“Galeotto fu 'l libro
e chi lo scrisse:
quel giorno più non
vi leggemmo avante."
Dante
Alighieri, Divina Commedia (inferno, canto V).
3. Ad alta voce
“Vai
al lavoro?”
Mi
volto verso Sherlock, i suoi capelli umidi dalla doccia e uno dei miei maglioni
a cascargli dalle spalle ossute, e sorrido.
“No,
sono in ferie. Torna a letto.” gli accarezzo le scapole mentre lo guido verso
la mia camera, la sua non è ancora stata aperta, tutto è identico al giorno
della caduta e ad entrarci sembra di visitare una cripta.
“Il
tuo concetto di vacanza è uno schifo, lo sai vero?” dice, mentre scala le
lenzuola e rabbrividisce nel piumone.
“Le
mie vacanze sono a tuo beneficio, mio caro. Non sai neanche cuocere un uovo, se
ti lasciassi solo moriresti di fame o avresti la brillante idea di uscire.” mi
stendo affianco a lui, che spinge i piedi freddi contro le mie gambe.
“Quando
smetterò di voler dormire?” chiede, passandosi una mano sugli occhi, troppo
stanco per suonare scocciato.
“Quando
il tuo corpo deciderà che stai meglio. Hai tutta la vita per correre in giro
per Londra, adesso zitto e dormi.” gli dico, lasciando che usi il mio braccio
come cuscino.
“E’
noioso.” sussurra, la voce già impastata di sonno.
Sorrido,
il mio maglione gli sta corto di maniche, lo scollo largo scivola sulle
clavicole sporgenti e immagino lo faccia sembrare il bambino dinoccolato che
doveva essere ai tempi delle medie. Quando starà meglio gli compreremo un
maglione che non sia bordeaux, questo colore contro la sua pelle lo fa sembrare
in fin di vita.
Guardarlo
dormire è l’unica cosa che voglio fare da quando dormire è l’unica cosa che
Sherlock riesce a fare, restare immobili è come accettare che la realtà sia
solo una debole illusione fuori da queste finestre appannate.
Non
sembra neanche primavera, questi nove gradi sono come uno strascico di inverno,
una scusa per rimanere sotto le coperte e cercare di scaldarsi le ossa. Mettere
a bollire il the, preparare una zuppa, coprirlo con una coperta: le cure che
daresti ad un cucciolo trovato a gelare sotto la neve. Se potesse leggermi
nella mente mi guadagnerei un’occhiata sprezzante, poco ma sicuro.
Fa
caldo sotto le coperte, gli sfilo il maglione reggendogli la testa come faccio
con i bambini in ambulatorio, i suoi ricci lunghi e pesanti cadono in buffi
boccoli umidi e profumati di balsamo fra le mie dita, se non fosse per gli
spigoli delle sue ossa sporgenti sembrerebbe quasi troppo giovane.
Mi
culla il pensiero della sua sicurezza, il mondo non sa del suo ritorno, nessuno
è rimasto a volerlo uccidere, l’unica persona che potrebbe fargli del male è se
stesso. Ma anche sorprenderlo in piedi davanti ad un cassetto aperto, di notte,
in cucina, con un coltello fra le dita, non fa più paura.
Dopo
una settimana devi fare l’abitudine alla sua depressione, al suo rifiuto di
inghiottire il cibo che gli prepari, consolandoti al pensiero che prima o poi
sarà lontano dalla cocaina e dal fumo della sua sigaretta. E magari smetterai
anche di ascoltare concerti di strazianti archi dissonanti mentre siedi in
poltrona, guardandolo suonare seduto sul divano troppo stanco per alzarsi in
piedi.
Ieri
ho versato tre flaconi di antidepressivi nel lavandino. Aspettando di veder
scomparire ogni singola compressa mi sono dovuto trattenere per non
raccoglierle prima di vederle inghiottite dall’ombra del tubo di scarico,
decidendomi far scorrere l’acqua guidato dalla terribile paura che lui
riuscisse a trovarle e che alla fine potesse pensare di inghiottirle. In ogni
caso non mi servono più, non ho tempo di fissare il vuoto per ore, mi sentirei
stupido a piangere la morte di qualcuno che dorme nel mio letto e non voglio
che lui veda quanto sono stato debole in questi ultimi mesi.
Anche
se già lo sa delle mie notti insonni, della notte in cui mi sono accucciato
sotto le sue coperte sentendomi solo al mondo, probabilmente sa anche del mio
amore disperato, mantenere un barlume di tranquillità è quello che gli serve
per ricostruire l’equilibrio che sembra aver dimenticato dopo la caduta.
E’
un mistero come riesca a sopportare la mia apprensione e la mia ipersensibilità
nei suoi confronti. Come può volermi ancora al suo fianco, lui con la sua mente
brillante e tutto il suo fascino intoccabile? Perché desiderare la banalità di
capelli slavati e occhi stanchi, di un uomo che non sarà mai più parte della
squadra di rugby, che non tornerà ad essere un fuciliere scelto e un soldato
dell’esercito britannico, di un uomo che è stato il primo del suo corso di
medicina e il più coraggioso della sua divisione ma che ora non è niente se non
un dottore qualsiasi? Nessuno mi troverebbe in mezzo alla folla Sherlock, forse
solo tu.
E
tu chi eri all’università? Forse il ragazzo che mangiava da solo in un angolo
del cortile, ma tu non hai mai mangiato granché. Probabilmente sei sempre stato
un ragazzino abbandonato, anch’io lo sono stato dopo l’esercito.
Adesso
che è tornato in vita il tempo passa diversamente, finire la giornata diventa
immensamente facile, aspettare che si svegli e leggere nell’attesa non è mai
stato così naturale.
La
giornata sfuma lentamente quando chiude gli occhi mentre gli parlo, quando
mentre cerca di rispondermi si arrende al sonno, nel momento in cui prima di
spegnere la lampada sul comodino mi fermo a guardarlo riposare per un po’. Mi
accorgo che è così semplice essere felici.
Aspettando
la notte per poterlo abbracciare tutte le ore luminose del giorno sembrano solo
il preludio allo spettacolo del suo corpo addormentato, quando debole e stanco
si accartoccia contro il mio fianco in un groviglio di tendini nervosi e ossa
puntute.
E
poi, quando il sole rompe la tranquillità dell’oscurità notturna, quando i
rumori di Londra spezzano la barriera ovattata del nostro silenzio costruito
con cura, svegliarsi contro il suo corpo tiepido e nel profumo del suo shampoo
è come scoprire di nuovo tutti i sensi, come rendersi conto improvvisamente
dell’universo.
La
giornata inizia e si spende interamente nell’attesa del suo abbraccio: l’amore
non è che un incessante uscire di casa aspettando di poterci tornare, fare la
fila in posta immaginando di poterlo baciare, guardare il mondo con gli occhi
di chi vorrebbe sistemarlo perché lui ci si possa sentire a suo agio e così che
nessuno possa mai volergli fare del male.
Nella
protezione della mia camera si è costruito un nido di libri attorno al letto,
sono sul davanzale della finestra, sul suo comodino, impilati per terra.
L’Antologia di Spoon River* è aperta ai piedi del materasso, il dorso della
copertina morbido di pieghe per il troppo uso. Ho consumato le pagine in sua
assenza e ora che ho deciso di rileggerlo mi ritrovo a farlo ad alta voce
davanti ai suoi occhi tranquilli ogni sera.
Dubito
ricordi una sola parola di quello che gli leggo, deve tenere pulita la sua
mente brillante, ma ascolta ogni lettera lasciandosela scivolare addosso con
tacito abbandono. E’ così che si addormenta spesso, sdraiato sul fianco, la mia
voce che costruisce la sua calma all’ombra della lampadina fioca.
Raccolgo
il libro incastrato fra il ferro della rete e il materasso, scivolato appena
oltre il bordo delle coperte, forse spinto dai suoi piedi. Ho perso il segno,
pazienza. Appoggio l’edizione economica spiegazzata sul mio comodino: è l’unico
libro dalla mia parte del letto.
“Hai
perso il segnalibro?” chiede Sherlock, passandosi una mano sugli occhi.
“No,
c’era una piega sul bordo ma penso si sia semplicemente appiattita fra le
pagine. Non che importi, l’avrò letto mille volte.” scrollo le spalle,
sorridendogli. Mi preparo a sdraiarmi di nuovo accanto a lui, nelle coperte che
profumano ancora di bucato fresco e sole.
“Era
pagina centosessantatre.” mi dice con noncuranza, sdraiandosi sul fianco.
“Te
lo ricordi.” sussurro, qualcosa sul fondo dello stomaco si agita lentamente.
“
‘C’è qualcosa nella morte che è come
l’amore’, dice così ma non so come continua John.” apre gli occhi lucidi di
sonno, come a scusarsi. Mi prende la mano, le dita fra le mie in una stretta
gentile, e sento un groppo in gola. Se la ricorda, perché?
Prendo
il libro, lo apro alla pagina giusta, spiano la grinza sulla pagina con
metodica precisione.
Comincio
a leggere ma mi fermo a metà del verso, la voce rotta e la sua mano più tiepida
nella mia. Sherlock mi guarda e sorride, prende il libro dalle mie mani con
lentezza e ricomincia da capo, la sua voce ferma e solida, le vibrazioni più profonde
nella sua gola e una serena compostezza nello sguardo.
“‘C’è qualcosa nella morte
che è come l’amore.
Se per qualcuno con cui avete
conosciuto la passione,
e il fuoco dell’amore giovane,
anche voi, dopo anni di vita
insieme, sentite estinguersi la fiamma,
e così svanite insieme,
piano piano, lievemente,
delicatamente,
l’uno nelle braccia dell’altro per
così dire,
uscendo dalla stanza consueta-
quello è un potere di unisono fra le
anime
che somiglia all’amore!’” l’ombra
della sua voce resta nella stanza per qualche secondo. Le sue mani sono ferme e
pallide nella luce calda della stanza, riposano sul libro come a volerlo
proteggere. I suoi occhi sono umidi, il riflesso dell’acqua sull’iride è
spettacolare e il suo sguardo è tiepido.
“Grazie
Sherlock.” gli dico, la voce poco più che un respiro. Accarezzo il suo braccio
caldo fino alle dita fredde della mano, guardando come la sua bocca si schiude
lentamente e come inclina la testa impercettibilmente.
Riposa
la fronte contro la mia spalla, arrampicandosi come un ragno fra le mie gambe,
circondandomi il petto con le braccia. Gli bacio la guancia tiepida, gli
accarezzo la schiena e sorrido.
“Non
era la pagina giusta, la centosessantatre l’abbiamo passata due giorni fa. Ma è
la tua preferita, l’hai detto mentre me la leggevi. Non ti ricordi mai niente.”
sussurra, le labbra contro il mio orecchio. Un brivido mi scuote la schiena
mentre sento gli occhi inumidirsi.
“L’hai
letta per me?” chiedo, le braccia più strette attorno alle sue spalle sottili.
“Mi
sono buttato da un palazzo per salvarti da un cecchino, ho braccato i peggiori
assassini di tutta l’Inghilterra per tornare al tuo fianco ma, mentre mi
nascondevo nella villa di Mycroft fuori città, ho realizzato che non avevo mai
letto per te. Leggere mi piace e tu trovi rilassante ascoltarmi parlare,
potrebbe essere un piacevole accomodamento. Mi sembra così stupido non fare le
cose che vorrei fare. Tu ti prendi cura di me John, nessuno ha mai desiderato
farlo prima.” sussurra, mentre mi guarda da sotto le sue ciglia scure, la mano
a scostarmi i ciuffi biondi dalla fronte.
“Devo
farlo. Non posso fare altrimenti.” rispondo, la mia voce sembra disperata.
“Tu
mi ami, vero?” sorride, gli occhi incredibilmente limpidi.
Annuisco,
mi asciugo gli occhi umidi col dorso della mano. Lui mi prende i polsi,
accarezzando i tendini con i pollici, il suo sguardo lucido e trionfante
immobile nel mio, e poi si sporge a chiudere la distanza fra i nostri nasi.
Chiude la bocca sulla mia per un secondo infinito, il sogno della morbidezza
delle sue labbra sostituito dalla percezione reale del suo bacio. Continua ad
accarezzarmi i polsi, strofina il naso contro il mio.
Quando
mi respira lievemente sulle labbra il mondo è ancora un vuoto buio sotto le mie
palpebre, riesco a sentire l’elettricità statica dei suoi capelli contro il mio
viso. Registro lentamente la lenta carezza della sua guancia contro la trama
ruvida della mia barba sfatta, lo strofinare delle sue ciglia sul mio zigomo e
il battito concitato del suo cuore contro la tempia.
E’
forse un premio per aver aspettato tre anni che tornasse, tre anni di preghiere
e vuoto, di oscurità e dolore? Perché io ora vedo solo felicità e luce,
nonostante la lampadina sia solo un debole bagliore tremolante in un angolo della
stanza, nonostante il mio cuore sia ancora pericolosamente spezzato.
Apro
gli occhi lentamente, le sue dita sul mio braccio come a rassicurarmi. I suoi
occhi, incredibili perfino nella penombra color seppia di questa stanza scura,
sono due specchi di bruciante comprensione. Sembra quasi che sappia ricambiare
tutto l’amore del mondo, io spero che ci riesca.
“Devi
raccontarmi dove sei stato.” gli sussurro, le dita calde contro la sua pelle
fresca .
“Ci
sarà tempo per raccontare ogni cosa. Solo non adesso.” sorride, accarezzandomi
le dita con le sue mani scheletriche.
“E
chi lo decide?” chiedo, irrigidendo le spalle e lasciando cadere le sue dita.
“Il
mio buonsenso. Sono stanco, John. Domattina ti racconterò ogni cosa ma ora
dormiamo, va bene?” chiede, appoggiando la fronte contro il tessuto liso della
mia maglietta, la cicatrice appena sotto le sue labbra.
“Mi
dispiace. Non volevo forzarti a dire niente ma vorrei che tu mi dicessi ogni
cosa che pensi, non posso leggerti con la stessa facilità con cui tu riesci a
leggere me. Sono in svantaggio, Sherlock. Tu puoi fingere con me ma io non
posso sperare di riuscirci.” gli bacio la tempia, i suoi ricci sono di una
morbidezza disarmante.
“Non
ti terrò più all’oscuro. Non scomparirò, lo giuro.” sospira, stanco e pesante
contro il mio petto.
Mi
si stanno addormentando le gambe, il suo peso le schiaccia sul materasso
abbastanza forte da bloccare la circolazione, tento di spostarmi ma lui si
arriccia più stretto contro di me.
“Non
me ne sto andando, voglio solo sdraiarmi.” ridacchio, accarezzandolo mentre
lascia che mi appoggi con la schiena ai cuscini per poi sdraiarsi lungo il mio
corpo.
“Stasera
non leggi?” chiede, il tono noncurante, mentre sbircia verso il mio viso.
“Vuoi
che legga?” chiedo, sporgendomi a prendere il libro e aprendolo a caso,
incurante del segno, focalizzando gli occhi sulla pagina nella luce fioca della
lampada.
Sento
le dita di Sherlock sfiorarmi la guancia e il suo viso sporgersi verso il mio,
l’espressione concentrata di chi cerca di risolvere un complesso enigma.
“Il
tuo occhio destro è più debole del sinistro: la pupilla si contrae
diversamente, i tuoi occhi sono incredibilmente asimmetrici, il destro è sempre
più stanco alla fine della giornata. Anche il colore è leggermente diverso, è
difficile notarlo mentre sei in penombra ma è più semplice vedere la sfumatura
di verde sul fondo del sinistro quando siamo al sole. L’asimmetria è ciò che ci
rende imperfetti John, ma è anche l’indispensabile caratteristica di ogni viso
piacevole.” sopprime un sorriso, accarezzandomi la guancia.
“Conclusioni
significative?”chiedo, osservando tutte le sue asimmetrie, registrando ogni
ombra sui suoi zigomi.
“I
tuoi occhi sono molto belli.” risponde, con la semplicità con cui mi avvisa che
sono le cinque e devo preparare il the. Ridacchio piano, baciandogli la fronte,
sistemandomi il libro in una mano mentre con l’altra accarezzo i suoi capelli
tiepidi.
Comincio
a leggere a bassa voce, tanto vicino al suo orecchio che tocco i suoi ricci con
le labbra. Passano dieci pagine prima che socchiuda le labbra e si rilassi
completamente, il petto si alza e si abbassa contro il mio, il suo sonno mi
rassicura profondamente. Spengo la luce.
E’
così facile essere felici.
*questo è una velata operazione di lavaggio del cervello:
leggete quel libro perchè non hanno ancora inventato un
aggettivo per descrivere quanto ne valga la pena.