia per lui, sia per Mason.

“Lui lo sa?” domandò infine con un filo di voce, tornando a rivolgere lo sguardo verso l’amico. L’uomo riprese a fissare il pavimento con aria assente.

“Non sa nulla.” rivelò in tono di voce asciutto, prima di sospirare una seconda volta. “Già è sconvolto così, figuriamoci quando dovrò parlargliene.”

“Starà bene, Tyler.” lo rassicurò Caroline cercò di dimostrarsi fiduciosa; gli appoggiò una mano sull’avambraccio. “Tu eri da solo quando hai scatenato la maledizione. Mason ha te.” 

Lo osservò irrigidirsi nel sentirla pronunciare quelle parole. Fino a quel momento, Tyler si era rifiutato di nominare a voce alta la direzione brusca che aveva preso quella sera il destino di suo figlio. La parola ‘maledizione’ lo schiaffeggiò con violenza, costringendolo ad affacciarsi alla realtà dei fatti.

“Ha suo padre…” gli ricordò Caroline, facendo pressione sul suo braccio. Esitò, nel riconoscere con esitazione la rabbia farsi strada tra i lineamenti dell’uomo.

“Sì, e che razza di padre sono?” ringhiò all’improvviso Tyler, alzandosi bruscamente. “Uno che porta il figlio a guidare di notte, perché non  riesce trovare nemmeno dieci minuti per farlo di giorno! Gli sono stato addosso per mesi, ma questa sera era seduto lì vicino a me e non ho potuto fare nulla per aiutarlo. Non sono nemmeno riuscito a guardarlo negli occhi, mentre scatenava la maledizione: Jerome Clay è morto dieci minuti fa e io non ero a casa con lui. Non lo sono nemmeno ora! Sono ancora qui, perché so che una volta fuori dovrò spiegargli tutto. E non posso farlo, non so come farlo. Non ce la faccio.”  concluse, incrinando il tono di voce e non riuscendo più ad aggiungere altro. Sbuffò, appoggiando una spalla alla parete e chinando lo sguardo per sfuggire a quello apprensivo di Caroline.

“Non ha nemmeno sedici anni.” mormorò infine fra sé tornando a sedersi, i lineamenti del volto contratti a respingere la nota di dolore intrappolata nel suo sguardo. La ragazza gli posò nuovamente una mano sul braccio, dispiacere e apprensione a contendersi il suo volto.

“Hai sempre fatto il possibile per cercare di proteggere i tuoi figli. Soprattutto Mason.”  affermò.  “L’incidente che avete avuto questa sera non era prevedibile; è successo e basta. Tu non hai colpa, così come non ne ha Mase.”

Tacquero entrambi per qualche minuto, prima che Caroline riprendesse a parlare.

“Starà bene, Tyler.” lo rassicurò ancora una volta, guardandolo con dolcezza. “Non sarà facile… non lo è stato neanche per te. Ma ce la farà, come ce l’hai fatta tu.”

L’uomo scosse il capo più volte.

“Lui non è me.” le ricordò a quel punto, riavviandosi i capelli con un gesto stanco della mano. “Mason è…” si interruppe, non sapendo bene come proseguire. Tutto ciò che avrebbe potuto aggiungere per completare la frase impallidiva, di fronte al pensiero di ciò che avrebbe dovuto affrontare suo figlio ad ogni luna piena. “…penso che ormai tu abbia capito che tipo di persona sia.”

“Lo aiuteremo.” riprese Caroline in tono di voce fermo, e guardandola, Tyler riscontrò nel suo sguardo un rinnovato barlume di fiducia: per un attimo gli ricordò la Caroline che gli aveva dato una mano diversi anni prima, la sera in cui lui stesso aveva scatenato la maledizione; anche quella volta lei era rimasta con lui: lo aveva guardato allo stesso modo in cui lo stava fissando in quel momento.

“Mason non è solo, Tyler.” ripeté la ragazza,destandolo dai suoi pensieri. “Ci sei tu, c’è Lydia. Ci sono i suoi fratelli. E io manterrò fede alla mia promessa.”  aggiunse, tornando a scrutarlo con determinazione. “Ho detto che l’avrei tenuto d’occhio e intendo continuare a farlo. Lo proteggeremo.”

Quelle parole risvegliarono in Tyler un improvviso campanello d’allarme. Qualcosa che fino a quel momento aveva accantonato in un angolo risalì in superficie, mentre le sue iridi tornavano a cerchiarsi di decisione.

“Nessuno deve sapere che è stato Mase a provocare l’incidente.” dichiarò con fare risoluto. “Ero io che stavo guidando. Sono io che ho perso il controllo dell’auto.”

La ragazza annuì.

“Pensi che il Consiglio c'entri qualcosa con quello che è successo questa sera?” domandò, preoccupata. “Mia madre e Matt credono che Fell stia cercando di ripristinarlo”.

Tyler si passò una mano sotto il mento.

“Non lo so.” ammise infine, recuperando il cellulare dalla tasca e controllando il display: il numero di messaggi non letti era aumentato rispetto a quando aveva controllato per l’ultima volta; ce n’erano alcuni di Matt e uno di Jeremy, ma gli altri erano tutti di Ricki. Si chiese se i suoi figli fossero sul punto di addormentarsi o se lo stessero aspettando entrambi, in attesa di risposte. Pensò a sua figlia Caroline e fu grato al pensiero di sapere almeno lei al sicuro e all’oscuro di tutto. “Sono preoccupato.” continuò, tornando a rivolgersi alla ragazza. “Ricki ha avvertito il dolore alla testa, così come me e Mase. Così come te. Questa cosa mi fa pensare alle streghe, più che al Consiglio.”

 “Ci avevo pensato anch’io.” ammise Caroline, alzandosi in piedi e incominciando a camminare avanti e indietro per il corridoio. “Ma non ha senso…”

Tyler ripose il cellulare nella tasca e sbuffò, annunciando qualcosa che avrebbe voluto dire già da un po’.

“Penso che Fell sappia della maledizione…” spiegò, portandosi le braccia sul petto. “Ci sta osservando da mesi; se ne è accorto persino Ricki ed è stato qui due settimane appena. Fell è arrivato perfino a fare il terzo grado a mia madre; se sa di noi, può darsi che sappia anche come si scatena la maledizione. Per questo…” incominciò, cambiando bruscamente espressione. Il suo sguardo si fece nuovamente teso. “…devono pensare tutti che sia stato io a provocare l’incidente.” ribadì in tono di voce deciso. “Mase sarà al sicuro fintantoché crederanno che a uccidere quell’uomo sia stato io.”

“Non gli accadrà nulla.” lo rassicurò Caroline. Addolcì la sua espressione nel notare il suo rinnovato nervosismo e l’insistenza con cui Tyler aveva ripreso a tirare fuori il cellulare dalla tasca. “Adesso vai a casa.” lo incoraggiò, posandogli una mano sulla spalla. “Va’ da lui.”

L’uomo annuì brevemente, seppur restio ad abbandonare l’ospedale. Aveva paura e la vergogna continuava a pungolarlo con insistenza per questo. Aveva paura di guardare in faccia Mase, e di ammettere a sé stesso che non avrebbe potuto aiutarlo, non questa volta. Non sapeva che cosa avrebbe potuto dirgli per rassicurarlo, per farlo stare meglio.  Si alzò ugualmente, volgendo appena il capo per incrociare lo sguardo di Caroline.

“Grazie.”  le disse semplicemente. Caroline gli sorrise.

“Passo a controllare la zona dell’incidente, prima di tornare a casa.” lo rassicurò, raggiungendolo per abbracciarlo. “Chiamami domani, fammi sapere come sta Mason.” aggiunse.  L’uomo annuì.

“Buonanotte, Caroline.”  la salutò, prima di abbandonare il corridoio e di dirigersi verso le scale. Non appena uscì dall’ospedale, il suo sguardo saettò istintivamente verso l’alto: la luna era a malapena visibile quella sera, eppure a Tyler la sua luce parve più luminosa e insistente che mai. Avvertì il suo peso gravargli sulle spalle e improvvisamente accelerò il passo in direzione della tenuta dei Lockwood, deciso a raggiungere casa – suo figlio - il prima possibile.


If you can hear me now
I'm reaching out
To let you know that you're not alone

Lullaby. Nickelback

***

 

“Stai bene?”

Lydia domandò, non appena  distinse la sagoma del marito nel corridoio. Tyler annuì brevemente. Abbracciò forte sua moglie e avvertì la tensione e il nervosismo allentare appena la presa. Lydia era così: quando lo toccava, quando lo stringeva, gli infondeva sicurezza; spesso sapeva essere abbastanza forte per tutte e due. Ma non quella notte; in quel momento, c’era bisogno che lo fosse anche lui. Si voltò a fissare la porta che dava alla camera di Mase: Lydia era rimasta sulla soglia fino all’arrivo del marito.

“Ti sta aspettando.” gli sussurrò la donna con dolcezza. “Vai.”

Tyler annuì. Aprì la porta e, aguzzando lo sguardo nell’oscurità della stanza, individuò all’istante il profilo del suo figlio minore.  Mase era accovacciato sul letto, le spalle appoggiate al muro e le braccia a cingersi le ginocchia.

“Papà?” domandò esitante, aggrottando le sopracciglia e guardando meglio, per assicurarsi che fosse lui. Tyler si sedette sul letto accanto al ragazzo.

“Sì, sono io.” lo rassicurò, tendendo una mano nel buio per sfiorargli una spalla. Lo sentì tremare; notò anche che respirava con forza, quasi avesse il fiatone.

“Stai bene?” domandò, aumentando la pressione sulla sua spalla. Mase esitò, prima di rispondergli.

“Ho rotto la lampada.” ammise infine, indicando il comodino con un cenno nervoso del capo, nonostante fossero al buio. “Non so come abbia fatto. Mi sono alzato di scatto perché mi girava di nuovo la testa. Mi bruciavano gli occhi, volevo accendere la luce.”

“Non fa niente...”

“Ho cercato l’interruttore e quando ho premuto il bottone di accensione… l’ho rotto. Si è aperto in due. E poi mi è venuta voglia di rompere anche il resto. Ero arrabbiato, non lo so perché, non capisco che…”

“Non importa, Mase.” cercò di ribadire il padre, ma il ragazzo proseguì ugualmente.

“Credo che mi sia successo qualcosa.” ammise a quel punto, stringendosi nelle braccia. “M-mi fa male la testa, mi fanno male gli occhi, bruciano. Fo-forse è successo quando ho sbattuto contro il volante. F-forse dovrei tornare in ospedale.”

“Hai solo bisogno di riposare.” lo rassicurò il padre, continuando a stringergli la spalla; un po’ più forte, per cercare di mantenersi calmo. Tentò di parlargli, di spiegarli, ma non fu in grado di aggiungere nulla. “Stai tremando.” costatò infine.

“Sì.” ammise il figlio.

“Hai freddo?”

“No.”

“Hai paura?”

“Non lo so!” esclamò infine Mason, lasciando ricadere il capo all’indietro, per appoggiarsi alla parete. “Non lo so. Non so se ho paura o se sono arrabbiato… non so perché mi brucino gli occhi, non so perché mi faccia male la te…”

Si interruppe, passandosi una mano sulla fronte. Tyler cercò di distinguere i suoi lineamenti al buio.

“Papà, i punti…” mormorò a quel punto il ragazzo, passandosi una mano sul sopracciglio ferito. Il padre sospirò. “Il ta-taglio che avevo sulla fronte; no-no-non lo sento più.”

Tyler smise di stringergli la spalla e sfiorò il capo del figlio con la mano, alla ricerca di una ferita che non c’era più. Si soffermò a passargli una mano fra i capelli e le lacrime che fino a quel momento non c’erano state gli rigarono traditrici una guancia. Aveva voglia di avvicinarselo maldestramente al petto, di prenderlo in giro e arruffargli i capelli, come faceva quando era bambino. Come quando il figlio stringeva la mano a pugno attorno alla manica della sua camicia, per sedare le sue paure. Aveva voglia di ridere, di sdrammatizzare, per riuscire a strappargli a sua volta un sorriso. Voleva recuperare uno di quei momenti in cui era riuscito a guardarlo e negli occhi e dirgli che gli voleva bene. Spiegargli che non c’era bisogno di avere paura di tutto, perché non c’era creatura al mondo che avrebbe potuto ferirlo: perché Mase era suo figlio, e perché lui era suo padre. Lui non l’avrebbe permesso. Voleva promettergli ancora una volta, come aveva fatto più volte in passato, che nessun lupo si sarebbe mai avvicinato a lui: ma sarebbe stata una menzogna.

Perciò non lo fece. Non fece nulla di tutto questo.

Si limitò a tacere, la mano ancora appoggiata sul suo capo, e quando Mason si voltò a fissarlo intuì all’istante che le cose non sarebbero andate meglio. Qualcosa era successo: suo padre gli aveva mentito. Tutti gli avevano mentito.

“C-Che mi sta succedendo?” chiese in tono di voce flebile, la paura disegnata tra i suoi occhi.

Tyler non seppe rispondergli: tutto ciò che riuscì a pronunciare, fu l’ennesimo “mi dispiace”.

 

Richmond, Virginia Commonwealth University.

Julian stiracchiò svogliatamente un braccio per interrompere la suoneria della sveglia e si voltò dall’altra parte. Venti minuti più tardi scattò sull’attenti, ricordando all’improvviso cosa aveva in programma di fare quella mattina. Si sollevò a sedere sbadigliando, la mente ancora rivolta alla telefonata che aveva avuto con la sorella la sera precedente. Autumn non si era fatta sentire all’orario stabilito e nemmeno più tardi, quando, preoccupato, aveva tentato di cercarla sul cellulare. Alla fine erano riusciti a scambiarsi due parole su Skype in tarda nottata, ma nessuno dei due aveva ancora toccato l’argomento ‘magia’, nonostante ci avessero entrambi girato attorno più volte; anche se non poteva averne la certezza, Julian si era convinto dal modo in cui gli aveva parlato che a Autumn fosse sul serio successo qualcosa legato alla magia. O forse, era solo quello che avrebbe desiderato accadesse. Non conoscere nessun altro che fosse come lui era spesso frustrante, per Julian. Amava quell’aspetto di sé, per quanto fosse a malapena in grado di usarlo e prendersene cura: gli sarebbe piaciuto avere qualcuno con cui condividerlo, con cui confrontarsi ed esercitarsi. Se Autumn era una strega, la faccenda avrebbe di certo giovato al loro rapporto.

Non essendo riuscito a discutere con lei di magia, non aveva nemmeno avuto la possibilità di parlarle del grimorio, per chiederle di trovare l’incantesimo che stava cercando. Intestardito dall’assenza di novità, una volta chiusa la chiamata con la sorella, aveva tirato nuovamente fuori dal cassetto il suo quaderno di formule. L’aveva esaminato per una buona mezzora, ignorando l’ora tarda, e alla fine era riuscito a individuare una formula che avrebbe potuto essergli utile. Stando quello che aveva scritto, serviva a ritrovare cose o persone che avevano qualcosa in comune – parenti, oggetti dello stesso materiale e forse, Julian ci sperava, anche due stregoni. Aveva deciso di fare un tentativo quel mattino, sapendo che il professor Ringle si sarebbe sicuramente diretto al pub la mattina presto. Per quello aveva puntato la sveglia, ma come al solito la puntualità non era stata dalla sua nemmeno quel giorno.

Si vestì in fretta e si ricordò di prendere le chiavi per un soffio, prima di uscire sul pianerottolo. Nel raggiungere il bar, incominciò a sentirsi nervoso; era deciso a scoprire se Ringle fosse uno stregone o no, ma in fondo non aveva idea di cosa avrebbe fatto in caso la risposta fosse stata sì. Gli avrebbe parlato? In fondo, forse avrebbe fatto meglio a tenersi distanza da lui, visto ciò che era successo il giorno del compito in classe. Julian diede una scrollata di spalle e si intrufolò nel pub. Scrutò i vari clienti seduti al tavolo e individuò facilmente l’insegnante di chimica seduto verso la fine del locale.

“Non eri a riposo, tu?” una voce brusca lo richiamò dai suoi pensieri. Arielle lo superò camminando spedita, il vassoio in bilico sulle mani. Il castano-rossiccio naturale dei suoi capelli era stato sostituito di recente da un rosso acceso che spiccava vivace sulla divisa da lavoro, rendendola riconoscibile anche a parecchi metri di distanza.

 “Ciao anche a te!” la salutò in risposta Julian, ormai abituato all’atteggiamento ostile della ragazza.  Tirò fuori le mani dalla tasca e focalizzò nuovamente l’attenzione sull’insegnante, la formula bene a mente. Per far si che l’incantesimo funzionante, c’era bisogno che i due elementi analizzati si toccassero. Doveva fare in modo che Ringle avesse un contatto con lui. Si affrettò a correre in bagno per infilarsi la camicia della divisa.

“Ehy, Krew!” si rivolse a uno dei colleghi di lavoro una volta tornato nella sala principale. “Sono appena arrivato per il turno.” spiegò, sicuro che il compagno non avrebbe trovato nulla da ridire, al contrario di Aria. “Che porto al professore all’ultimo tavolo? Mi ha chiesto di sbrigarmi a servirlo e in maniera non proprio carina. ” Krew, che aveva appena attraversato il bancone, gli porse il suo vassoio.

“Tieni.” dichiarò, prima di avviarsi verso la cucina. “Meglio tu che io.” Julian sorrise fra sé; si aggrappò istintivamente ai manici di plastica e incominciò a dirigersi verso Ringle, l’incantesimo da formulare ben impresso in mente; il fruscio non tardò a farsi sentire. Non sapeva bene cosa sarebbe successo, una volta che la sua mano avesse sfiorato il braccio con l’insegnante, ma tanto valeva provarci: pronunciò mentalmente la formula quando ormai aveva quasi raggiunto l’uomo e siinnervosì, quando si accorse che il professore aveva preso a fissarlo. Gli rivolse un’occhiata insospettita e Julian perse per un attimo la concentrazione. Superò l’ultimo metro che lo separava dal tavolo di Ringle.

“Ecco qui.” esclamò, appoggiando il vassoio sul tavolo, in maniera che fosse particolarmente vicino al braccio del professore. La sua mano era sul punto di toccarlo, quando il suo gomito incominciò a tremare: qualcuno lo aveva afferrato per il braccio.

“Che cosa…” mormorò fra sé, mentre la persona lo trascinava lontano dai tavoli, il tremore al braccio ancora presente: quella sensazione gli ricordava incredibilmente il fruscio. La magia sbatacchiava contro la sua pelle, cercando di entrare in contatto contro quella della persona che lo aveva afferrato per il gomito; era una ragazza dallo sguardo immusonito che camminava rapida, senza degnarlo di uno sguardo: Aria.

“Sei una strega?” domandò a quel punto Julian, rivolgendole un’occhiata incredula. Arielle lo zittì con un’occhiataccia e continuò a guidarlo, fino  a quando non furono fuori dal locale.

“Tu sei fuori di testa!” esclamò a quel punto, portandosi le braccia sul petto. “Prima l’allarme anti-incendio e adesso questo! Completamente fuori di testa!” 

“Aspetta, aspetta…L’allarme anti-incendio?” Julian la interruppe. “Sei stata tu a cercare di impedirmi di farlo partire?” Aria strinse le labbra e non disse nulla. Julian continuò a fissarla, nella speranza che aggiungesse altro. Ricordava di averla avuta come vicina di banco, il giorno del test di chimica. La rosicchia-matite. La secchiona: era lei la strega; Ringle non centrava nulla.

Inspiegabilmente, sorrise.

“Non dovresti impiegare i tuoi poteri per stupidaggini come i compiti in classe.” commentò infine la ragazza, sistemandosi un ciuffo di capelli che era sfuggito alla coda.

Julian le rivolse un’occhiata confusa.

“E per cosa dovrei usarli, allora?” Aria lo ignorò.

“Non dovresti nemmeno usarli in posti dove possono vederti tutti.”

“Nessuno ha capito nulla di quello che è successo in cla…”

“E poi che cosa stavi cercando di fare con Ringle?” aggiunse ancora la giovane, continuando ad ignorare i suoi commenti. Julian prese ad arrotolarsi il colletto della camicia con un dito.

“Pensavo fosse uno stregone.” ammise infine. Da ostile, lo sguardo della ragazza si fece incredulo; alla fine, scoppiò a ridere. Julian fu quasi sorpreso; era la prima volta che la sentiva ridere.

“Ringle uno stregone?” chiese la ragazza in tono di voce divertito.

Il giovane annuì. “Perché no?”  Aria scosse il capo con aria incredula, ma non aggiunse altro.

“Da che stirpe di streghe discendi?” domandò infine, prendendo a scrutarlo con aria di sufficienza. “Non ho mai sentito parlare dei Morgan…”

 “Mi madre è una Bennett.” spiegò Julian, abbozzando un sorriso. La ragazza si irrigidì.

“Ah.” Si limitò a commentare, indirizzandogli un’occhiata diffidente. Arretrò di un passo, sotto lo sguardo sbigottito del ragazzo. “Adesso si spiega tutto.”

“Perché?” domandò un sempre più confuso Julian. “Che cos’è che si spiega?”

 “La mia antipatia nei tuoi confronti.” spiegò la giovane, portandosi nuovamente le braccia al petto. “Sei un Bennett, per forza non mi piaci.”

“Che c’è di male nell’essere un Bennet?” domandò ancora Julian, sempre più confuso. “Tu da che famiglia discendi?”

La ragazza roteò gli occhi.

 “Ma non sai proprio niente?” domandò a quel punto. “Da generazioni, diverse famiglie di streghe sono ostili ai Bennett, perché voi finite sempre per immischiarvi in faccende che non vi riguardano.”

“Beh, io non ne sapevo nulla.” ammise il ragazzo. “Mia madre non mi ha mai raccontato molto sulla nostra discendenza; ma forse potresti dirmi qualcosa tu.” azzardò.

Aria lo squadrò con aria diffidente, prima di scuotere il capo, risoluta.

“Preferisco averci a che fare il minimo indispensabile con te”.  ammise infine, dandogli le spalle per tornare al locale. Julian la afferrò per il polso.

“Per favore!” la pregò. Il gomito incominciò nuovamente a tremarle. “Non conosco nessuno come me,oltre mia madre. Lascia che ti faccia almeno qualche domanda; prendiamoci qualcosa, un caffè , e poi prometto che ti lascerò in pace.”

Aria gli rivolse un’ultima occhiata indecisa, prima di annuire.

“Possiamo incontrarci dopo il turno di lavoro.” acconsentì, interrompendo bruscamente il contatto fra il suo polso e la mano di Julian. “Mezzora e non di più.” ribadì, prima di allontanarsi in direzione del locale.

Il giovane continuò a sorridere, osservandola allontanarsi.

“Non mi hai ancora detto da che famiglia discendi!” le gridò dietro quando la ragazza aveva ormai raggiunto le porte del pub. Aria si voltò per fulminarlo ancora una volta con lo sguardo.

“Non urlare!” lo rimbeccò, prima di scuotere il capo, esasperata. “Di cognome faccio Walcot.” Spiegò, prima di scomparire all’interno del locale.

***

Quel mattino, Ricki si svegliò con un forte mal di testa e un nervosismo marcato, che lo spinsero ad uscire ancor prima che Jeffrey si svegliasse. Percorse rapido il tragitto che lo separava dalla tenuta dei Lockwood e una volta rincasato ignorò la porta di camera sua e quella di Caroline per introdursi nella stanza di suo fratello: Mase stava ancora dormendo. Rimase per un po’ nella sua stanza, analizzandolo con attenzione, per assicurarsi che stesse bene; sembrava tranquillo e questo lo rincuorò lievemente. Eppure, il nervosismo rimase. Il brutto presentimento trovò conferma qualche minuto più tardi, quando Tyler lo raggiunse in camera di Mason. Prese posto accanto a lui e lo guardò brevemente, prima di spostare la sua attenzione verso il figlio più piccolo: Ricki non ebbe bisogno che il padre aggiungesse nulla. Gli era bastato incrociare il suo sguardo per comprendere a fondo quello che già aveva incominciato a intuire la sera precedente: l’apprensione si trasformò in rabbia.

“Perché lui?” aveva domandato al padre più tardi, nel pomeriggio. Calciò malamente la valigia ancora aperta in mezzo alla stanza, dopo esserci inciampato per l’ennesima volta. “Perché il mio fratellino?”

Tyler sedeva sul letto e lo osservava in silenzio, le braccia incrociate sul petto, l’espressione tesa.

“Non lo so.” ammise infine, incrociando lo sguardo del figlio. “Non lo so.”

Richard sospirò, decidendosi a lasciar stare la valigia.

“Non gli hai detto ancora nulla, vero?” domandò, guardando il padre dritto negli occhi. Tyler si sforzò di ignorare una fitta di fastidio, nel notare nello sguardo del figlio una nota di rimprovero.

“Qualcosa.” ribattè secco, passandosi una mano fra i capelli. “Non so bene come parlagliene; non è facile spiegare una cosa del genere a un figlio. Io l’avevo scoperto da solo. Tu anche.” aggiunse, evitando di ricambiare il suo sguardo.

Ricki scosse il capo con aria rassegnata, prima di scavalcare la valigia, puntando alla porta.

“Dove stai andando?” domandò a quel punto il padre.

“A cercare il vecchio diario di tuo zio Mason.” rispose Ricki, ricambiando il suo sguardo con aria determinata.  Padre e figlio si squadrarono per una manciata di secondi; infine, Richard si convinse a concludere la frase. “Se non riesci a farlo da solo, allora glielo diremo assieme.”

***

"Those who cannot remember the past are condemned to repeat it."

George Santayana

 

“Allora?” Caroline sbirciò oltre la spalla di Xander per individuare il voto sul suo compito di storia; il ragazzo voltò il plico di fogli e fece una smorfia, soffermandosi sulle note finali del professore.

“Diciamo che è  meglio del precedente.” ammise con un sorrisetto imbarazzato, passandole il compito.

D meno…” lesse ad alta voce la ragazza, prima di rivolgergli un’occhiata di rimprovero. Xander diede una scrollata di spalle.

“L’ultimo compito era una F più.” le ricordò, incominciando a picchiettare sul banco con gli indici. “La storia non mi entra in testa, non posso farci nulla.” proseguì poi. “È barbosa e mi fa venir voglia di dormire. E poi non si parla nemmeno mai di cibo…” 

“Mase potrebbe aiutarti.” ipotizzò la ragazza. Nel notare l’espressione poco convinta dell’amico, gli diede un colpetto sul braccio. “Cosa? Mio fratello piccolo è un genietto.” lo rimbeccò, decisa. Xander sorrise.

Secchione, non è esattamente sinonimo di genietto.” ribattè Xander, riprendendo a picchiettare gli indici sul tavolo. “Oh, era ora!” aggiunse, quando la campanella annunciò la fine della lezione. Caroline tornò ad analizzare il compito di Xander con aria assente.

“Ad ogni modo, non penso che in questo momento sia il caso di chiedere aiuto a Mase…” mormorò fra sé, ripensando all’espressione atterrita con cui l’aveva salutata quel mattino; non era nemmeno andato a scuola. Quando Caroline era rincasata dal lago, sua madre l’aveva presa da parte per raccontarle dell’incidente: sapeva che suo padre aveva perso il controllo dell’auto mentre stava guidando, la sera precedente, e che aveva investito un uomo. C’era anche Mase nella macchina, ma sia lui, sia il Tyler, ne erano usciti praticamente illesi. Eppure suo fratello continuava ad essere sconvolto. Caroline era preoccupata per lui; e a giudicare dal gioco di sguardi che aveva intercettato tra Ricki e i suoi genitori quel mattino, dovevano esserlo anche loro.

“’Tumn ci sta aspettando fuori per andare assieme a biologia.” esclamò la ragazza rivolta all’amico. “Sbrighiamoci.” aggiunse, incominciando a ritirare le sue cose. Xander la imitò, ma si fermò quando il suo sguardo capitò sul vecchio diario di Gilbert accantonato nel suo zaino: se l’era portato dietro per poterlo esaminare in tutta calma durante la pausa pranzo. Il che era strano per lui; detestava la storia – i suoi pessimi voti lo dimostravano – e non era nemmeno un gran lettore. Inoltre, ben poche cose erano in grado di distogliere la sua attenzione dal cibo, durante la pausa pranzo. Quel diario, però, lo incuriosiva.

“Voi incominciate ad andare.” comunicò a Caroline, infilandosi una bretella dello zaino. “Penso che andrò a implorare Lester di farmi rifare uno dei compiti.” ammise. Caroline gli diede una pacca sulla spalla e raggiunse il corridoio assieme ai compagni. Alexander si mosse in direzione della cattedra e attese che il professore incrociasse il suo sguardo, non sapendo bene che cosa dirgli: forse, in fondo, aveva mentito a Caroline. Forse non gliene fregava niente del compito di storia; forse era un altro, il motivo per cui aveva deciso di rivolgersi all’insegnante. Quando Lester lo notò smise di percorrere il registro con lo sguardo e si voltò verso di lui.

 “Che posso fare per te, Gilbert?” domandò, chiudendo il quaderno: nonostante insegnasse a Mystic Falls da poco, il suo era uno dei pochi cognomi che l’insegnante era riuscito a memorizzare quasi subito. Un altro era quello di Caroline. Xander ricambiò incerto il suo sguardo e frugò nuovamente nello zaino. La sua mano tentennò per un secondo sul diario di Jonathan Gilbert, ma alla fine si limitò a recuperare il compito di storia. Lo porse all’insegnante senza aggiungere nulla. Lester lo osservò brevemente, prima di tornare a rivolgersi a lui.

“Sì, me lo ricordo il tuo compito.” commentò pacato, restituendogli il foglio. “Sembra che tu non abbia nemmeno aperto libro.”

“No, l’ho aperto…” si difese maldestramente Xander. “…è solo che non sono molto bravo e ricordarmi le date e confondo tutti i nomi. E gli avvenimenti storici. E succedono sempre le stesse cose un po’ ovunque.” spiegò con imbarazzo. Lester, che fino a quel momento era rimasto impassibile, abbozzò un sorrisetto.

“L’essere umano è destinato a ripetere i propri errori di continuo.” rispose, voltandosi in direzione della lavagna; date e nomi di nazioni vi erano stati annotati sopra alla rinfusa col gesso.  “E la storia è fatta di uomini. E di errori. Gli scenari cambiano, ma il succo è sempre lo stesso. In pochi ci fanno caso; le persone credono spesso che il passato non sia importante e così lo dimenticano; c’è chi pensa sia pericoloso e chi crede di poterlo eliminare fingendo che non sia mai accaduto. Eppure non funziona così; ogni cosa, è destinata a ripetersi. Che ci piaccia o no, siamo intrappolati in una sorta di circolo vizioso.”

Xander annuì svelto, non riscendo a mascherare l’imbarazzo sul suo volto: non aveva seguito gran parte del discorso del professore.

“Vorrei recuperare l’insufficienza.” ammise infine, cercando di cambiare di scorso. Lester annuì brevemente.

“In che modo?” chiese, tornando a voltarsi verso di lui. Il giovane sgranò gli occhi, confuso.

“Non lo so.” ammise, giocherellando con il foglio che teneva ancora in mano. “Compiti extra?” propose, rabbrividendo al solo pensiero. Lester lo osservò per qualche istante, i polpastrelli a sfiorare ripetutamente la superficie del registro. Xander ricambiò lo sguardo; si rese conto solo in quel momento che l’insegnante doveva essere piuttosto giovane. Più giovane di suo padre di sicuro. Probabilmente si aggirava tra i trenta e i trentacinque anni.

“La mia materia non ti piace, giusto?” domandò ancora Lester, recuperando un libro di testo che uno studente aveva lasciato sul banco di fronte alla cattedra. “Ma ci sarà pure un argomento che ti stuzzica. Qualcosa che ti incuriosisce maggiormente, rispetto ad altri argomenti più noio…”

“Sono interessato alla storia locale.” ribattè Xander in fretta, interrompendolo. “Mystic Falls.” Lester aggrottò le sopracciglia e gli rivolse un’occhiata sorpresa.

“Che periodo, con esattezza?” chiese ancora. Alexander esitò; per un attimo fu quasi sul punto di tirare fuori il vecchio diario di Gilbert, ma alla fine decise di non farlo.

“Il 1864.”  ammise, passando istintivamente una mano sul fondo dello zaino. “Ho sentito di alcune… ‘leggende’ – non so se si può dire così – che parlano di quel periodo… cose un po’ folli, veramente.”

L’interesse nello sguardo di Lester si accese, “Leggende in merito a che cosa?”

Xander arrossì, prima di rispondergli. “Ai vampiri.” 

Aveva abbassato di molto il tono di voce, sentendosi più stupido ogni secondo che passava. Si sorprese, nel notare che l’insegnante aveva nuovamente preso a sorridergli.

“Sei bene informato.” dichiarò asciutto Lester, scrutandolo con espressione interessata. Xander annuì.

“So che sono solo dei racconti, ma… ho letto qualcosa da qualche parte e mi sono incuriosito.” proseguì, appoggiando il compito sulla cattedra e infilandosi le mani in tasca. Rivolse un’occhiata esitante al professore, prima di domandargli: “Può parlarmene?”

Lester soppesò la sua domanda, prima di annuire.

“Ti dirò quello che so.” acconsentì infine, alzandosi. “Ma prima, voglio vederti recuperare queste insufficienze. Portami una relazione: argomento a scelta. Fai domande in giro, vai in biblioteca… e quando avrai finito, ti parlerò del 1864. E dei vampiri.” aggiunse, scrutandolo con attenzione. “Potrebbe andare bene?”

Xander annuì in fretta, sforzandosi di spazzare via l’aria inebetita che aveva fatto capolino sul suo volto.

“Mi andrebbe bene, sì. Più che bene.” approvò, spostandosi per permettere a Lester di passare. “Grazie!”

“Allora abbiamo un accordo.” dichiarò a quel punto l’insegnante, tendendogli la mano. Xander la strinse, abbozzando un sorriso.

“Sì, certo. Grazie ancora!”

Lester annuì.

“E adesso faresti meglio ad andare a lezione.” osservò l’insegnante, indicandogli la porta con il capo. Xander gli diede le spalle per raggiungere la porta, ma si fermò sulla soglia

“Professore?” lo richiamò esitando, prima di voltarsi nuovamente verso Lester. Attese che ricambiasse il suo sguardo, prima di proseguire. “Come si fa a capire se in certe leggende c’è del vero o se sono… insomma, leggende e basta? Come si fa a capire se non è tutta follia?” chiese, tentennando incerto sull’ultima parte.

Lester recuperò le sue cose e lo raggiunse.

“Di rado si tratta di semplice follia.” rispose, chiudendosi la porta dell’aula alle spalle. “C’è sempre qualcosa dietro le leggende, Gilbert. Qualcosa che non dovremmo permetterci di ignorare, anche se spesso viene fatto.”

“Che cosa?” domandò ancora Xander, incuriosito. Lester sorrise appena. “C’è la storia.”

***

Ricki attraversò il cortile della tenuta con le mani in tasca, lo sguardo a rincorrere distratto lo zampettare irregolare di un corvo. Lo osservò spiccare il volo con aria inespressiva, appoggiando il gomito alla cassetta delle lettere.

“Attenzione, prego!” una voce femminile lo distolse dai suoi pensieri; Ricki voltò pigramente il capo verso destra. “Victoria Donovan sta attraversando il viale! Ho pensato di avvisarti in anticipo del mio arrivo.” aggiunse Vicki raggiungendolo di corsa, un sorriso vispo ad arricciarle gli angoli delle labbra. “Ha funzionato! Questa volta non hai sbattuto la testa contro la cassetta delle lettere!” dichiarò entusiasta, alludendo all’episodio di due settimane prima.

Ricki roteò gli occhi, appoggiando anche la schiena alla cassetta.

“Sei qui per qualcosa in particolare, Vic?” domandò, recuperando l’espressione assente di poco prima. Vicki smise di sorridere e il suo sguardo si fece più comprensivo.

“Come stanno tuo padre e Mase?” domandò, analizzandolo con attenzione. “Oliver mi ha detto che Mase era molto scosso.”

Ricki annuì, pur continuando ad evitare il suo sguardo.

“Stanno bene.” annunciò infine, portandosi le braccia sul petto. “Mase sta bene. È agitato e ancora un po’ spaventato, ma sta bene.” ribadì, deciso.

Victoria annuì; gli rivolse un’ultima occhiata indecisa, prima di incominciare a trafficare con la sua borsetta.

“In effetti sì, sono passata a parlarti per qualcosa in particolare.” Ammise infine, spalancando i due lembi della borsa e avvicinandosela alla testa: per un attimo Ricki si trovò a domandarsi se ce l’avrebbe infilata dentro; con Vicki, non si poteva mai sapere.

“Devo chiederti una cosa.” ammise a quel punto la ragazza, lasciando perdere la borsetta.. “…e no, non è una proposta indecente, quindi non c’è bisogno che mi guardi in quel modo. Anche se in effetti mi verrebbe più facile parlare di qualcosa di simile, perché almeno lì non mi preoccuperei di pensare a cosa dire nel caso tu non mi crede…”

“Vic, per favore…” la interruppe in quel momento Richard, portandosi le mani alle tempie. “…torna sulla Terra e arriva dritta al punto. Ho un mal di testa assurdo.” aggiunse, con una smorfia. Vicki sospirò ancora una volta, cercò di soffiarsi via un ciuffo di capelli dagli occhi e alla fine ci rinunciò.

“Ieri sera stavo andando a trovare ‘Tumn e ho pensato di accorciare il tragitto, passando dietro casa vostra.” incominciò, sforzandosi di evitare le divagazioni. “Mentre passavo, ho notato la macchina dello sceriffo parcheggiata sul retro e mi sono ricordata che quando sei tornato mi avevi chiesto se non l’avessi visto spesso da queste parti, e così…”

“Lo sceriffo Fell era qui?” la interruppe bruscamente Ricki. Vicki gli fece cenno di tacere con la mano.

“No, aspetta, non fermarmi o perdo il filo del discorso e poi incomincio a divagare.” ammise, prima di sorridergli con una punta di malizia nello sguardo. “E poi se mi guardi così, non riesco a proseguire!” aggiunse, sbattendo le ciglia. Ricki sbuffò, scuotendo il capo con aria esasperata. Vicki estese il suo sorriso.

“Dicevo… lo sceriffo aveva parcheggiato dietro casa vostra ed essendomi ricordata di quello che mi avevi detto, sono rimasta un po’ fuori ad aspettare, per vedere se si faceva vivo. L’ho sorpreso poco più tardi nel giardino di casa vostra e aveva in mano una scatola; non so se fosse sua, vostra, o di un alieno che proviene da Marte, fatto sta che…”

 “Com’era fatta questa scatola?” la interruppe ancora Richard, rivolgendole un’occhiata a metà tra l’allarmato e il furibondo. Vicki diede una scrollata di spalle.

“Una scatola di legno, più o meno sarà stata grande quanto uno dei tuoi palloni da calcio.” spiegò, riprendendo a frugare nella sua borsetta.

“Fatto sta che, da quella scatola, è uscito fuori questo.” ammise infine, porgendogli la rotellina di metallo che era caduta a Fell la sera prima. La porse a Ricki, che se la appoggiò sul palmo della mano. Il ragazzo incominciò ad analizzarla con le sopracciglia aggrottate. Victoria si morse un labbro.

“Lo so che suona assurdo…” ammise, appoggiando una mano alla cassetta delle lettere. “…ma ti giuro che è successo sul serio. L’ho visto con i miei occhi, lo sceriffo era qui.”

Ricki continuò ad esaminare la rotellina, ignorando le parole della ragazza. Per un po’ rimase in silenzio, ma alla fine si lasciò scivolare l’oggetto in tasca e tornò ad appoggiarsi alla cassetta delle lettere.

“Quel bastardo…” commentò infine con rabbia, portandosi le braccia al petto. Vicki assunse un’espressione più sollevata.

“Quindi hai capito che cos’è?” domandò, sfilandosi ancora una volta un ciuffo di capelli dagli occhi. “Avevo ragione, è qualcosa di vostro?” Ricki sbuffò.

“Non ne ho idea, può darsi.” commentò infine, tornando a rivolgersi alla ragazza. “Lo porto a mio padre, di sicuro ci capirà qualcosa più di me.”

Victoria estese il suo sorriso.

“Allora mi credi?” domandò, vivace. Richard si trovò costretto ad annuire.

“In altre occasioni non ti avrei creduto.” chiarì comunque subito dopo. “Ma stiamo parlando di Fell. Ci gironzola attorno a casa da un sacco di tempo, te l’avevo detto. E dopo quello che è successo ieri sera…” la sua espressione tornò a indurirsi, nel momento in cui riprese a pensare al fratello. Quel pomeriggio, aveva aiutato il padre a raccontargli della maledizione. Fin da subito, Mase si era rifiutato di credere a qualcosa di così assurdo. Alla fine, non avevano potuto fare altro che mostrargli il video girato dallo zio di Tyler, Mason senior, durante la sua prima trasformazione; da quel momento in poi, Mase non aveva più aperto bocca. A Ricki continuava a tornare in mente la sua espressione terrorizzata.

 “Sei carino a credermi, comunque!” annunciò a quel punto Vicki, tamburellando con le dita sulla cassetta delle lettere. “Tanto carino.”

Richard mise da parte le sue riflessioni, per rivolgerle un’occhiata di ammonimento.

“Se preferisci sentirti dire che sei brutto, ti dirò che sei brutto.” proseguì la ragazza con decisione.

Ricki roteò gli occhi, pur lasciandosi sfuggire un sorrisetto.

“Buonanotte, Vic!” la salutò, staccandosi dalla cassetta delle lettere e recuperando dalla tasca la rotellina di metallo. “Grazie per questa.” aggiunse, facendosela saltare sul palmo della mano.

Vicki esitò; esaminò impensierita l’espressione del ragazzo che era tornata ad indurirsi: di rado, l’aveva visto così serio e abbattuto.

“Senti…” incominciò a quel punto, chiudendo la borsetta con uno scatto secco della cerniera. “Qualsiasi cosa stia capitando con lo sceriffo o per il resto… io e la mia famiglia ci siamo. Lo sai. Se c’è qualcosa che possiamo fare per te… o per Mase…”

Ricki scosse il capo, passandosi poi stancamente una mano fra i capelli.

“Lo so… grazie, Vic.” rispose infine, sorridendo debolmente in cenno di riconoscenza.  “Ma non c’è niente che possiate fare per lui.”

Per un attimo, fu tentato di dirle tutto. Senza motivo, così. Voleva sputare fuori ogni cosa: parlarle della maledizione, descriverle l’espressione atterrita di suo fratello, il mal di testa provato la sera precedente, il terrore provato cinque anni prima nel riconoscere suo padre in una bestia incatenata al muro. Tutto.

“Vado a portare questa a papà.” farfugliò invece, chiudendo la mano a pugno attorno alla rotellina di ferro. Vicki si limitò ad annuire. Fece per incominciare a correre, ma si voltò quasi subito, un dito allacciato a una ciocca di capelli.

Si avvicinò a Ricki di qualche passo e lo abbracciò. Il ragazzo la lasciò fare, sorpreso per via del gesto improvviso.

“Buonanotte, Ricki.” lo salutò Victoria separandosi da lui, prima di riprendere a correre.

Richard la osservò allontanarsi in silenzio, la rotellina di metallo ancora stretta in pugno.

***

Jeremy premette il tasto di chiamata e si portò il cellulare all’orecchio. Mentre lo ascoltava squillare, sbirciò oltre la porta socchiusa che dava sulla stanza del figlio minore; Oliver era seduto alla scrivania e gli dava le spalle, intento a costruire uno dei suoi modellini di aeroplano. Jeremy sorrise e si diresse verso la sua camera, ancora in attesa. Al terzo squillo, la persona che stava cercando, prese la chiamata.

“Ho avuto un altro dei miei soliti  incubi, questa notte.” rivelò l'uomo in quel momento, prendendo posto sul letto. “Solo che questa volta, eri tu a morire.”

Il suo interlocutore rise.

“Ah, io sto benissimo, Jer.” rispose Alaric, lasciandosi ricadere sulla poltrona. “Anche se starei meglio se non avessi finito le birre.” ammise; all’altro capo del telefono, Jeremy riuscì finalmente ad abbozzare un sorriso.

“Tu stai bene? Elena? Hazel e i ragazzi?” chiese ancora Rick.

“Tutto bene.” lo rassicurò Jeremy, infilandosi istintivamente una mano nel taschino della camicia; l’ago dell’orologio-bussola era immobile, come al solito. “Però, Xander avrebbe bisogno di qualche ripetizione di storia...”

“Tua moglie ha ragione nel dire che ha proprio preso da te, allora!” scherzò l’altro uomo. “Mi spiace, ma non penso che potrei essergli di aiuto…” aggiunse poi ancora, accennando a un sorrisetto. “Ho chiuso con la storia. Quello che ho fatto mi basta e avanza per una vita intera.”

Jeremy sorrise; si domandò se stesse alludendo alla sua carriera da insegnante o a quella di cacciatore di vampiri.

“Non era di questo che volevo parlarti…” ammise infine. “Per caso quando sei passato qui l’ultima volta ti ho lasciato qualcuno dei diari di Jonathan Gilbert? Ero in soffitta, prima, e ho notato che ne mancano alcuni.” chiese. Alaric fece mente locale per qualche istante, ma si limitò a scuotere il capo.

“Non mi sembra.” Commentò. “Sei sicuro di non averli spostati?”

Jeremy si sistemò i capelli arruffati con la mano libera, cercando di ricordare quando fosse l’ultima volta che aveva messo piede in soffitta. In quel momento, Xander fece capolino sulla soglia.

“Papà, io esco!” annunciò, infilandosi alla svelta il giubbotto. “Ciao, zio Rick!” aggiunse ad alta voce, per farsi sentire da Alaric.

“Dagli dell’asino da parte mia.” rispose l’uomo; Jeremy si mise a ridere.

 “Domani proverò a guardare meglio in soffitta…” aggiunse poi, riportando il discorso sui diari di Gilbert. “È probabile che li abbia spostati e che non mi ricordi più dove li abbia messi.”

“Vedrai che spuntano fuori.” lo rassicurò Rick. “Stammi bene, Jer.”

“Anche tu.”  ribattè Jeremy, un po’ rincuorato. “A presto!”

Chiuse la chiamata e gettò il cellulare sul letto, lasciandosi ricadere a sua volta sul materasso. Chiuse gli occhi per qualche secondo, passandosi pigramente una mano fra i capelli. Li riaprì, quando avvertì una il tocco familiare sfiorargli il capo; sorrise.

“Ehy…” mormorò, mentre la moglie prendeva posto accanto a lui.

“Ehy!” ripeté Hazel, dandogli un colpetto col gomito per farsi spazio. “Xander mi ha appena detto che sta andando in biblioteca per studiare storia. Dici che dobbiamo preoccuparci?” chiese con aria divertita. Jeremy diede una scrollata di spalle, prima di sfiorarle il capo con un bacio. “Ti ha detto che è finito il gel?”

Hazel inarcò un sopracciglio.

“Almeno dieci volte.” rispose. “Ha attaccato il calendario delle partite sul frigo?” proseguì la donna.

“Sì, e ha già fatto fuori metà dei biscotti dal barattolo che abbiamo aperto questa mattina.” aggiunse Jeremy, con un sorriso. Hazel analizzò mentalmente la situazione, riflettendo con aria critica.

 “Allora non credo che dovremmo preoccuparci.” annunciò infine la donna, sollevandosi in piedi. “È tutto come al solito.” concluse con un sorriso furbo, prima di chinarsi ancora una volta, per baciare il marito. Jeremy ricambiò il bacio e la osservò allontanarsi con un sorriso. Si abbandonò nuovamente sul materasso e recuperò il cellulare, cacciandoselo in tasca.

Aveva ragione sua moglie, pensò. Tornò a chiudere gli occhi, passandosi poi una mano davanti alla bocca per mascherare uno sbadiglio.

Tutto procedeva come al solito.

 

Nota dell’autrice.

Prima di passare al polpettone parte seconda, comunico che da qualche mese ho aperto un gruppo facebook dedicato esclusivamente a questa storia. Lo uso per condividere informazioni sulla trama, spoilers, foto, sondaggi e millemila altre cavolate (e anche per prendere in giro un po’ i pargoli, sissì.) Lo trovate QUI, basta chiedere l’iscrizione.

Volevo anche ricondividere il sondaggio sui personaggi preferiti che è da un sacco che non lo faccio!Lo trovate QUI. Il sondaggio sulle coppie preferite, invece, lo trovate QUI.

Ok, torniamo a noi. In ritardo di millemila anni luce, eccomi qui con il mio ennesimo polpettone! A sto giro è davvero un polpettone iper-ripieno e lungherrimo, ma anche sta volta, dovevo sopperire a un mesetto e mezzo di assenza e ci è scappata una roba lunghetta, portate pazienza. Incomincio questo polpettone parte seconda chiedendovi scusa: ritardo a parte, so che alcune scene di questo capitolo non sono il massimo, avrei dovuto (e avrei potuto) scriverle meglio, ma mi sono lasciata prendere un po’ dalla fretta e certi pezzi li avevo scritti fin troppo tempo fa, quindi il risultato finale è stato un pasticcio. Ho cercato di sistemare un po’ tutto in fase di revisione, spero di essere riuscita a rendere in maniera quanto meno decente il tutto.

Passando direttamente al capitolo… *sta volta Laura si è preparata e si è portata dietro gli scatoloni per le scarpe che le verranno lanciate* ebbene sì: la storia si ripete. Il titolo, in questo caso, riprende due cose diverse. In primo luogo, ha a che fare con Mason e la maledizione, ma, come lascia suggerire la citazione iniziale del capitolo - tratta dalla conversazione Jeremy/Alaric nell’episodio appunto intitolato History Repeating – il giro di boa ce l’ha anche Xander a questo giro. E il riferimento alla storia che si ripete è letteralmente legato a lui, a Lester e alla storia intesa come materia, come avete potuto notare. Ma andiamo con ordine.

Oh, io ve l’avevo detto che la persona investita vi avrebbe fatto ridere. Il fatto è che a me non piace uccidere la gente a caso (ma tanto, virtualmente, vedrete che lo farò lo stesso xD) e poi volevo ridurre almeno di un poco il senso di colpa di Mase XD se gli avessi fatto investire un povero giovane nel fior fiore dei suoi anni o un uomo di mezz’età sposato con figli, mi sarei sentita troppo in colpa. E così gli ho appioppato il Ricki ubriacone del futuro XD Se non altro era anziano, e poi non aveva attraversato sulle strisce v.v

E quindi, Mason scatena la maledizione, ma nessuno (a parte Caroline, la sua famiglia e probabilmente Oliver) sa che è stato lui a provocare l’incidente; Fell in primis, crede che a guidare fosse Tyler, e quindi, ora che Clay è morto, saprà con certezza che papà Lockwood è un lupo mannaro.

Poi abbiamo Mase, che nonostante fosse indirettamente il protagonista del capitolo, non si è visto molto; ho preferito far passare tutto ciò che succedeva attraverso il punto di vista di Tyler e in parte quello di Ricki e serbare la reazione di Mase a quello che gli sta succedendo per il capitolo successivo. Già qui, comunque, l’abbiamo visto oscillare un po’. Il fatto che balbetti, come penso di aver già scritto da qualche parte, è qualcosa che si porta dietro dalla sua infanzia, e che a volte torna a infastidirlo (ovviamente in maniera più lieve). In genere quando è particolarmente nervoso, spaventato o turbato per qualcosa.

Poi c’è Tyler. Sono i pezzi in ospedale a cui mi riferivo quando dicevo che penso di non averli scritti abbastanza bene; ho avuto un po’ di difficoltà sia con lui, sia con Caroline. Il riferimento a “She’s watching over us”, qui era d’obbligo, perché per me, tutto è nato da lì. Quella one-shot è nata quando decisi che Mason avrebbe scatenato la maledizione e che Caroline sarebbe tornata a Mystic Falls dopo tanti anni. È strettamente collegata a questo capitolo di History Repeating, forse anche perché spiega molto sul perché Caroline sia così decisa ad aiutare Mase, e sul come mai tutti sembrino domandarsi “perché proprio lui?” facendo riferimento a Mason.

Proseguendo oltre…Il diario di Mason senior, nel caso ci fosse confusione a riguardo, è il diario che Tyler trova nella cripta e che scopre essere di suo zio. Quello in cui ha documentato tutto sul periodo precedente alla prima trasformazione e che contiene il cd proprio con quella.

Poi… Lester e Xander! Ah, la mia parte preferita del capitolo :3 Tantissimi parallelismi a TVD in questa conversazione, non ho potuto farne a meno. Mi sono resa conto scrivendo che i due figli di Xander stanno entrando in contatto con il sovrannaturale grazie alle due cose che l’hanno permesso al padre: Annabelle, i diari di Gilbert e un insegnante di storia cacciatore di vampiri. Lester, tuttavia, non è Alaric, e Xander non è Jeremy. A differenza del padre che ci è rimasto incappato per caso, Xander usa la sua insufficienza per cercare di ottenere informazioni sul passato di Mystic Falls. Vedremo se riuscirà a ricavarne qualcosa, ma confesso che la sua tontaggine un po’ mi preoccupa XD Ah, e nel prossimo capitolo tornerà lo Xanderine, tranquilli!

Ultima nota e poi fuggo, perché sto scrivendo davvero troppo! La telefonata Alaric/Jeremy.

Allora, su questo mi volevo proprio soffermare. Prima di incominciare HR, non avevo un’idea ben precisa su Rick; è un personaggio che amo e mi sarebbe piaciuto inserirlo, ma stranamente, lo sentivo come fuoriposto. Lo immaginavo fuori città. Trasferitosi da qualche parte fuori da MF, e così è stato. Plottando questo capitolo, mi sono resa conto che sarebbe stato d’obbligo inserirlo in qualche modo almeno in un paragrafo, perché tutto lo storyline di Xander e Lester si allaccia a lui, per non parlare della citazione iniziale e del titolo. E così optai per la telefonata Jeremy/Alaric. ___________SPOILER EPISODIO 3x20___________________________ E poi mi hanno ucciso Alaric ç___ç E ci sono rimasta malissimo; in fondo avrei potuto tranquillamente eliminare la scena per mantenere coerenza con il telefilm, ma non mi andava per niente. Intanto, perché mi piace sapere che Alaric sia vivo almeno qui, anche se non penso lo vedremo spesso. E secondo, perché ormai questa storia ci azzecca ben più poco con la terza stagione, quindi, essendo una what if?, non ho bisogno di adattare il tutto ai nuovi risvolti della serie. Ma ho comunque  pensato di introdurre  la morte di Alaric sottoforma di incubo. Il ‘mio’ Jeremy (quello di Pyramid e History Repeating, per intenderci) ha spesso di questi incubi, come già ha accennato nella conversazione con Oliver in “smells like teen spirit” e come si può vedere in Pyramid. . E ne ho approfittato dell’incubo per inserire un riferimento alla 3x20, , per poi  smentirlo subito con un’immagine serena di Rick. Ci tenevo proprio. E poi boh, lo ammetto, ci tenevo anche  a trollare un po’ la serie tv, visto che la morte di Rick non mi è proprio andata giù XD ______________FINE SPOILER EPISODIO 3x20.

E poi che aggiungere? C’è stato finalmente un po’ di Rictoria –w- (Ricki/Vicki) e Julian si è dato da fare per assicurarsi di non essere l’unico maghetto di Richmond, ma ha anche scoperto qualcosa che l’ha sorpreso un po’: non è il professore creepy ad essere stregone, ma la ‘rosicchia-matite’ Aria ad essere una streghetta. Un po’ ostile, tra l’altro. Scopriremo perché.

Il prossimo capitolo arriverà non so quando e dovrebbe intitolarsi “Brave New World”, se non erro. Il capitolo si aggancerà in parte a qualcosa che abbiamo già visto.  Posso dire che torneranno sia Casper che la sua Kat (Oliver e Anna) e che Caroline manterrà la promessa fatta a Tyler: quella di vegliare su Mase. Per gli altri personaggi non posso ancora dirvi nulla,perché il capitolo devo ancora plottarlo *\\\* Vedremo!

Un abbraccio grande a chi è riuscito a sopravvivere fino alla very end del polpettone, per dirla alla zia Rowling.

Laura

 

   
 
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