DEATHLY ECHOES
I cinghiali alati sono ancora al solito posto, in
cima ai pilastri che sorreggono i grandi cancelli in
ferro battuto, e sullo sfondo le mille torri di Hogwarts si stagliano scure
contro il cielo grigio di quest’umido mattino d’inverno. La neve non è ancora
arrivata, nonostante l’aria ne porti l’odore.
Chiudo gli occhi e respiro profondamente,
tentando di sentirmi a casa, ma non è facile riuscirci. Li riapro e osservo la
sagoma scura del Castello, le finestre buie, l’aria immobile. Non credevo che
occorresse così tanto coraggio per andare avanti… o per tornare indietro.
Indietro…
Mentre varco i cancelli, muovendomi lentamente
lungo il sentiero, mi chiedo quanti anni siano passati
con esattezza. Non ne parlo spesso, e ormai sono abbastanza vecchia per dire, a chi me lo chiede: “E’ successo più di
cinquant’anni fa, quando ero ancora in Inghilterra…”. Forse non mi va di
ricordare con precisione quanti siano i mesi, i giorni
che mi separano da quei tempi… era tutto più semplice, allora, anche se c’era
la guerra. Anche se la morte incombeva su di noi come
un’ombra scura e minacciosa. Quando cresci, poi, ti accorgi che le
persone soffrono e muoiono anche se la guerra non c’è più, e che forse in quei
momenti di estrema incertezza le cose apparivano
decisamente più chiare.
Risalgo il sentiero appoggiandomi al bastone, e i
luoghi di Hogwarts si chiudono intorno a me, mi avvolgono nell’abbraccio di
sempre. Mi accorgo che, in tutti questi anni, ho sentito la mancanza di questa
sensazione… anche se, naturalmente, adesso non è esattamente come allora.
Questo nuovo abbraccio è un po’ più freddo, più silenzioso, e io so perché.
Tutto può sembrare uguale, a guardarlo dall’esterno, e io potrei
essere una vecchia – è proprio il caso di dirlo – abitante del Castello
che ha deciso di tornare nella scuola per vedere cos’è cambiato, se i
professori ci sono ancora, o se qualche vecchio alunno si è fatto strada nel
mondo accademico.
Ma non
è così.
Se avessi voluto – e soprattutto potuto –
fare questo tipo di viaggio nei ricordi, avrei portato con me i miei
bisnipotini, che hanno appena dieci anni e sono, anzi sarebbero stati,
ancora troppo piccoli per frequentare Hogwarts.
Invece sono
sola. I miei figli hanno prima cercato di dissuadermi da questa,
cito le loro parole, improvvisa follia senile. Poi hanno capito
che non avrei ceduto, e hanno provato a convincermi a lasciarmi accompagnare.
Ho rifiutato anche questa proposta, e li ho informati che sarei venuta qui comunque, con o senza il loro consenso. Sono i miei
figli e mi conoscono bene, sanno quanto sono testarda e quanto tutto questo sia
importante per me. Immaginavano che un giorno o l’altro avrei
intrapreso questo strano viaggio, perché fin da quando erano piccoli hanno
sentito parlare di un Castello incantato arroccato sul cocuzzolo di una
montagna, a strapiombo su un lago abitato da una piovra gigante e da ogni
genere di creature fatate. Non ho mai raccontato loro la verità, e neanche a
mio marito, che poco più di un anno fa ci ha lasciati
per sempre.
Perché non
ho parlato?
Il fatto è che non avrebbero
capito… nessuno di loro. Non appartengono al mondo magico, non
sospettano nemmeno che la magia esista, né tantomeno
che io sia una strega. I miei figli – che io considero davvero come miei,
e Dio solo sa quanto li amo – non li ho partoriti col sudore della mia fronte:
sono stati adottati. Io e mio marito li abbiamo presi
con noi quando erano poco più che neonati, e di certo Paul non ha mai
sospettato che una parte di me – una piccola parte di me – fosse felice e
sollevata che non potessi avere figli miei. Quando me
ne sono andata dall’Inghilterra ero ancora così giovane, ma così provata dalla
vita, che il mio orgoglio per la stirpe dei maghi era finito sotto zero. Avrei
voluto essere una persona normale, una babbana qualunque, e il pensiero che i
miei eventuali figli dovessero passare un giorno quello che avevo patito io mi angosciava. E’ per questo che, quando ho conosciuto Paul, mi
ci è voluto molto tempo per convincermi che non
sarebbe stato giusto vivere da sola per il resto dell’esistenza. Era proprio
questo che volevo fare. L’amore mi aveva ferita più e più volte, ed ero
convinta che quelle ferite non avrebbero mai smesso di sanguinare. Invece hanno smesso, grazie a lui… ma le cicatrici sono
rimaste. Quando ho scoperto di non poter avere figli,
ho provato un sollievo indicibile perché da me non sarebbero nate altre
creature destinate a soffrire. La guerra non era ancora finita, e avrei avuto paura per loro.
I miei figli non avrebbero capito, se avessi
cercato di rivelare loro la verità. Nemmeno Paul ci sarebbe riuscito, per
quanto mi amasse con tutto se stesso. Certe volte mi sembra di aver costruito
la mia vita dopo Hogwarts su un cumulo di menzogne, e me ne pento, ma mi è chiaro che non avrei potuto fare altrimenti. Non sarei riuscita ad andare
avanti, se non mi fossi staccata dal mondo magico, e proprio per queste mie
omissioni non posso biasimare i miei familiari se non
riescono a capire quanto davvero sia importante per me questo posto.
Solo le persone che hanno fatto parte del mio
passato, quelle che hanno combattuto accanto a me, potrebbero condividere i
miei sentimenti in questo momento… ma non ci sono più.
Forse sono qui anche per cercare loro, è vero: i miei figli credono che fondamentalmente
sia venuta a trovare dei vecchi amici, ma è escluso che possano immaginare in
che modo conto di rivederli. A volte mi sembra di non saperlo con chiarezza
nemmeno io stessa, ma non ho mai scordato le tue parole… e ho continuato a
credere che in questo posto avrei trovato quello che cercavo.
Tornando qui.
Dopo tutto questo tempo.
Arranco su per la collina e finalmente compare,
alla mia sinistra, proprio al limitare della Foresta Proibita, la capanna di
Hagrid. Le finestre sono buie, l’erba nei dintorni è
alta e incolta. Cerco di affrettare il passo, per quanto la mia artrite me lo
permette, e arrivo davanti alla porta. Gli scalini di legno, su cui mi sono
seduta decine di volte, sono rotti e rovinati dal tempo, e la porta è
socchiusa. Il vento leggero la sposta piano, facendola ondeggiare e cigolare
debolmente sui cardini. Per un attimo ho la tentazione di spalancarla, ma mi
trattengo. Questo è uno dei posti che mi fa male, troppo male, rivedere, ma
immagino che, una volta presa la decisione di affrontare il proprio passato,
non si possa scartare la parte più difficile e tenere
solo quella più facile. Sempre che qualcosa di facile ci sia.
Il mio sguardo sale fino al tetto a punta, al
piccolo comignolo da cui usciva sempre un nastro di fumo che sembrava snodarsi
fino al cielo. Mi appoggio al bastone e mi chiedo vagamente se sono pronta a risentire la tua voce, a rivedere il tuo viso
che è rimasto sepolto così a lungo nel mio cuore, in quel posto segreto che è sempre stato
soltanto tuo.
Mi avvicino lentamente all’entrata e sosto sui
gradini, esitando. Forse non sono coraggiosa come sembro, ma davanti a certe
cose non è facile esserlo. Non so nemmeno se sono pronta a rivedere me stessa,
com’ero allora… E non è per i capelli che adesso sono bianchi e prima erano
biondi, per la guance rugose e pallide che una volta
erano lisce e rosee, per le gambe rinsecchite e tremanti che erano solide e
snelle, per le mani deboli e deformate dall’artrite che tanti anni fa erano
forti e così agili da acchiappare anche il Boccino più vivace. Quello che mi
preoccupa è rivedere il mio sguardo di un tempo. La luce che
avevo negli occhi quando li posavo su di te. Mi farà male più di ogni altra cosa, perché quella è una luce senza tempo, e
so che brillerebbe ancora, più grande e più splendente che mai, se potessi
averti qui di nuovo, in carne ed ossa, anche solo per un attimo.
Allungo un braccio e sfioro lo stipite di legno,
trattenendo il fiato. Non ho idea di come accadrà, ma non ho quasi il
tempo di chiedermelo… Tocco il legno freddo e scheggiato, e dalla mia mano si
sprigiona un calore che mi fa formicolare la pelle, mi fa tremare appena. Basta
solo un attimo, e lo sento: il calore del fuoco, il suo scoppiettare sommesso,
e la mia voce imbarazzata che risuona stranamente infantile, nel silenzio della
capanna.
“Dovrà sembrarti una prospettiva tremendamente
noiosa, quella di restare bloccato qui con me tutta la notte, vero…?”
La sento come se la me stessa di allora mi stesse
parlando all’orecchio, una specie di bisbiglio segreto. Ho ancora gli occhi
aperti e mi trattengo dal chiuderli, perché so che adesso sentirò la tua voce…
e mi sembra di ricordare esattamente ogni frase, ogni attimo di quella notte.
Sentirò la tua voce, e per il momento sarà abbastanza.
“In realtà, credo che d’ora in poi ringrazierò le bufere di neve… se non fossi rimasto bloccato
qui, a quest’ora sarei in Sala Comune a studiare insieme a Hermione… e
preferisco decisamente parlare con te. Cos’è quella faccia,
non mi credi? ”
Ho lo sguardo fisso su una
screpolatura nel legno, poco sopra il punto dopo ho
poggiato la mano. Avevo scordato tante cose, invece… me ne rendo conto solo
adesso. Mentre continuiamo a parlare sommessamente, e mentre assisto alla
nostra intimità che sta ancora muovendo i primi, incerti passi – era forse la
prima volta che parlavamo da soli, che parlavamo davvero, intendo, senza
fretta e senza nessuno scopo preciso – mi tornano in mente
molti piccoli particolari: il tuo tono calmo, rilassante, il tuo modo
dolce di pronunciare le parole. Rimango ad ascoltare, incapace di staccare la
mano dal legno della capanna, e rabbrividisco, mentre dal cielo cominciano a
cadere le prime gocce di pioggia.
Non ho avuto il coraggio di chiudere gli occhi,
perché ricordo benissimo com’eri quella sera: seduto davanti al camino, con i
capelli umidi e ancora sporchi di neve e di fango, la divisa della squadra di
Quidditch strappata in più punti. Eri caduto dalla scopa, insieme a Malfoy, e
vi eravate azzuffati sul terreno del Campo nel tentativo di strapparvi il
Boccino a vicenda. Madama Bumb era andata su tutte le furie, e la McGranitt vi
aveva messi tutti e due in punizione per il giorno
dopo. Eri talmente furioso che, dopo la partita, eri scappato dal Campo e io ti
avevo seguito. Avevamo discusso, avevo cercato di farti ragionare… e la
tormenta di neve ci aveva sorpresi che risalivamo
dalla strada per Hogsmeade. Il primo rifugio che avevamo trovato era stato la Capanna di Hagrid, che in quei giorni era a
Diagon Alley per dei rifornimenti. Avevamo parlato. Ore ed ore. Niente di più,
ma adesso capisco che non è vero: quella notte è successo quasi tutto, senza
che ce ne rendessimo conto.
Proseguo verso il ponte, su per la collina
ripida, salendo lentamente i gradini di pietra che qualche guardiacaccia
predecessore di Hagrid aveva costruito nel tentativo
di rendere più agevole la salita. Ricordo ancora quando c’era la neve, in
inverno, o il fango, e bisognava stare attenti quando scendevamo verso i prati,
diretti a Hogsmeade, cercando di parlare il meno possibile per evitare di distrarci e scivolare.
Allora non avevi il bastone a
sorreggerti, mi dico. Sei fortunata, vecchia mia… non hai proprio di che
lamentarti.
Sorrido a questo pensiero involontario: è il
genere di frase che avresti potuto dire tu.
Ho rialzato il cappuccio del mantello, per
proteggermi dalla pioggia che cade sempre più fitta. Con estremo sollievo,
salgo gli ultimi gradini e mi affretto a raggiungere l’ingresso del ponte di
legno: è coperto, e una volta al sicuro dall’acqua mi volto lentamente ad osservare i prati che
ho appena superato. Mi chiedo vagamente come farò a scendere, più tardi: se
continua a piovere in questo modo, la terra si inzupperà
presto e tutto si trasformerà in un enorme pantano fangoso. Ma
perché dovrei preoccuparmene adesso? Andare avanti è troppo importante. Mi
stringo nelle spalle e mi volto.
La pioggia batte incessante sul tetto di legno,
mentre avanzo lungo il ponte, esattamente al centro. Ho quasi paura di toccare
la balaustra, perché questo è un altro posto particolarmente pieno di ricordi
felici… e quel tipo di ricordo, col tempo, quando tutto finisce, si trasforma
in tristezza, in malinconia. Mi stupisco ancora al pensiero di quanto io sia stata immensamente, e spesso inconsapevolmente, felice
qui. La terribile ingiustizia dell’essere vecchi, è
vero, è essere costretti a ricordare la felicità della gioventù, ma riuscire a
comprendere la propria stupidità è molto più straziante. Non avevo mai capito
di essere stata così felice, in questo posto, prima di rivederlo oggi… e invece
avrei dovuto immaginarlo, perché questi luoghi, questa aria,
questo cielo sono così pieni di te che mi aspetto quasi di sentire, da un
momento all’altro, la tua mano che, come allora, si posa lieve sulla mia
spalla.
Mi fermo a metà del ponte, e mi avvicino al
parapetto. Guardo il lago, cercando di aguzzare lo sguardo per farlo vagare
lontano, come facevo da ragazza. Ma i miei occhi non
sono più quelli di allora, e tutto sembra più sfocato, come coperto da un velo
leggero.
O forse
è soltanto la nebbia.
Inspiro profondamente, e mi appoggio con entrambe
le mani al manico del bastone. La superficie del lago è increspata, dal vento e
dalla pioggia. Avrei voluto che ci fosse il sole, per vederlo riflesso
sull’acqua in mille scaglie dorate. Ricordo le volte in cui mi fermavo qui, a
guardare il panorama… poi chiudevo gli occhi e il vento mi accarezzava il viso,
fischiandomi nelle orecchie. Era proprio in questo punto che ti fermavi spesso
anche tu – lo so perché ti guardavo dalla finestra – e
ogni volta avrei voluto raggiungerti… solo che non trovavo il coraggio. Ed è
sempre qui che, quella sera al tramonto, mi hai baciata
per la prima volta.
Ancora prima di sfiorare il
legno della colonna alla mia sinistra, risento l’odore di neve nell’aria, il
freddo pungente che mi aveva gelato la punta del naso, e il legno duro dietro
la mia testa, prima che tu mi facessi scivolare la mano dietro la nuca, per
tenermi più stretta. Cerco di convincermi che va bene così,
che non è necessario andare più a fondo, che posso ancora continuare senza
sentire di nuovo la tua voce, ma è inutile. Non è la verità. Le mie dita si
tendono e si appoggiano alla colonna, e la tua voce arriva chiara, insieme al
mormorio incessante del vento fra le gole.
“Cosa aspettavi a dirmi
che giochi così bene a Quidditch?” hai un tono lievemente divertito.
“Di solito non mi faccio pubblicità da sola, lascio che siano gli altri a giudicare con i loro
occhi…” rispondo, con una risata. Mi ero quasi scordata che una volta ero
capace di ridere in quel modo.
“E hai anche una bella
divisa…”
“E’ la mia vecchia divisa di scuola…cos’è, ti
stupisci che mi vada ancora bene?” dico, sospettosa.
“No…! Non è che siano
passati vent’anni da allora…” mi fai notare, divertito.
“E’ vero… però qualcosa è cambiato di sicuro.”
“E sarebbe…?”
“Non sono più in forma come una volta…” dico, con
un sospiro rassegnato. “Sono esausta.”
Ricordo che mi sentivo
vecchia, anche se avevo soltanto ventitré anni. Mi
sono chiesta molte volte se quella sensazione fosse dovuta
al fatto che tu ne avevi soltanto diciotto, ma non credo sia questo il punto:
mi sentivo così perché avevo alle spalle delle esperienze che la maggior parte
delle persone non fanno in una vita intera. Come te, del resto.
“Stai scherzando…” ti stupisci. “Sei stata
fantastica.”
“Sono un po’ arrugginita…”
“Sei molto più brava di
tutti i giocatori di questa scuola…” assicuri, convinto. “Smettila di
sottovalutarti sempre…”
Le nostre voci si fanno più vicine, e ricordo che
è proprio in questo punto che mi sono fermata,
per guardare questo splendido lago annidato fra le montagne. Ero qui da diversi
mesi, e sapevo che presto me ne sarei dovuta andare, ma capivo che il mio cuore
stava già mettendo le radici.
“Potrei restare a guardare questa meraviglia per
ore…” dici, in un sussurro. Non posso ancora vederti, ma ricordo che eri fermo
accanto a me.
“Sto cominciando ad amare questo posto…”
rispondo. Non ti guardavo, me ne ricordo
bene… e mi chiedo spesso perché ho sprecato così tanto tempo a posare gli occhi
su qualcos’altro, a osservarti di nascosto o a
sfuggire il tuo sguardo. Forse non credevo ancora al fatto che niente dura per
sempre, anche se avrei dovuto saperlo meglio di
chiunque altro… ma chi vuole essere triste, o saggio, a vent’anni? Chi ci
riesce…? Adesso penso che fossi così restia a
guardarti perché temevo che i tuoi occhi avrebbero potuto leggermi dentro
troppo facilmente, in certi momenti. Non capivo che non ci sarebbe stato niente
di male, per quanto la situazione potesse apparire complicata.
Vorrei averti guardato di più, e in modo diverso…
non ho tenuto il conto di tutte le volte che ho
distolto lo sguardo dal tuo, durante quell’anno di scuola, ma sono certamente
meno numerose di quelle in cui ho rimpianto di averlo fatto.
“E’ la mia casa…” dici, e la sincerità è palese
nella tua voce. “L’unica che abbia mai avuto.”
Io resto in silenzio. Ricordo che mi ero voltata verso di te, e capisco che devo farlo, adesso.
Devo chiudere gli occhi, perché voglio disperatamente rivedere i tuoi.
Mi aggrappo forte alla colonna e al parapetto del
ponte. Il bastone l’ho appoggiato lì accanto, per il momento
non mi serve. Respiro profondamente, e chiudo gli occhi. Non so cosa
succederà, e il cuore mi batte troppo veloce, ma non posso più aspettare. Ho
già aspettato abbastanza.
Non è una cosa così immediata. Prima vedo solo il
nero del retro delle mie palpebre, e continuo a sentire la voce del vento che
soffiava più di mezzo secolo fa, fra queste stesse
montagne. Poi qualcosa comincia ad accadere al buio: si accendono mille puntini
luminosi, che si espandono e sembrano pulsare lentamente, allo stesso ritmo del
mio cuore. Si allargano, si congiungono… formano un’immagine talmente nitida
che mi fa male, dentro. Sto ancora guardando il lago, e vedo il sole che sta per
sparire dietro alle montagne: la neve si tingerà delicatamente di rosa, fra
qualche istante, e il lago ghiacciato scintillerà di riflessi. Tu non parli più
e allora mi volto a destra, per guardarti… e devo aggrapparmi più forte alla
colonna: potrei svenire per l’emozione, adesso, e in questo deserto nessuno
verrebbe a soccorrermi.
Sei lì, vicino a me, e sorridi con quell’aria
divertita che mi faceva impazzire, e i capelli arruffati dal vento. Quanto vorrei poterti toccare… poterti parlare, per dirti altre cose,
diverse da quelle che ho detto allora. Il non esserne in grado mi rammenta,
dolorosamente, che questo non è che un ricordo,
rimasto sepolto dentro di me per più di cinquant’anni.
“Dove pensi che andrai a
stare, l’anno prossimo?” ti chiedo, e distolgo di nuovo lo sguardo. Vorrei
urlare per la frustrazione: No, ti prego, ti prego! Guardalo
ancora… guarda lui, invece delle montagne e del cielo…! Il tramonto sarà ancora lo stesso fra dieci,
cento, mille anni, ma lui non ci sarà per sempre! E il
tempo è così poco… così poco…
“Non lo so…” dici, e anche se non posso vedere la
tua espressione riesco facilmente a intuirla: triste,
preoccupata. “Non mi va di pensarci. Sono troppe le cose che sarò
costretto a lasciare.” Fai una pausa, e aggiungi: “Cose preziose. Persone che
amo.”
Continuo a guardare il lago, e annuisco.
“Ti capisco” mormoro. Neanche a me andava di
pensare al futuro, ma non era facile riuscire a fare come se niente fosse. Dopo
un attimo di silenzio osservo: “Penso che mi mancherai, l’anno prossimo.”
Nel mio tono avverto un’amarezza profonda di cui,
in quel momento, tu non potevi ancora capire il motivo: l’anno successivo me ne
sarei andata anch’io, ma non ne avevi idea e non mi
era permesso parlartene.
“Già…” sospiri. Questo è uno dei momenti in cui
vorrei averti guardato in faccia. “Tu mi mancherai senz’altro. Più di qualsiasi
altra cosa.”
Le tue parole mi avevano colpita,
e spaventata. Neanche adesso riesco a capire se fossi
più felice o più terrorizzata, nel sentirtele pronunciare.
“Avrai la tua nuova vita” dico, e la voce mi
trema un po’. “Io resterò qui, a fare le stesse cose di sempre.” Non sono mai stata brava a mentire, e mi sentivo terribilmente in imbarazzo. Niente di quello che ti
stavo dicendo era vero: il mio futuro, se possibile, era ancora più incerto e
nebuloso del tuo. “Sei tu il più fortunato, fra noi due.”
Aggiungo, e lo pensavo veramente. Neanche io sapevo ancora tutto, ricordo… neanch’io potevo capire.
“Che ne sai?” ridi,
nonostante tutto, e a posteriori mi chiedo come tu abbia fatto a non far
trapelare niente del tuo segreto per così tanto tempo. Eri molto più forte di
me, anche se non te ne rendevi conto. “Magari l’anno prossimo arriverà qualcuno
migliore di me, e scoprirai che non ti mancherò affatto.”
Finalmente ti guardo di nuovo, e sorrido. Mi stai
osservando con un misto di curiosità e di divertimento dipinto sul viso, ma non
c’è solo quello… e improvvisamente
ricordo alla perfezione perché guardarti negli occhi mi imbarazzava
tanto. Adesso che so già tutto, che sono distante anni
luce da quel momento, capisco che il tuo sguardo limpido e sincero mi aveva già
detto da tempo tutto quello che provavi per me.
“Migliore di te?” dico, inarcando un
sopracciglio. “Impossibile!”
Scoppi a ridere, e mi vengono i brividi. Sei così
bello, così reale, che mi si forma di nuovo quell’odioso groppo in gola
e mi sembra di non riuscire a respirare. Lo stomaco è contratto in una morsa
dolorosa. Il vento ti spinge una ciocca di capelli sulla fronte, e vorrei poterla rimettere a posto, sfiorare i tuoi capelli,
la tua pelle. Avrei voluto farlo allora, ma mille cose mi trattenevano.
“Perché continui a
prendermi in giro?” chiedi. “E’ per questo che ti mancherò: non troverai mai un
altro disposto a farsi trattare così.”
Rido. Di nuovo quel suono
antico, di cui avevo perso la memoria. E' come trovare una perla nel
fango.
“Non ti dispiace così tanto che io mi prenda
gioco di te…” dico, sollevando le sopracciglia. Avevo intenzione di provocarti,
pensavo ancora che fosse il massimo della confidenza che avrei mai potuto
permettermi con te.
“Hai ragione…” ammetti, e il tuo sguardo non
sembra avere intenzione di abbandonare il mio viso nemmeno per un istante. “In
effetti, mi piace molto.”
Sento l’orologio del Castello che batte le cinque
del pomeriggio, e per tutto il tempo rimango a
fissarti negli occhi. Adesso mi rendo conto che qualcosa doveva già essere
scattato, nel silenzio di quei lunghi istanti.
La tua mano sale ad accarezzarmi i capelli, con
naturalezza. Mi ero sentita molto in imbarazzo: ricordo il trasalimento
interiore e lo sforzo sovrumano per riuscire a nasconderlo, il cuore che aveva
spiccato una corsa folle. Tutto quello che sento adesso, invece, è gratitudine
nei tuoi confronti, per aver avuto il coraggio di compiere quel gesto in
apparenza così semplice, ma di così vitale importanza. E’ stata la tua
spontaneità ad abbattere le mie barriere, a vincere le mie paure. In virtù
della mia posizione di assistente di DADA e di Cura
Delle Creature Magiche, molte persone al posto si sarebbero lasciate intimorire…
ma non tu. Tu eri spericolato, delle regole non ti importava,
e non ti ho mai ringraziato abbastanza per questo.
“Sarà meglio andare…” dico, sottovoce.
Mi chino a raccogliere la scopa, appoggiata
contro il parapetto, e il mantello mi scivola dalle spalle. Lo prendi al volo,
e dopo un attimo di incertezza, invece di porgermelo
me lo passi intorno alle spalle, mormorando:
“Aspetta, faccio io…”
Ricordo lo stupore mentre
guardavo le tue dita muoversi agili: ero come paralizzata. Ti guardo
legare i lacci sotto la mia gola, e noto la tua aria tranquilla: adesso mi
domando se ti sentissi davvero così, o se fosse solo una facciata.
“Ecco fatto…” dici alla fine, sorridendo. Sei
talmente vicino che posso sentire il calore del tuo respiro. Mi guardi in modo
strano, e indugi con le mani su di me. Non ho bisogno
di sforzarmi troppo per farmi tornare in mente il desiderio che avevo di
stringerti, di baciarti… insieme alla paura che in tutto questo potrebbe
esserci qualcosa di sbagliato. Non volevo fare una scelta di cui poi ci saremmo
potuti pentire entrambi, e solo adesso che sono vecchia capisco
quanto ero sciocca. Credo di essermi avvicinata col viso al tuo, ma è stato un
movimento involontario. Avevo troppa paura che tu fraintendessi, o che la prendessi male. Dovevo essere davvero cieca, in quel
periodo: adesso ti guardo ed è tutto scritto lì, chiaro e tondo, sul tuo
dolcissimo viso.
Abbasso lo sguardo sulla scopa. Avevo intenzione
di dire qualche altra sciocchezza, volevo fuggire, fuggire da te… ma le tue
dita gentili mi accarezzano la guancia e, dopo un attimo di esitazione,
scendono lungo il mio collo. Chiudo gli occhi, perché è piacevole, e subito
dopo sento il tocco delle tue labbra, leggere, sulla punta del mio naso.
Ricordo che mi mancò quasi il
respiro. Indietreggio e mi ritrovo con la schiena e la
nuca poggiate contro il legno della colonna, lascio andare la scopa che rotola
per terra. Le tue labbra percorrono ogni centimetro del mio viso, e non saprei ancora spiegare cos’ho provato in quei momenti. Era
come la quiete prima della tempesta. Come un sogno.
Mi sfiori le labbra, e io mi ritraggo
impercettibilmente. Avevo paura e mi sentivo un’idiota: non eri tu a
spaventarmi, ma la situazione. Silente non avrebbe approvato. Nessuno avrebbe approvato.
Apro gli occhi e ti guardo. Nei tuoi occhi verdi
adesso scorgo una tacita domanda che allora non colsi:
stavi chiedendo il permesso di agire. Devo avertelo dato senza neanche
rendermene conto, perché la tua espressione si addolcisce e mi
infili una mano dietro la nuca, sollevandomi la testa, prima di baciarmi
sulle labbra.
Le muovi piano contro le mie, e ricordo che
faticavo a respirare: è così anche adesso, e non so se alla mia età mi faccia
bene rivivere certe sensazioni. Ma una cosa è certa: in
questo momento, niente potrebbe indurmi a riaprire gli occhi e a staccare le
mani dal legno del ponte.
Sono io la prima a schiudere le labbra e a
cercarti. Mi lascio stringere, e baciare più profondamente. Risento il sapore
della tua bocca, l’odore della tua pelle, la morbidezza delle tue labbra. La dolcezza della tua lingua che accarezza la mia. Le tue
ciglia che mi solleticano le guance, le tue dita fra i capelli.
Il vento che ci accarezza entrambi.
Voglio disperatamente restare su questo vecchio
ponte per tutto il resto della mia vita, ma dopo un po’ sono costretta a
strapparmi via da quel ricordo così intenso. Tolgo le mani dal legno, e
gradualmente tutto svanisce.
Riapro gli occhi e noto che adesso la pioggia
cade più fitta, più violenta. Raccolgo il bastone e mi avvio lungo il ponte,
stringendomi nel mantello. Mentre procedo, non riesco
a resistere alla tentazione di far scorrere la punta di un dito sul legno
bagnato della balaustra: è un contatto discontinuo, leggerissimo, e le nostre
voci mi arrivano indistinte, lontane, eteree.
“Non dovrei farlo… non dovrei fare niente di
tutto questo…” è la mia: sommessa, preoccupata, affaticata.
“Non stai facendo nulla di grave, infatti…” dici,
divertito… ma mi è impossibile non cogliere la nota di desiderio nella tua
voce.
Chiudo gli occhi, ma non mi fermo, e anche le
immagini arrivano a brani, discontinue, come un film a
cui manchino alcuni fotogrammi. Il tuo viso appare e scompare, inghiottito a
tratti dal buio, e il vento continua a ululare intorno
a me, intorno a noi.
“Sei la ragazza più bella che abbia mai visto…”
sussurri, e il tuo sguardo mi fa rabbrividire ancora.
“Te l’ho mai detto…?”
“No…” la mia voce si alza e si abbassa, è
disturbata. “Ma grazie per avermi chiamata ragazza…”
Riapro gli occhi e guardo il cielo. Temo che
arriverà una tempesta, prima di sera.
“Come avrei dovuto chiamarti…?” ti stupisci.
“Non lo so… mi hai fatta sentire di nuovo molto
giovane.”
Adesso sorrido di questa sciocchezza, come ne hai
sorriso tu allora.
“Tu sei giovane…” dici. “Non c’è bisogno
che qualcuno ti ci faccia sentire.”
Faccio una faccia poco convinta, e aggiungi:
“Quanti anni hai, sentiamo…?”
“Di certo troppi per… per fare quello che stiamo
facendo…” rispondo, piano. Ricordo che ero ancora fra le tue
braccia, col viso leggermente voltato di lato… non per proteggermi da te,
ovviamente. Era te che cercavo di tenere alla larga dai guai.
“Quanti…?” insisti. “Ventidue? Ventitré?”
“Ventitré.” Annuisco. “Il prossimo settembre.”
“Devi essere impazzita, allora…” commenti,
divertito. “Forse il fatto di insegnare in una scuola di ragazzini ti ha
confuso un po’ le idee… perché ti assicuro che la tua età, in tutti questi
mesi, è stato l’ultimo dei miei pensieri…”
“E gli altri, quelli più
importanti…” inarco un sopracciglio. “Quali erano?”
Sono arrivata alla fine del ponte. Vorrei
staccare la mano dal parapetto e non indugiare oltre, ma ricordo bene quello
che stai per dire e il bisogno di sentirlo ancora è
più forte di qualsiasi logica o ragionamento.
“Non ho smesso un attimo di pensare a te dalla
prima volta che ti ho vista…” mormori.
Chiudo gli occhi e il tuo viso mi appare davanti.
Il sole è ormai tramontato, e la luce soffusa del crepuscolo fa brillare i tuoi
occhi in un modo nuovo. Mi guardi e sorridi, un po’ imbarazzato, ma deciso a
non lasciare che la situazione ti intimidisca troppo. Ricordo che ero frastornata. Incredula. Felice.
“Io non…” provo a dire, ma la voce si rifiuta di
uscire. Mi schiarisco la gola, e riprovo. “Noi non possiamo… qualcuno se ne accorgerà, prima o poi… Hermione sospetta già qualcosa…”
“Non indovinerebbe mai che si tratta di te…”
dici, avvicinandoti di più. Visto che non mi volto ancora, mi prendi il mento
fra le dita e mi giri dolcemente il viso verso il tuo.
“Sa che sono pazzo, è vero, ma non credo che la sua immaginazione arrivi così
in là…”
“Evidentemente non sa quanto sei pazzo…”
osservo, con un sorriso malizioso.
“Non sa che sono pazzo di te…” sussurri, prima di
tornare a impossessarti delle mie labbra.
Stacco le dita dal legno e la tua voce svanisce,
si perde nel rumore della pioggia che ticchetta sulla tettoia, nell’ululato del
vento.
Non posso più indugiare qui, altrimenti non
riuscirò a trovare la forza di andare avanti. Su questo ponte sono successe fin
troppe cose, fra noi due, e sono certa che non potrei sopportarle tutte insieme, una dopo l’altra. In lontananza, sulla sponda
più distante del lago, la nebbia sta cominciando a salire, e il cielo si fa più
scuro. Sì, mi dico, prima di sera arriverà una tempesta degna di questo nome… e
non so ancora come farò a tornare indietro. Nessuno mi
verrà a cercare, ad ogni modo: i miei figli non sanno dove sia questo posto con
esattezza, ed è strano pensare che, quand’anche riuscissero a raggiungerlo, non
potrebbero vederlo. Sostando di fronte ai cancelli d’entrata, vedrebbero solo
un cumulo di macerie, un castello diroccato.
Rovine. Vedrebbero proprio questo. Nonostante qui non viva più nessuno da anni, gli incantesimi
respingi-babbani sono ancora attivi. C’è
ancora magia nell’aria… la stessa che faceva impazzire i computer di bordo
degli aerei che ci sfrecciavano sopra, o che impediva alle rice-trasmittenti di
funzionare. E’ come una corrente, che percorre ogni pietra, ogni tavola, ogni
pianta… e non sono solo i ricordi.
L’antica magia non se ne è mai andata.
Anche se ormai Hogwarts è un luogo di morti, di echi, di fantasmi.