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Autore: Iwuvyoubearymuch    06/06/2012    6 recensioni
Tutto quello che sappiamo riguardo gli Hunger Games, ci è stato offerto dalla visuale di Katniss. Chi non si è mai chiesto quali siano stati i pensieri di Peeta?
Be' io ci ho pensato e questo è quello che ne è uscito fuori...
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo Secondo
Anche se sono confuso, riesco facilmente a riconoscere la tristezza negli occhi dei miei amici. Vi scorgo anche qualcosa come compassione. E sollievo perché se è stato letto il mio nome, allora loro sono salvi anche per quest’anno. Qualcuno di loro mi da una pacca sulla spalla come a farmi coraggio, ma non mi volto per vedere chi è. Mi muovo a rallentatore. Non di mia spontanea volontà. Le gambe stanno facendo tutto da sole, senza che io voglia davvero avvicinarmi a quel palco. Forse sono in attesa che qualcuno fermi la mia avanzata come è successo con Primrose. Ma non accade. Mio fratello Seward è l’unico che potrebbe farlo, ma non lo fa. Non che me lo aspettai e non gliene faccio una colpa. Non posso. In una situazione inversa, quasi certamente, avrei fatto lo stesso. Quando passo accanto al gruppo dei ragazzi di diciotto anni lo vedo. Una prima lacrima gli è già scivolata lungo la guancia e muove la bocca come a dirmi “Scusa”. Non l’ho mai visto piangere. Né lui, né Blythe, l’altro mio fratello maggiore. Ho sempre pensato che non ne fossero capaci, nessuno dei due. Suppongo che oggi abbia avuto prova del contrario. Vorrei voltarmi per cercare con lo sguardo mio padre, ma non riuscirei a vedere nulla con tutta questa gente. Così aspetto di essere sul palco. Vicino a Kantniss, molto più di quanto sia mai stato. Faccio fatica a scorgere il resto della mia famiglia, ma è incredibilmente facile come i ricordi mi assaliscano adesso.
Improvvisamente la piazza scompare, così come le persone. L'unica che è al mio fianco è Delly Cartwright, ma non è come adesso. E' molto più piccola. E anche io lo sono. Non possiamo avere più di quattro anni. Stiamo correndo in tondo; lei avanti ed io subito dietro di lei. Il gioco consiste nel riuscire a prenderla. Sebbene sia molto veloce la raggiungo abbastanza in fretta. Le do il tempo di fare qualche metro ancora e poi le metto una mano sulla spalla. Finiamo entrambi a terra; la caduta attutita soltanto da un bel cumulo di fango. I nostri vestiti non sono più del loro colore originario, perché sono completamente ricoperti di terreno e acqua. Anche i capelli sono sporchi. Quasi come se mia madre fosse stata a fissarci tutto il tempo, eccola che spunta da dietro l'angolo e sgrana gli occhi come due mele. Si avvicina urlandomi di non giocare mai più col fango ed io reprimo una risata insieme a Delly. Mi afferra per un lembo della maglia e mi spintona fino a casa. Entro da quella porta e il bambino di quattro anni che giocava col fango, adesso ne ha un po' più del doppio. 
E' il giorno in cui ho decorato la mia prima torta. Non l'ho mai fatto prima e quindi è solo un gioco. Anzi, è una gara con i miei fratelli. Nonostante abbia detto loro che non è una sfida valida perché loro hanno almeno uno o due anni di esperienza, Seward e Blythe non depongono l'attrezzatura per la glassatura. Comunque, ho osservato loro due e papà molte volte e la procedura di base la conosco. Quello che manca è l'abilità nel maneggiare oggetti mai usati prima, visto che mia madre non mi ha mai dato il permesso. Combino un disastro: glassa verde, gialla e blu è cosparsa su tutto il banco da lavoro per quando ho finito. Seward e Blythe mi hanno concesso magnanimamente dei minuti extra, che sfrutto appieno e forse anche qualcosa di più. Sono bravo. Me lo dicono anche i miei fratelli, il che può non essere un bene dal momento che mi prendono sempre in giro. Fanno sul serio, però, mi accorgo. Proprio perché hanno riconosciuto in me capacità che nessuno pensava possedessi, mi lasciano a pulire la panetteria tutto da solo. Ma non mi importa. Mi sono divertito. Quando mi manca davvero poco per finire, arriva mio padre. Tiro un sospiro di sollievo alla sua vista. Mia madre mi avrebbe fatto pentire di aver accettato la scommessa. Mio padre, invece, osserva le tre torte con un'espressione seria in volto. Riconosce subito quella fatta da me. Mi chiede cosa ho usato per preparare la glassa e, dopo aver risposto, cerco di spiegargli che è stata tutta un'idea degli altri due figli che ha. Ma lui mi blocca al principio, prende la torta tra le mani e la mette in vetrina. E' la più brutta che si sia mai vista lì dentro, ma sembra aver inorgoglito mio padre in un modo che le torte dei miei fratelli non hanno mai fatto. 
Il Trattato del Tradimento mi riporta al presente. Sono ancora sul palco, accanto a Effie Trinket, e sto per partecipare agli Hunger Games come tributo. Sto per morire, detto in parole semplici. Perché non c'è nessuna possibilità che io riesca a farcela. La mia vittoria vorrebbe dire la morte di Katniss. Un pensiero che non posso nemmeno prendere in considerazione. Cerco di mantenere il mio viso calmo abbastanza da non lasciar trapelare alcuna emozione o tormento interno. Non so se ci riesco, ma per migliorare mi costringo a respirare prendendo belle dosi di aria, cacciandole poi con estrema lentezza. Se non del tutto, mi tranquillizzo in una minima parte. Guardando la folla, incrocio lo sguardo del padre di Delly. Anche lì c'è una quantità impressionante di compassione che riesco a stento a sopportare. Mi volto immediatamente, a guardare Katniss. E' ancora in modalità da dura. Diversamente da me, lei ci riesce bene. Da la sensazione di essere annoiata. In quel momento ci viene chiesto di stringerci la mano. Come le gambe durante il breve tragitto per il palco, le braccia si muovono senza che io le comandi. La mano di Katniss si chiude attorno alla mia. Ha una bella presa, penso, distogliendo per la prima volta i pensieri dai giochi. Ora che posso guardarla negli occhi, scorgo il naturale nervosismo. Vorrei dirle qualcosa per farla sentire meglio, ma cosa? Non so nemmeno cosa dire a me stesso per sentirmi meglio. Mi limito a stringerle gentilmente la mano. E mentre l'inno suona, l'immagine di me e Katniss, l'uno di fronte all'altro, con le armi sguainate pronti a ucciderci, mi passa dietro le palpebre che chiudo per un istante. 
Continuo a pensarci anche quando i Pacificatori mi portano all'interno del Palazzo della Giustizia. Non potrei mai ucciderla. In generale, non potrei mai uccidere. Non l'ho mai fatto nemmeno con una mosca o una farfalla, figurarsi un essere umano. Il solo pensiero di poter entrare nell'arena, udendo la scommessa di quell'uomo, mi ha fatto impazzire. Poggio i gomiti sulle ginocchia e passo una mano tra i capelli, in attesa che la mia famiglia giunga per salutarmi. Dirmi addio.
Mi alzo quando li vedo entrare uno alla volta. Mia madre è in prima fila, gli altri sono alle sue spalle. Non riesco a decifrare l'espressione di nessuno di loro. E' già tanto che sia ancora in grado di reggermi in piedi. Le braccia di mia madre sono le prime che mi cingono. Rimango pietrificato. E' passato moltissimo tempo dall'ultima volta che mi ha abbracciato. A scuola avevo litigato con un altro bambino e lui mi aveva dato un pugno. Tornai a casa con la testa bassa e il morale a terra. Mia madre fu la prima ad accorgersene e mi costrinse a raccontarle cosa era successo. Lo feci e alla fine mi abbracciò, costringendomi di prendere lezioni di lotta da Seward.
Poggio la testa sulla sua spalle e per un attimo mi lascio cullare da quella sensazione quasi del tutto sconosciuta e, al contempo, desiderata. Oltre la spalla di mia madre, le facce dei miei fratelli e di mio padre non sono per nulla sorprese. Il che vuol dire che ho sempre sbagliato a giudicare mia madre. Quando lei si stacca, lo fa con un sospiro. Mi ritraggo per un istante appena la sua mano fa per avvicinarsi al mio viso. Poi mi fermo e lascio che mi accarezzi la guancia. "Forse il Distretto 12 avrà un vincitore quest'anno" dice con il tono più dolce che abbia mai usato con me. Si, ho decisamente sbagliato a giudicarla. Certo, non ho mai pensato che volesse la mia morte, ma i modi per dimostrarmelo non erano esattamente convenzionali. Faccio per ringraziarla, ma ciò che le esce dalla bocca prima che possa farlo mi fa gelare il sangue nelle vene. "E' una tosta, quella" aggiunge e con un colpetto con la testa indica la stanza affianco.
Quella. All’inizio penso che sia stato solo un errore, poi quando il tempo passa e non si corregge, capisco che non lo è. Sta parlando di Katniss. Perfino mia madre non crede che io possa vincere. Suppongo che questo che si pensi di ogni tributo del Distretto 12. Anche io ho dato per spacciati i miei predecessori, ma di certo non sono andato da loro a dirglielo. E non ero loro madre. Una madre non dovrebbe incoraggiare il proprio figlio? Dirgli che nonostante tutto, riuscirà a non morire? A quanto pare non la mia.
La stessa espressione di sorpresa è dipinta sul volto del resto dei miei familiari. Per un attimo tutti e quattro restiamo a guardare mia madre che esce dalla stanza. Poi, Seward si avvicina a passi lenti, continuando a lanciarsi sguardi stupiti alle spalle.
“Non starla a sentire. Cerca solo di non illudersi” dice, poggiandomi le mani su entrambe le spalle. Non sembra convinto. Riesco a vederlo facilmente negli occhi colmi di lacrime. “Sei forte, molto più di altri tributi” afferma.
“Non sappiamo ancora chi sono” gli faccio notare.
Seward stringe la presa sulle spalle. “E’ così, fidati” dice, deciso.
Scoppio a ridere. Avevo sei anni la prima volta che decisi di fidarmi di mio fratello Seward. Quel giorno lo vidi tornare sporco di terreno da testa a piedi, intento a cancellare quelle macchie che gli sarebbero costate una punizione certa. Decisi di aiutarlo, a patto che mi raccontasse cosa aveva combinato. Lui accetto e, mentre lui cercava di ripulirsi i pantaloni, io mi occupai della camicia. Mi raccontò che era stato al di là della recinzione con il filo metallico. Mi fermai di colpo. Era vietato oltrepassarla. Primo perché dava sui boschi e secondo, si usciva dai confini del distretto. Gli diedi del pazzo e lui ribatté che avevo solo paura degli orsi e dei puma. Cercai di convincerlo del contrario, finché lui mi disse di provarglielo. “Non ci scopriranno, fidati” mi disse quando tentai di tirarmi indietro, appena giunti alla recinzione. Lo feci e non avrei dovuto. Un Pacificatore ci beccò proprio nel momento in cui io feci per strisciare dall’altro lato. Per nostra fortuna il Pacificatore in questione era Darius. Un tipo innocuo, che non ne parlò a nessuno visto che eravamo dei bambini. Tornando a casa, Seward ammise che non era mai uscito dal Distretto. Quel pomeriggio aveva semplicemente giocato con i suoi compagni di scuola. Ridemmo per tutto il tragitto.
Racconto l’aneddoto anche a lui, per giustificare la mia risata. Appena iniziamo a tirare fuori qualche altro ricordo divertente, Blythe ci ferma. “Basta!” grida, quasi. Non è mai stato un tipo di molte parole. Caratterialmente simile a mio padre molto più che nell’aspetto. “Smettetela di ricordare i vecchi tempi. Non stai per morire” dice, i pugni chiusi lungo i fianchi.
“Blythe ha ragione” interviene mio padre. “Sai lottare e lo fai bene”. Apprezzo i loro tentativi di darmi fiducia, ma non penso che sarà utile.
“Gliel’ho insegnato io” scherza Seward, facendo spallucce.
Quando i Pacificatori richiamano la mia famiglia, ci stringiamo tutti in un unico abbraccio. Vorrei non dovermi staccare mai da loro. Ma purtroppo devo e pochi istanti dopo sono di nuovo da solo in quella stanza. Non per molto. La porta si apre nuovamente e a entrare questa volta è Delly. Non dice molto prima di aggrapparsi al mio collo. Singhiozza. “Puoi farcela” sussurra al mio orecchio, senza rompere l’abbraccio. Restiamo così per un po’, poi arriva anche il suo turno di andare. “Ti voglio bene” è ciò che mi dice Delly prima di chiudersi la porta alle spalle.
A quel punto mi aspetto che entri qualche mio amico, ma dubito che i Pacificatori facciano passare qualcun altro. Invece, la porta si apre ancora una volta al suono di “Sono la figlia del sindaco!”. Sopprimo un sorriso. Non è esattamente da Madge sfruttare la posizione del padre per ottenere qualcosa. Non siamo veri e propri amici. Abbiamo parlato in un paio di occasioni e una volta l’ho accompagnata a casa dopo scuola perché aveva molti più libri di quanti riuscisse a contenere lo zaino. Forse è allora che mia madre ha pensato a me e lei come possibile coppia. Non avrò mai l’occasione di chiederglielo.
Comunque la presenza di Madge in questa stanza mi fa pensare che è già stata da Katniss. Lei è la cosa più vicina che ha come amica. Probabilmente, ha ritenuto giusto venire anche da me. Eppure non ci diciamo molto. Un abbraccio veloce, un “Buona fortuna” commosso e poi va via.
Torno a sedermi sul divano. I Pacificatori mi fanno alzare poco dopo per portarmi alla stazione ferroviaria. C’è ancora molta gente fuori dal Palazzo di Giustizia. Dall’auto intravedo i miei fratelli e le lacrime iniziano a scendere. Non li rivedrò mai più. Asciugo le guance una, due, tre volte. Poi non lo faccio più e quando arriviamo alla stazione non mi sforzo di tenere la testa bassa. La folla riesce tranquillamente a capire che ho pianto. Non vedo il motivo per cui dovrei fingere di stare bene. Sto per partecipare agli Hunger Games. Pianterei i piedi a terra e non mi muoverei di un millimetro se fossi certo che non mi trascinerebbero anche con la forza.
Con uno sguardo veloce in direzione di Katniss, riesco a vedere che lei, diversamente da me, non sta piangendo e niente lascia intendere che l’abbia fatto prima. Ha ancora la maschera da dura che non lascia andare mai. E’ solo una scena per le telecamere. So che è spaventata quanto me. Sul palco esibiva la stessa espressione annoiata, ma appena Haymitch ha distolto l’attenzione da lei e ha attirato le telecamere, si è lasciata andare per un solo istante a un gemito. La maschera poi è tornata a posto. Una persona così è solo da ammirare.
I cameraman sono appostati anche qui. Non mi sorprende. Vogliono sfruttarci per bene, prima di lasciarci andare. Per fortuna, Effie Trinket ci fa salire in fretta sul treno e poi ci mostra gli scompartimenti in cui dovremmo alloggiare fino all’arrivo a Capitol City. Il mio è anche più lussuoso della stanza al Palazzo di Giustizia. Ma ora come ora l’arredamento non mi interessa. L’unica cosa di cui ho bisogno adesso è una doccia, in modo da cancellare le lacrime che mi hanno rigato il viso, la sensazione di paura che mi attanaglia lo stomaco dal momento in cui ho messo piede nella piazza, il presagio di morte che aleggia sulla mia testa. Purtroppo, non me ne dimentico neanche per un secondo. E come potrei? Fra meno di una settimana sarò rinchiuso nell’arena insieme ad altri ventitré tributi che pianificano la mia morte, che faranno di tutto pur di ritornare a casa dalle loro famiglie oppure per ottenere ricchezze in volontà. In questo momento, forse, il tributo del Distretto 1 sta pensando alla tattica più conveniente per essere l’unico ancora in piedi alla fine dei giochi; quella del Distretto 6 sta cercando il miglior modo per ottenere gli sponsor che rappresentano la nostra unica salvezza; quelli dei distretti più abbienti si stanno allenando. Io non ho idea di cosa fare. Non solo qui. Anche nell’arena. Non ho la minima idea della strategia che seguirò. C’è Haymitch per quello. O almeno, spero che non si ubriachi tanto da suggerirmene una. Il problema, comunque, non è questo.
Esco dalla doccia, coperto solo da un asciugamano. Do un calcio ai vestiti che ho buttato per terra. Quasi come se fosse colpa loro se è uscito il mio nome. Se ora sarò costretto a combattere fino alla morte per poter rivedere di nuovo la mia casa, uccidendo perfino la ragazza di cui sono innamorato da una vita intera. Certo, potrebbe ucciderla qualcun altro. Ma anche quest’idea non mi piace neanche un po’.
Prendo un pantalone nero dal cassetto e un’altra camicia. Asciugo i capelli alla bell’e meglio con un asciugamano. Provo a dargli una forma presentabile. Poi le parole di mia madre mi ritornano in mente e li lascio così come sono. Non è finito il tempo che Effie ci ha messo a disposizione, ma esco comunque dallo scompartimento e mi metto alla ricerca del vagone ristorante. Lungo un corridoio intravedo la sagoma di Haymitch. C’è puzza di alcool anche a distanza di un paio di metri. Deve aver bevuto ancora dopo la scenata sul palco. Tuttavia, mi avvicino per chiedergli quando inizierà a darci qualche consiglio utile. Lui mi blocca prima che possa anche aprire bocca e mi dice che se ne va a dormire. Fisso per un istante il legno scuro della porta. Lui dovrebbe essere il mio mentore. Haymitch Abernathy, l’ubriacone del Distretto 12, dovrebbe essere la mia più grande occasione per poter continuare a vivere, consigliandomi tattiche e strategie che mi consentirebbero di tornare a casa. Se prima avevo poche possibilità di riuscirci, adesso ne ho anche meno.
Ci metto un po’ a trovare lo scompartimento giusto. Non c’è nessuno, ma la tavola è già ricoperta di piatti, bicchieri e posate. Prendo posto, in attesa che arrivino gli altri. Non devo aspettare molto. Pochi istanti dopo arrivano Katniss e Effie. Entrambe prendono posto davanti a me. “Dov’è Haymitch?” mi chiede la seconda.
Le dico che l’ultima volta che l’ho visto, era intento a farsi un sonnellino. Lei sembra abbastanza sollevata. Non me la sento di darle torto. Ha rischiato di perdere la parrucca ben due volte prima e sempre per colpa di Haymitch.
La cena comincia subito dopo. Ci vengono servite molte portare, la maggior parte delle quali consistono in cibi che non mai mangiato prima. Per questo motivo mi è difficile restare impassibile di fronte alla minestra di carote. Ne prendo una bella porzione abbondante. Appena la finisco, me ne servo ancora un po’. Poi tocca a tutto il resto. Ho paura che tutto il cibo che ho buttato giù mi risalga lungo la gola, quando Effie si congratula con me e Katniss per le nostre buone maniere a tavola in confronto a quelle dei passati tributi. Come me, anche Katniss non replica nulla. Ma dal modo in cui mangia il purè di patate e la torta a cioccolato con le mani, che dopo si pulisce con la tovaglia, intuisco che non ha preso il commento di Effie come un complimento. Non ne sono troppo stupito. I tributi delle scorse edizioni erano quasi sempre del Giacimento, un posto in cui la maggior parte delle persone muore di fame. Letteralmente. I Pacificatori sono spesso costretti a sbarazzarsi dei corpi che si trovano per strada, attribuendone la morte a deboli scuse che non ingannano nessuno. Certo, si muore anche di altre cose nel nostro distretto, ma nella maggior parte dei casi è per via della fame. Quindi, perché due ragazzi che non hanno mai visto abbastanza cibo con cui poter riempire il vuoto di una settimana o più di digiuno, dovrebbero comportarsi decentemente a tavola?
Conclusa la cena, la sensazione che vomiterò tutto da un momento all’altro si accentua. Boccheggio una, due volte mentre Effie ci conduce in un altro scompartimento per vedere il riassunto delle altre Mietiture. Nessuno mi colpisce, eccezion fatta per quelli del Distretto 11. In realtà non sono loro a colpirmi, se non la più totale differenza di corporatura. Il ragazzo è un vero e proprio gigante. Non ha l’aria truce, ma i muscoli che tiene coperti a metà sotto una maglietta a maniche corte fanno la loro impressione. La ragazza è tutto l’opposto. Minuta, dolce, tenera. Ricorda la sorella di Katniss in un certo senso. La sensazione di compassione è inevitabile. E mi abbandona solo quando passano al nostro distretto. Guardando quelle immagini, mi sembra di rivivere tutto da capo. E soprattutto rende reale ogni cosa. La disperazione di Katniss nel vedere la sorellina avviarsi verso il palco, la paura di non rivederla più, il saluto che la gente del distretto le riserva, la confusione subito dopo aver udito il mio nome.
Evito di pensarci troppo e Effie mi offre l’occasione perfetta. Si lamenta della scarse abilità di Haymitch di saper portare avanti una presentazione. Non trattengo la risata. “Era ubriaco. E’ ubriaco tutti gli anni” dico in quella che sembra una difesa.
“Tutti i giorni” rincara la dose Katniss.
Le parole successive di Effie sono letali per l’impronta di ironia che si era diffusa nell’aria. Ci ricorda, come se noi due non avessimo alcuna idea, senza troppi giri di parole che Haymitch è la nostra ancora di salvezza, e i suoi consigli potrebbero fare la differenza tra la vita e la morte.
Quasi come se Haymitch fosse stato richiamato al suono del suo nome, entra barcollando nello scompartimento. Farfuglia qualcosa e in pochi istanti sta sguazzando nel suo stesso vomito.
  
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