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Autore: Tury    03/06/2012    1 recensioni
"[...]Accadeva spesso che persone sane commettessero atti di violenza inaudita e venissero chiamati pazzi, mentre chi riusciva a superare i limiti del proprio essere era considerato genio. Cos'è, in realtà, la genialità? Un'appendice della pazzia stessa? No, essa è manifestazione della pazzia. Questi miei occhi hanno visto così tante ingiustizie in quel mondo dominato dai sani, dai normali, che hanno deciso di privarsi di quella falsa luce. Di non soffrire più."
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lavoravo ormai da tempo, come volontaria, in un istituto di igiene mentale. Conoscevo ogni paziente e ogni diagnosi. Non mi sorprendeva più nulla in quelle persone, eppure c'era un paziente che attirava oltremodo la mia attenzione. Si trattava di un'anziana signora, cieca. La sua diagnosi era semplice, diretta e spietata. Pazza. Solo questa semplice parola. Passava le intere giornate a guardare fuori dalla finestra, descrivendo ad un compagno immaginario lo scenario che vedeva. Mai nessuno si era preso il fastidio di ascoltare quei suoi deliri, di chiedersi come mai, pur essendo cieca, le sue descrizioni fossero così minuziosamente dettagliate. Semplicemente, si credeva che avesse chiesto a qualcuno di descriverle il paesaggio fuori da quella finestra. Alcuni medici ritenevano che il continuo ripetere quella descrizione fosse un modo come un altro per evadere da quelle quattro mura rigorosamente bianche. In sintesi, l'anziana signora era stata abbandonata a se stessa, poiché il tempo era troppo poco per dedicarle anche solo un minuto di ascolto. Eppure, lei non si era mai lamentata di questa mancanza. Lei aveva forse ciò che ogni uomo desidera, un compagno con cui parlare. Poco importava se questi fosse reale o immaginario, esisteva, almeno nella sua mente, e di più non chiedeva. Quel giorno avevo terminato il mio turno un'ora prima, avrei potuto tornare a casa, continuare quel romanzo che stavo leggendo, ma qualcosa mi spinse ad entrare in quella stanza. Entrai, cercando di essere il più silenziosa possibile, per non disturbare la paziente. Come ogni giorno, lei era lì, a guardare fuori e a descrivere tutto ciò che vedeva, ma si interruppe dopo poco.
“Abbiamo visite, amica mia.”
Ecco che riprendeva a parlare con quel suo compagno immaginario,senza voltarsi verso di me, senza puntare sulla mia figura quei suoi occhi velati, tipici dei ciechi.
“Mi starà dando della pazza, come tutti qui dentro. Si starà chiedendo perché io descriva sempre lo stesso paesaggio e non cambi soggetto. Ma non sa, la nostra ospite, che lì fuori tutto muta in un secondo mentre chi è costretto in queste mura arresta la sua vita nel secondo esatto in cui ci mette piede.”
L'ascoltavo, senza parlare, quasi timorosa che il mio respiro distruggesse quell'armonia e quella calma che l'avevano sempre circondata. Decise poi di rivolgere i suoi occhi a me e, con mia grande sorpresa, notai che su di essi non era calato alcun velo. Anzi, erano vivi, attenti, con una strana luce ad animarli.
“Quegli occhi, li riconosci, vero amica mia? Quanto tempo abbiamo impiegato a cercarli per il mondo intero. E solo ora che ci hanno costrette all'immobilità, quegli occhi hanno deciso di raggiungerci, di mostrarsi. Quanto è beffarda questa vita, ma dopotutto, dovevamo aspettarcelo.”
Ero bloccata da quello sguardo, così vivo su di me, ma privo di qualsiasi giudizio.
“Come mai non parli? Hai paura di me?”
“No, assolutamente!” mi affrettai a precisare.
“Meglio così.” mi disse sorridendo.
Il silenzio tornò a calare tra di noi. Quella signora mi appariva così sola eppure così felice.
“Qualcosa ti turba, mia cara?” mi chiese, quasi mi avesse letto nel pensiero.
“Mi chiedevo come è possibile essere felice pur restando soli.”
“Ma io non sono sola, non lo sono mai stata. Lei è sempre con me.”
Ero confusa. Per quanto sapessi che quella persona era totalmente pazza, le sue parole mi apparivano così sincere che iniziavo a dubitare di qualsiasi diagnosi fatta su quella strana paziente. Ma in quella stanza ci trovavamo solo noi due, era questa la realtà. Probabilmente, la persona a cui si riferiva era una sua parente o conoscente morta da tempo, il cui pensiero però la perseguitava.
“Mi scusi signora, potrei sapere come si chiama?”
L'anziana signora mi guardò un attimo per poi sorridermi dolcemente.
“Non lo ricordo, mia cara. Credo di aver rimosso il mio nome.”
“Allora come la chiamano i dottori?”
“Non presto attenzione alle loro parole, ma se proprio hai il desiderio di assegnarmi un nome, chiamami pure Morìa.”
Morìa, un nome che non avevo mai sentito e che non fece altro che aumentare la mia curiosità.
“Morìa, posso chiederle chi era la persona di cui parlava prima? Perché vede, in questa stanza ci siamo solo noi due.”
“L'uomo crede di vedere pur essendo cieco e chiama ciechi coloro che in realtà vedono. Tu affermi che in questa stanza ci siano solo due persone, io posso ben dire che ce ne siano quattro.”
Non capivo cosa intendesse, ma volevo comunque sapere la sua storia.
“La prego, mi parli di lei.”
Morìa mi guardò sorpresa, poi sorrise
“Anche io le feci quella richiesta. Ti consiglio di accomodarti.”
“Come?”
“Era un pomeriggio di novembre, avevo su per giù diciassette anni. Quello era il giorno che programmavo ormai da mesi. Quello, era il giorno in cui avrei detto addio alla vita. Sì, amica mia, so che non ti ho mai svelato questo mio piccolo segreto ma non volevo ferirti. Mi stavo dirigendo verso il fiume, quel fiume che sarebbe stato anche la mia tomba ma il caso, o forse il fato, volle che io passassi proprio davanti ad un teatro. L'insegna, la ricordo ancora, era sbiadita, quasi illeggibile. Quella piccola struttura, che in passato aveva ospitato attori e spettatori, ormai appariva abbandonata, dimenticata da ogni essere umano. Esattamente come me. Pensai che un'ora in più o un'ora in meno non avrebbero cambiato le cose, ero decisa a morire e sapevo che la morte sapeva attendere. Dunque, entrai e fu lì che incrociai per la prima volta il suo sguardo.”
Si fermò, visibilmente emozionata. I suoi occhi erano lucidi e le sue labbra tremavano appena. Mi sedetti su una sedia lì presente, aspettando che continuasse, curiosa di conoscere l'identità della persona che non l'aveva mai abbandonata, nemmeno nella pazzia.
“Il teatro all'interno era buio, vuoto. Credevo di essere sola in quel luogo tanto grande, ma qualcosa si mosse sul palco, una figura avvolta dalle tenebre. Rimasi in silenzio, finché non mi chiese cosa volessi. Non risposi, così quella misteriosa persona mi lanciò qualcosa. Quando capii cos'era rimasi sconvolta. Un braccio umano. Tornai a guardare il palcoscenico e la vidi, lì, in piedi, con il sangue a macchiarle il viso e gli abiti bianchi. Me ne innamorai.”
“E poi, cosa successe?” volevo che continuasse quel suo racconto. Ero completamente stordita dalle sue parole, desiderosa di conoscere altro, di diventare io stessa parte di quella storia. Ubriaca di curiosità.
“Mi disse che lei aveva mangiato un uomo, così, come si dice che in cielo c'è il sole, con una naturalezza da far rabbrividire chiunque, ma io non avevo paura di lei. In qualche modo, quella ragazza mi aveva stregata. Disse ancora che era stata lei a mangiarlo, ma che non dovevo sorprendermi perché ero stata io ad ordinarglielo. Non riuscivo a capirla, era la prima volta che la vedevo eppure lei diceva che ero stata io a chiederle di spingersi a tanto, a macchiarsi le mani di una tale atrocità. Glielo feci notare ma lei fermò le mie parole, dicendo che nessuno le aveva chiesto nulla eppure lei aveva mangiato un uomo. A quel punto le chiesi come si chiamasse, proprio come tu hai fatto con me, e lei mi rispose che il suo nome era Pazzia. Immaginerai la mia sorpresa a quelle parole. Pensavo di star parlando con una pazza ma lei mi fece notare che non aveva detto di esser pazza ma di chiamarsi Pazzia. La differenza era notevole. Lei era la Pazzia di cui gli uomini avevano paura, al cui passaggio si scansavano, sulla quale erano tutti pronti a puntare il dito. Eppure, lei non aveva fatto altro che obbedire ai loro ordini, macchiandosi le mani per compiacerli. Le chiesi perché si fosse spinta a tanto, cosa le imponeva di obbedire a quegli uomini. A quella domanda, il suo sguardo si spostò verso il soffitto, come a cercare una risposta. Mi disse che l'aveva fatto perché voleva essere amata e una lacrima cadde giù dai suoi occhi.”
Anche dagli occhi di Morìa iniziarono a cadere delle lacrime, sottili, come fili di seta. Io restai in silenzio, senza saper bene cosa dire.
“Le chiesi se avesse mai conosciuto l'amore umano e mi rispose di sì, che l'aveva conosciuto. Per anni, uomini e donne l'avevano amata, musa ispiratrice dei più grandi scrittori, artisti e musicisti. Lei, che aveva vegliato sui suoi amanti fino all'attimo della loro morte, senza abbandonarli mai, ora si ritrovava vestita di stracci, i polsi incatenati, costretta a mangiare carne umana come pane e a bere sangue come acqua. E tutto questo per amore di un uomo che ormai sapeva solo uccidere i propri fratelli, dando la colpa a lei, alla Pazzia, senza chiedersi, in fondo, quanto potesse valere realmente una vita umana. Ma lei non appariva preoccupata per sé, bensì per la sorella, creatura fragile che in mani sbagliate sarebbe potuta morire per sempre. Le chiesi che aspetto avesse sua sorella e lei me ne dipinse il volto su un telo bianco, con la vernice presente in quel luogo. Non avevo mai visto ritratto più bello,così come il volto che raffigurava. Rimasi bloccata, sopraffatta da ciò che i miei occhi stavano guardando. Quella giovane ragazza non disse più nessuna parola. Si stese per terra, ad ammirare il ritratto della sorella. Non mi chiese niente, ma sentivo il suo desiderio di salvarla, di ritrovarla almeno. Mi mossi dunque alla ricerca di qualcosa che potesse liberare quella povera ragazza da quell'atroce prigionia. Trovai delle pinze, con cui riuscii a rompere le catene. Lei mi guardò, sorpresa, attendendo un mio ordine. Le sorrisi, dicendole di andare, che era libera. La ragazza camminò, insicura, volgendosi ogni tanto verso di me, finché non varcò la soglia. Le avevo ridato la libertà, le avevo permesso di tornare a cercare la sorella. Ora, non restava altro se non riprendere il mio cammino e portare a termine ciò che mi ero prefissata. Ma nell'attimo esatto in cui mossi il primo passo, la sua mano strinse la mia e per la prima volta potei vedere il suo sorriso. Molti dicono che la Pazzia distrugge la vita non solo della persona affetta ma anche dei suoi familiari. Ma come hai potuto ascoltare dalla mia breve narrazione, la Pazzia, nel mio caso, la vita me la salvò.”
Aveva appena finito di parlare, quando la porta della camera si aprì e ne entrò un medico, vestito di bianco.
“Signora, ecco le sue medicine. E tu chi sei?” mi disse guardandomi.
“Una delle ragazze del volontariato.”
“E come mai sei ancora qui?”
“Mi teneva compagnia.” rispeso Morìa, guardandolo con sguardo fermo.
“Ah, capisco. Ragazzina ti dispiacerebbe seguirmi un attimo fuori?”
“Ma veramente...”
“Vai.” disse Morìa, tornando a guardare fuori dalla finestra.
Uscii con l'infermiere, infastidita da quell'interruzione.
“Perché mi ha chiamato fuori?” gli chiesi, appena chiusi la porta alle mie spalle.
“Ragazzina, quello che sto per dirti lo dico solo per il tuo bene. Lascia perdere quella signora.”
“Ma io...”
“Niente ma, quella donna è pericolosa!” mi interruppe lui.
“Perché dice così? A me non sembra pericolosa!”
L'uomo mi guardò contrariato, vistosamente irritato da quelle mie parole.
“Quella donna è una manipolatrice, riesce a controllare le persone a proprio piacimento! Ti conviene restarle lontano o...”
“Mi sta forse dando della stupida? Mi considera una ragazzina senza identità e quindi facilmente plasmabile ai voleri della gente? Se è questo che lei pensa, si sbaglia di grosso e l'unica cosa che penso di quella donna è che sia terribilmente sola e che voi l'abbiate volontariamente abbandonata a se stessa. È così che si dovrebbe comportare un medico degno di tale appellativo? Non sarebbe forse compito suo spendere ogni sua forza per il benessere del paziente?” lo interruppi.
“Signorina, lei non mi lascia scelta. Da questo momento in poi lei è esonerata da qualsiasi attività all'interno dell'istituto. La prego di dirigersi all'uscita.”
Non ci potevo credere. Mi stavano cacciando, per cosa? Per aver scambiato qualche parola con quell'anziana donna. Non volevo andarmene, non senza salutarla. Non volevo essere l'ennesima persona che l'abbandonava. Dissi al medico che dovevo recuperare il mio zaino all'interno della stanza, lui mi intimò di sbrigarmi e andò via, troppo preso da impegni più importanti, in perenne corsa contro il tempo. Rientrai, e Morìa era ancora lì, a guardare fuori dalla finestra.
“Devi andare via.”
Sussultai a quelle parole, mi sentivo sporca ai suoi occhi. Una traditrice.
“Mi dispiace.”
“Non preoccuparti, mia cara. Non c'è alcun problema. Non vedo quale motivo dovrebbe spingerti a tornare qui, domani, se è con me che vuoi parlare.”
Rimasi in silenzio, come sempre quando non riuscivo a capire ciò che intendesse.
“Morìa, perché dici di non vedere?”
“Semplice, perché sono cieca.”
“Ma tu ci vedi!”
Morìa si voltò verso di me, guardandomi ancora con quei suoi occhi così vivi per essere spenti.
“Mia cara, a questo mondo non esiste un'unica luce, come non esiste un'unica ragione.”
Distolsi gli occhi e solo in quel momento mi accorsi che le medicine erano ancora lì, intatte.
“Morìa, deve prendere le medicine.”
Si voltò verso il tavolo su cui erano state poggiate e rise.
“Non ho bisogno di quelle. Gli uomini mi dicono che sono pazza e per questa mia malattia cercano delle cure. Ma cosa mi assicura che loro siano i sani? Chi è degno di giudicare la sanità mentale di una persona, ma soprattutto, chi può permettersi di giudicare il suo prossimo? Ho girato molto, prima di essere rinchiusa tra queste quattro mura. Accadeva spesso che persone sane commettessero atti di violenza inaudita e venissero chiamati pazzi, mentre chi riusciva a superare i limiti del proprio essere era considerato genio. Cos'è, in realtà, la genialità? Un'appendice della pazzia stessa? No, essa è manifestazione della pazzia. Questi miei occhi hanno visto così tante ingiustizie in quel mondo dominato dai sani, dai normali, che hanno deciso di privarsi di quella falsa luce. Di non soffrire più.”
“Non ti penti di nulla? Nemmeno di essere stata rinchiusa qui dentro da sola?”
Morìa mi guardò, con una strana rassegnazione sul volto.
“Nemmeno tu mi credi.”
“No! Io le credo, io voglio crederle! Ma lei mi parla della pazzia come se questa esistesse, come se la si potesse toccare. Lei capisce, non è possibile! Questa non è la realtà...”
Ero confusa. Sapevo che Morìa non mi stava mentendo, sapevo che la sua verità era più forte di qualsiasi realtà che io potessi vedere, eppure avevo paura. Avevo paura di ammettere a me stessa che stessi diventando pazza anche io.
“Tranquilla, non sei pazza.” mi disse improvvisamente.
Rimasi sbalordita. Riusciva ogni volta a cogliere le mie ansie e le mie preoccupazioni, come se stesse leggendo un libro.
“Ma come fa?”
“ È un'abilità di noi pazzi, sappiamo sempre cosa accade all'interno di una persona, cosa pensa, cosa la preoccupa. È il nostro modo di relazionarci con il prossimo. Ma tranquilla, non è il tuo caso. Tu non sei pazza.”
“Perché non può essere il mio caso? Perché io non posso diventare pazza come lei? Perché io non posso capire le persone solo con uno sguardo?”
“Perché non sapresti aiutarle.” La sua risposta mi gelò sul posto, fredda e diretta.
“Che cosa significa?” le chiesi, sempre più confusa.
“Chi è pazzo riesce a creare un collegamento con la persona che lo guarda. La chiamano empatia, condivisione di sensazioni ed emozioni. Si diventa un tutt'uno con chi ci sta di fronte. Ma è impossibile, per un pazzo, riuscire ad aiutare le persone.”
“Perché? Non dovrebbe essere tutto più semplice?”
“Mia cara, essere pazzo significa dubitare sempre di ciò che ci circonda. No, non siamo scettici noi, ma sognatori. Noi dubitiamo perché sappiamo che un secondo dopo quella stessa realtà cambierà, si vestirà di magia, diventerà qualcosa di diverso dal passato ma nel passato si ritroverà. Non è un evolversi progressivo, come l'evoluzione dell'uomo. No. È crescere su ciò che già fu detto, è vivere essendo se stessi e nello stesso momento gli altri. Essere pazzo significa essere tutti e nessuno.”
“Non avete un'identità, quindi.”
“Certo che ne abbiamo una.”
“Ma se siete tutti e nessuno, ciò significa che non ne avete una precisa.”
“Ti sbagli, noi abbiamo un'identità ma il riuscire a trovarla è pura utopia. È estremamente difficile, sfiora quasi l'impossibile ma non lo è, non è impossibile perché è nostra, è figlia della nostra pazzia e alla pazzia nulla è negato.”
“E tu, l'hai trovata?”
“Alla pazzia nulla è negato.”
“Cosa significa che alla pazzia nulla è negato?”
“Significa ciò che ho detto, mia cara.”
“Quindi, se io uccidessi una persona e mi dichiarassi pazza non avrei commesso alcun delitto, perché, dopotutto, alla pazzia nulla è negato.”
“Questo l'hai detto tu, non io.”
“Ma se ha appena detto che alla pazzia nulla è negato! Ciò significa che tutto le è concesso!”
“Mia cara, è vero che se volesse, un pazzo potrebbe uccidere ma ciò, sono sicura, non avverrebbe mai. Alla pazzia nulla è negato, è vero, ma della conoscenza del prossimo. E noi il nostro prossimo lo amiamo più di noi stesso, lo amiamo così tanto da voler custodire una parte di lui dentro di noi. Chi è pazzo conosce il ciclo del tempo, conosce la natura e la vita e la stessa morte. E non teme nulla. Chi è pazzo è rinchiuso, odiato, deriso, umiliato ma non riuscirà mai ad odiare. A chi è pazzo non è negato nulla, né il cielo né la terra, né di capire il linguaggio del vento né di essere un fiore. A chi è pazzo è concesso di conoscere questo mondo così come lo concepisce la natura, senza modifiche umane. A chi è pazzo è concesso tanto, proprio per questo la società lo priva di tutto, anche del semplice diritto di esistere.”
“Quindi un pazzo è costretto ad essere infelice.”
Morìa scoppio a ridere.
“Ti sembro forse infelice?”
“No.”
“Chi è pazzo è felice proprio perché l'uomo vuole che sia infelice. Noi conosciamo l'odio, per questo rispondiamo con l'amore. Noi conosciamo le lacrime, per questo sorridiamo sempre. Noi siamo gli eterni che pur morendo rimangono immortali. Eterni fanciulli in un corpo mortale, ma pur sempre eterni.”
Più la sentivo parlare, più desideravo accogliere la pazzia dentro di me, divenire sua schiava. Poter vivere guardando il vero volto delle persone e delle cose che mi circondavano.
“Non è quello il tuo destino, tu non puoi e non devi diventare pazza.”
“Ma perché, me lo spiega? Eppoi, lei che ne sa di quello che accadrà nella mia vita? È così sicura che esista un destino? La smetta di leggermi dentro!”
“Vedo che finalmente hai capito.”
“Capito cosa?”
“In ogni caso, la pazzia non rende schiavo nessuno, al massimo rende liberi.”
“Non ha risposto alla mia domanda.!”
Morìa mi guardò, sorrise e si voltò ancora una volta verso quella finestra. Sentivo dentro di me uno strano fastidio, come se volessi vomitare fuori tutte le parole che mi passavano per la testa. Ma l'unica cosa che riuscii a chiedere fu chi fosse la sorella della Pazzia.

“È davvero strano che proprio tu mi ponga questa domanda.”
“Perché dovrebbe essere strano?”
Mi guardò e rise, ma non di un riso offensivo, beffardo, bensì di una risata dolce. Sembrava quasi una carezza. Gliene chiesi il motivo, ma non mi rispose. Semplicemente, si alzò dalla sua sedia e si diresse verso il letto, dove si chinò per alzare una delle mattonelle del pavimento.
“Che cosa sta facendo?” le chiesi allarmata.
“Tranquilla, tra poco capirai.”
Ne estrasse un telo bianco, dopodiché rimise la mattonella al suo posto e andò verso il tavolo. Le medicine erano ancora lì ma lei, senza nemmeno prestarci la minima attenzione, le fece cadere a terra per poi aprire la tela, rivelandone il contenuto. Ciò che vidi mi bloccò il respiro. Su quella tela bianca era dipinto il volto più bello che avessi mai visto. Due occhi di un azzurro intenso spiccavano su di un volto perlaceo. I capelli, lunghi, incorniciavano quel viso ovale. E c'era un sorriso, un sorriso che non avevo mai visto, un sorriso che forse in questo mondo non sarebbe mai esistito. Era un sorriso dolce, infinitamente dolce, senza nessun ombra giudizio o di tristezza. Guardandolo, l'unica cosa che riuscissi a pensare era che nessun male doveva aver mai sfiorato quella giovane donna. Mi voltai, per chiedere a Morìa chi fosse quella donna ma rimasi in silenzio. Sulla parente alle mie spalle vi era raffigurato un altro volto, decisamente diverso da quello che era stato dipinto sul telo. Gli occhi erano scuri, così scuri da non distinguere la pupilla dall'iride e una strana scintilla li animava. I capelli, corti, sembravano mossi dal vento più impetuoso e sul suo volto non vi era l'ombra di alcun sorriso. Il colore naturale della pelle e delle labbra era coperto da quello rosso del sangue. Quella visione mi terrorizzava, come se quel demone esistesse davvero e fosse presente in quella stanza. Cercai con lo sguardo Morìa e la vidi seduta ai piedi della parete, completamente a suo agio.
“È stata lei?” le chiesi tornando a guardare il disegno sulla parete.
“Ora l'equilibrio è ristabilito.”
“È stata lei?” tornai a ripetere.
“Se ti riferisci al volto raffigurato su questa parete sì, sono stata io a dipingerlo. Ma non è opera mia la tela che riposa su quel tavolo.”
“Perché? Perché ha dipinto una creatura del genere?”
Morìa mi guardò in maniera confusa.
“Perché è la creatura più bella che abbia mai visto.” mi rispose, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“Come fa a dire una cosa del genere? La guardi! Vuol farmi credere che chi si macchia del sangue altrui è considerato da lei la creatura più bella del mondo?”
Lo sguardo di Morìa divenne severo, tanto che quasi mi pentii di aver detto quelle parole.
“Mia cara, queste cose le stai dicendo tu.”
Detto ciò mi indico la finestra. Io mi voltai a guardare nella direzione da lei indicata ma senza capirne bene il motivo, così tornai a guardarla.
“Che cosa significa?”
“Vai lì e guarda.”
Feci quanto mi aveva detto, mi diressi verso la finestra ma ciò che vedevo era sempre lo stesso paesaggio. Nulla era cambiato, a dispetto di quanto lei affermava.
“Morìa, per quanto io possa restare qui a guardare, il paesaggio che vedrò sarà sempre uguale.”
“Ma io non ti ho detto di guardare il paesaggio, sarei una pazza se credessi che tu potessi cogliere i cambiamenti che avvengono là fuori.”
Risi a quelle parole.
“Morìa, lei è pazza.”
“Lo so.” mi disse sorridendo.

“Sa, credo di essere cieca.”
“Mia cara, nessuno a questo mondo è cieco. Solo, il mio modo di vedere la realtà è diverso dal tuo ed è giusto che sia così. Ciò che per me è invisibile è visibile per te invece.”
“Cosa dovrei guardare allora?”
“Ciò che lo specchio mostra.”
Per l'ennesima volta non riuscii a comprendere ciò che volesse dirmi ma feci quanto disse. Mi avvicinai alla finestra, ma non riuscivo a capire cosa dovessi vedere o perlomeno cercare.
“Quando hai visto il volto dipinto sul muro cosa hai provato?” mi chiese, distogliendomi dall'osservazione.
“Paura.” le risposi.
“Sicura? Non mentire a te stessa, noi siamo più di ciò che diciamo di essere. Questo nostro corpo, il nome che portiamo, queste nostre fattezze sono solo un mero riflesso di ciò che siamo realmente. Dimmi, chi sei?”
“Chi sono? Ma dovrebbe saperlo ormai!”
“Non è forse vero che guardando quegli occhi neri tu hai provato paura ma subito dopo qualcosa ti ha spinto a capire il motivo di quel sangue e della mancanza del sorriso?”
“No, non è così, deve credermi!”
“Mia cara, te l'ho già detto, ciò che per te è invisibile è per me la cosa più chiara di questo mondo. Ora torna là e guarda bene. Certa te stessa, ritrova te stessa.”
Ancora una volta seguii il suo consiglio e tornai a quella finestra. Fu in quel momento che li vidi, due occhi azzurri, più azzurri del cielo e quella pelle bianca, più della Luna. Era lì, ferma, a sorridermi. Era reale. Iniziai a piangere, senza motivo. Quella era la creatura più bella del mondo, riflessa sul vetro di quell'anonima finestra. Improvvisamente, nello stesso vetro, vidi avanzare un'altra figura, che si fermò alle spalle della prima. La nuova arrivata era leggermente più alta, bella quasi quanto lei. Era vestita in modo elegante, i capelli corti tirati indietro, colorati di tutti i colori del mondo, così come l'intero corpo. Anche gli abiti, la pelle, addirittura le iridi. Tutto di quella ragazza era colorato. Pensai che fosse l'incarnazione dell'arcobaleno.
“È davvero bella, proprio come me l'avevi dipinta”
Mi girai di scatto e guardai Morìa, che intanto si era posizionata alle mie spalle senza fare il minimo rumore. Guardava il vetro di quella finestra, esattamente come io avevo fatto fino ad un secondo prima.
“Le hai riconosciute?” mi chiese poi, volgendo i suoi occhi a me.
“Riconosciute?” le chiesi.
“Guardala, guarda il suo sorriso. Forse non vi è sorriso più bello al mondo. E quel sorriso è tuo. E guarda quegli occhi, così azzurri da far invidia al cielo più limpido e all'oceano più profondo. In quegli occhi brilla la stessa luce che ho visto nei tuoi.” mi disse, ritornando a guardare le due figure.
“Morìa, io non capisco.”
“E come potresti, io non ho mai concluso la mia storia.”
“Allora lo faccia, la prego!” le chiesi, quasi pregandola.
A dispetto di quanto avessi appena chiesto, Morìa restò in silenzio. Continuava a guardare gli occhi di quella ragazza dai mille colori, sorridendole.
“Morìa...”
“Mia cara, guarda ancora il volto sulla parete, guardalo, senza timore. Soffermati sugli occhi e poi dimmi, non ti pare che quegli occhi ora ci stiano guardando, siano presenti in questa stanza?”
Tornai a guardare gli occhi dipinti sulla parete e solo in quell'attimo capii cosa Morìa intendesse. Mi voltai di scatto verso la finestra e li vidi lì, a guardarmi, anche se ora quelle iridi non erano più nere ma colorate.
“Morìa, che significa? Chi è quella ragazza?”
“Non l'hai ancora capito?” mi chiese, poggiando la mano sul il vetro. La ragazza fece lo stesso e in un attimo le loro dita si incrociarono. Morìa ritirò la mano, facendo uscire la ragazza dai mille colori, che si fermò proprio di fronte a me. Emanava una luce forte, che riempì in un attimo tutta la stanza. Le pareti bianche furono in un attimo piene di colori, che coprirono anche il volto in precedenza disegnato.
“Mia cara, ti presento la persona che mi liberò dalla morte, che mi seguì ovunque e che non mi fece mai provare il vuoto della solitudine. Ecco, lei è la Pazzia.”
Ero totalmente sopraffatta da quella visione, tanto da non riuscire a parlare. Non avrei mai creduto che in questo mondo potesse esistere una creatura così bella. Ma c'era qualcosa che non tornava in tutto ciò. Mi voltai verso Morìa, con la consapevolezza che ogni parola sarebbe stata superflua. Lei già sapeva cosa volessi sapere e infatti mi sorrise.
“Il volto che avevo dipinto sulla parete era il volto che vidi la prima volta che incontrai la Pazzia, ma già ti ho detto che a quel tempo lei era prigioniera della malvagità umana e che io la liberai. Ho vissuto tutta la mia vita amandola come, prima di me, altri uomini, degni di tale nome, l'avevano amata e forse di più. Mi hai chiesto se io non avessi alcun rimpianto di questa mia vita e ora posso dirlo, non ho alcun rimpianto, perché nel momento esatto in cui tu hai varcato quella soglia io ho capito che ero riuscita a raggiungere quel traguardo rincorso tutta la vita.”
“Io? Cosa c'entro io?”
Morìa si mosse e tornò al tavolo dove era ancora appoggiata la tela. Poggiò le dita sul disegno, accarezzandone piano i contorni.
“Lei è sua sorella, la persona che ho cercato per tutti questi anni. E ora è lì, in quel vetro. Finalmente l'ho trovata, anzi, l'abbiamo trovata.”
Mi avvicinai di nuovo alla finestra. Quella ragazza era ancora lì, a sorridermi.
“Perché proprio io?” le chiesi.
Lei non mi rispose, ma allungò una mano verso di me. Istintivamente mossi la mia, per stringere quella piccola mano, che appariva tanto fragile quanto forte. Sorprendentemente, non toccai il vetro freddo della finestra ma la sua pelle e le sue dita mi strinsero prontamente. La sua presa era delicata, ma decisa e nell'attimo esatto in cui ci toccammo sentii che qualcosa era cambiato in me. Uno strano potere mi fluiva dentro, mi riempiva tutta senza essere ingombrante. Era come se ci fosse sempre stato, solo addormentato, in qualche parte del mio corpo. Aggrappandosi a me, donandomi la sua fiducia, per nulla attraversata dall'idea che avrei potuto lasciare la presa, quella ragazza uscì dalla finestra, esattamente come prima aveva fatto la Pazzia. Nel momento esatto in cui i suoi piedi poggiarono sul pavimento, per me non esistette nient'altro che lei.
“Occhi che sappiano guardare oltre ogni barriera, mani che sappiano aiutare qualsiasi persona, un sorriso che sappia donare speranza anche nell'abisso più profondo.”
Percepii appena le parole di Morìa, ero troppo assuefatta da quel sorriso e da quella presenza.
“Chi sei?” le chiesi.
“Sono ciò che gli uomini cercano nel loro prossimo. Sono colei che è rinnegata e dimenticata dinanzi al nemico. Semplice voce nel vento, troppo leggera per essere udita dai cuori più duri. Eppure io sono qui e se qualcuno chiedesse di me chiunque potrebbe rispondere, perché tutti mi conoscono, pur non conoscendomi. Tutti sfuggono il mio sguardo ma dicono di conoscere il mio volto. Semplicemente, il mio nome è Humanitas.”
Risi. Una strana felicità mi pervadeva. Mi voltai verso Morìa, per festeggiare con lei. Non era morta, la sorella della Pazzia era viva! Ma qualcosa mi bloccò. Sul volto della ragazza dai mille colori non c'era nessuna traccia di felicità, ma un'enorme tristezza. Morìa si volse verso di me e mi sorrise.
“Mia cara, esprimi pure i tuoi dubbi, giacché all'umanità non è dato leggere dentro le persone, ma il suo dono è saper ascoltare. Chiedi dunque di poter ascoltare ciò che ti turba. Se non chiederai, non potrai mai aiutare.”
“Morìa, non è lei la sorella della Pazzia?”
“Certo che è lei.”
“E allora perché...” mi voltai a guardare la giovane ragazza. Quelle sue iridi colorate stonavano con la tristezza presente in quegli occhi. Io non capivo cosa stesse succedendo, perché non esprimeva la sua gioia?
“Amica mia, tu hai capito, non è vero? Questa mia vita è giunta al termine ma non essere triste, perché io me ne vado felice.”
“Come puoi andartene felicemente se non hai fatto altro che seguire il mio sogno senza curarti della tua vita?” Era stata la Pazzia a parlare. La sua voce era un dolce sussurro, pieno di malinconia.
“Amica mia, forse il mio unico sogno era poter vivere per qualcuno, poter essere utile. Poter essere felice. Mi sembra che tu mi abbia dato tutto questo e non guardare a questi ultimi anni come ad una prigionia. Tu mi sei sempre stata vicina, di cosa mi sarei dovuta lamentare o di cosa sarei dovuta essere triste? Ho visto così tanto, ho vissuto così tanto che posso dire di andarmene realmente felice. E sono davvero poche le persone che possono proferire tali parole con la leggerezza nel cuore.”
Si voltò poi verso me e mi sorrise ancora.
“Mia cara, promettimi che ti prenderai cura di lei. Lei è fragile, forse più della tua Humanitas. Prenditi cura di lei, è questo il mio ultimo desiderio. Ora andate, diffondete i vostri pensieri e le vostre idee. Cambiate questo mondo.”
Detto ciò, Morìa andò a stendersi sul suo lettino, attendendo la morte come si attende un lontano parente che non si vedeva da molto tempo. Humanitas mi prese la mano e mi condusse verso la porta, ma lei, la ragazza dai mille colori era lì, vicino alla persona che aveva votato la sua vita alla pazzia.
“Vai. Non preoccuparti per me, vai da lei. Hai ritrovato tua sorella, sorridi! So che hai sempre vegliato sui tuoi amanti fino al momento della loro morte ma non è necessario nel mio caso. Vai da loro, vedi? Ti aspettano.”
La ragazza non rispose, ma strinse nella sua mano quella di Morìa.
“Finiamo così, proprio come abbiamo iniziato. Uno sguardo ed una stretta di mano.” le disse.
“L'inizio origina sempre dalla sua fine.” queste furono le sue ultime parole. La Pazzia abbassò per l'ultima volta le palpebre su quegli occhi che tanto l'avevano amata, e su quel viso impegnato in un sonno di morte spuntava un debole sorriso. La Pazzia venne poi verso di noi e potei vedere delle lacrime caderle giù dagli occhi, ma prima di varcare la soglia si voltò un'ultima volta verso la finestra. Un arcobaleno troneggiava in un cielo senza pioggia.

  
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