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Autore: falloutcitty    08/06/2012    2 recensioni
Si dice che quando vedi una farfalla morire ti stai avvicinando al termina della tua vita. A quel tempo ero ancora giovane e ingenua, non potevo immaginare a cosa stavo andando incontro. Quello che sarebbe successo di lì a pochi giorni mi risulta ancora per lo più incomprensibile.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Farfalle.
Si dice che quando vedi una farfalla morire ti stai avvicinando al termina della tua vita. A quel tempo ero ancora giovane e ingenua, non potevo immaginare a cosa stavo andando incontro. Quello che sarebbe successo di lì a pochi giorni mi risulta ancora per lo più incomprensibile.

Avevo solo 17 anni quando mi allontanai da lui e dentro di me sapevo che non l’avrei mai più cercato. Però ci pensavo spesso, a lui, e mi domandavo come avevo potuto dedicargli parte della mia vita. Ah si dimenticavo: lui non era una persona. O per lo meno non era reale. Adesso credo che potrei definirlo come l’insieme delle mie più intime pulsioni, che condensate davano vita ad un’allucinazione.

Mi chiamo Andrea e questa è la mia storia.
 

I primi ricordi che ho di lui coincidono con i primi ricordi che ho di tutto il resto. Io e lui stesi nell’erba del parchetto davanti a casa mia.

 
All’età di 3 anni frequentavo una delle tante scuole materne della mia città. Ero una bambina come le altre: niente di speciale. O meglio, diciamo che non è che socializzassi molto con i miei coetanei: ma nessuno ci faceva caso in quanto ero solo una tra i tanti e, d'altronde, non si sa mai bene cosa possa passare per la testa di un bambino, specialmente a quell’età. Ebbene la mia testa era spesso e volentieri affollata da giochi, mamma, papà, colori, animali. Ma soprattutto un’animale: un coniglio bianco con gli occhi rosa bordati di nero, con il pelo più morbido di qualunque altra cosa. Francamente questi ricordi sono leggermente sfocati, ma di quel pelo, quella morbidezza, mi ricordo bene.
Inizialmente non avevo idea di poterlo vedere solo io, ma poi un giorno i miei genitori, parlando con la nonna, tirarono fuori il discorso dell’amico immaginario. Inizialmente presero la cosa sul ridere e gli diedero addirittura un nome: Seneca. La questione però non accennava a scemare e loro iniziarono a preoccuparsi seriamente quando arrivarono delle voci allarmate anche dalla mia scuola, dove i maestri dicevano di avermi vista parlare da sola. Così in casa era diventato, ogni giorno, l’argomento di discussione e tutti non facevano altro che rivolgermi sguardi di compassione misti a disprezzo. Una notte mi alzai per andare in bagno, stavo seguendo Seneca in punta di piedi, quando lui si fermò davanti alla porta della camera dei miei genitori e sentii mia madre piangere dicendo che non capiva perché proprio a lei fosse dovuta capitare una figlia anormale, che non riusciva ad integrarsi, che non voleva fare danza, della quale non poteva vantarsi con le sue amiche, che se portava ai ricevimenti non faceva altro che rotolare per terra e mangiare fiori. Il giorno dopo mi presero da parte tentando di farmi un discorso serio, che io non riuscivo a capire molto bene. L’unica cosa che capii fu come mi guardavano: erano spaventati. Spaventati da cosa? Da me? Da Seneca forse? Mi portarono da uno psichiatra infantile il quale mi faceva strane domande e cercava di costringermi a non guardare nella direzione di Seneca quando andavamo nel suo ambulatorio. Dopo alcune settimane di cure sentii di nuovo mia madre piangere. Così smisi di giocare con Seneca. Passavano i giorni e io mi sforzavo di non cercarlo più, ma siccome alla fine era sempre lui a trovare me: smisi anche di guardarlo. Poco tempo dopo mi ammalai di una febbre così violenta che chiamarono non solo il pediatra ma anche dei medici specialisti per adulti. Nel giro di due giorni la febbre non accennava a voler scendere, ed ecco quel coniglio, che avevo persistentemente ignorato, mentre gironzolava tra le gambe degli adulti che si affannavano intorno al mio letto nel vano tentativo di capire cosa potessi avere, saltare sul mio letto e guardarmi dritto negli occhi. Provai qualcosa di strano, come se qualcosa mi stesse inondando, riempiendo. Il giorno dopo la febbre era sparita insieme alla preoccupazione dei miei genitori, i quali nel delirio della febbre mi avevano spesso sentito chiamare il nome di Seneca con affanno. Da quel giorno presero atto che io ero strana e punto. Non ci si poteva fare niente.


All’età di 6 anni, il mio tenero coniglietto bianco, prese le sembianze di un folletto, uno di quelli verdi con le orecchie a punta e gli occhi allungati. Era il periodo in cui mi stavo appassionando ai cartoni animati (finalmente ero diventata abbastanza paziente da stare seduta e buona fino alla fine).
Una mattina come un’altra mi alzai. Ma non era stato il musetto peloso di Seneca che sfregava contro il mio a svegliarmi. Era stata la luce che entrava dalla finestra della mia stanza. Mi guardai intorno un po’ stupita dall’insolito risveglio. Iniziai a cercarlo dappertutto, ma niente. Seneca non si trovava. Stavo per mettermi a piangere quando ecco che uno strano esserino verde mi si avvicina allegro. Non lo avevo mai visto in un cartone animato, eppure aveva qualcosa di famigliare, sotto quella strana pelle verde quasi diafana mi sembrava di intravedere qualcuno, qualcuno che avevo conosciuto bene. Sul momento però non vi badai. Giocammo insieme tutto il giorno e mi dimenticai di Seneca. La mattina successiva qualcosa di caldo e umido mi toccò il muso. Ma non era Seneca! Non poteva essere! Lui se ne era andato! Aprii gli occhi per accertarmi di chi fosse l’usurpatore che cercava di rimpiazzare il mio migliore amico. Ed eccolo lì. Seduto sul bordo del letto che un dito verde paffutello, umidiccio di saliva a 2 centimetri dal mio naso, quello strano folletto. Saltai su schifata, poi però incrociammo gli sguardi. La luce del sole che filtrava tra le fessure della tapparella illuminò l’aria tra i nostri occhi: sembrò che la polvere si fermasse insieme ai nostri respiri. Così vidi quel bagliore nei suoi occhi. Capii immediatamente chi era. Come avevo fatto ad essere così sciocca? Ma come poteva essere? Il giorno prima era un coniglio e il giorno dopo un folletto?! I miei quesiti restarono irrisolti. Ero troppo piccola per capire e forse nemmeno lui aveva le risposte.
Decisi di dargli un altro nome. Ora non era più un coniglio: non era più una piccola leggera bestiolina pelosetta di 700g. Era un folletto alto 50 centimetri: non esattamente un fuscello. Così la mattina, ogni volta che saliva sul mio letto a castello per darmi il consueto “buon giorno” bavoso, lo faceva scricchiolare. Imparai in fretta a tirarmi su prima che lui potesse impiastricciarmi la faccia con il suo dito leccato: a darmi il segnale per darmi alla fuga erano tutti quegli “scric”, “scroc”, “cric”, “crac” che faceva mentre saliva. Come sentivo il fatidico terzo “cric” scattavo e ridendo ruzzolavo giù dal letto. Fu così che decisi di chiamarlo Cric.
I miei genitori stavano iniziando a rassegnarsi, oltre che alla mia stranezza, anche alla mia introversione, poiché progressivamente avevo continuato a chiudermi. Più mi legavo a Cric e più, le mie già poche, conoscenze diventavano insignificanti. Incredibile vero?! Avevo solo 6 anni e già non avevo amici, non che facessi fatica a farmene, è solo che proprio non sapevo COSA farmene. Cric, come lo era stato Seneca, era tutto il mio mondo adesso. Attraverso di lui imparavo a conoscere me stessa, ma gli altri bambini mi sembravano comunque figli di altri mondi: non avevo nulla da spartire con loro. Io non consideravo loro e viceversa. Semplicemente viaggiavamo lungo binari paralleli.


All’età di 10 anni divenne una minuta ragazzina dai capelli color cenere, che chiamavo amichevolmente Mina. Aveva grandi occhi neri che a volte mi spaventavano quando mi ci scorgevo riflessa. Fu un anno davvero fantastico, io e lei giravamo sulla mia bicicletta alla scoperta del mondo dei grandi, io guidavo e lei stava in piedi sul portapacchi.


A 11 anni e mezzo si mutò in un topino e soleva soggiornare comodamente nelle tasche dei miei giubbini o camicie a seconda della stagione.


Successivamente a 14 anni divenne un ragazzo che poteva avere un paio d’anni più di me, era alto, esile e con i capelli rossi sempre arruffati. Lo chiamavo Mick perché mi ricordava il cantante dei Simply Red. Mick fu  il mio primo grande amore. Passavamo moltissimo tempo insieme e quindi agli occhi del mondo ero diventata ancora di più una ragazzina introversa e distratta. Avevo pochi amici all’infuori di lui, anzi potremmo dire che più che altro avevo pochi “conoscenti” oltre a lui. Comunque andavo bene a scuola e i miei genitori mi lasciarono fare, pensando che fosse solo una delle classiche fasi difficili dell’adolescenza che attraversano tutti.


All’età di 15 anni divenne un corvo e soffrii molto della perdita di Mick, ma come lui mi spiegò prima di andarsene: non era lui a cambiare, bensì io che cambiavo il mio modo di vederlo. Ero decisamente nella fase “gotica” della mia vita. Ve la immaginate una ragazzina che va in giro con un corvo, che nessuno può vedere, sulla spalla? Ero un bel po’ stramba e la gente mi evitava credendomi una psicopatica (beh forse avevano ragione non trovate?).


A 16 anni divenne un uomo, era bellissimo: alto, moro, muscoloso e non aveva occhi che per me. Quello fu un periodo eccezionale.


Avevo da poco compiuto 17 anni quando venni picchiata da delle mie compagne. Mi avevano preso da parte all’uscita da scuola e trascinata nel bagno vicino alle palestre: sostenevano che avessi fatto qualcosa che non ho nemmeno capito, poiché mentre una di loro, in piedi, parlava, altre due mi tenevano per le braccia e una quarta mi colpiva. Mentre mi picchiavano, lui era là: fermo immobile, quasi statuario nella sua bellezza, che mi guardava e sorrideva. Mentre con un calcio una di loro mi rompeva il naso, lo guardavo in silenzio realizzando che non avrebbe fatto niente per salvarmi, così rimasi ferma finché non furono soddisfatte della loro opera d’arte. Quando se ne furono andate, lentamente mi rialzai e trascinandomi, arrivai fino a casa che per fortuna era poco lontana. Entrata in bagno lui era là che mi sorrideva appoggiato al lavandino. Mi prese tra le braccia e mi aiutò a svestirmi e mi infilò di peso, come un fagotto, nella doccia. Quando ebbi finito mi aiutò a medicarmi il naso e poi mi porto in braccio nel mio letto. Quella fu una notte senza sogni. Il giorno dopo lui non c’era e non lo cercai. L’indomani mi accorsi che una farfalla mi seguiva, non era particolarmente colorata né aggraziata: era marrone e gialla, e volava in maniera penosamente asimmetrica. Il pomeriggio scesi nel parchetto di fronte a casa mia e sedutami sull’erba guardai il sole, ed eccola comparire dal nulla, quella strana farfalla. Ormai avevo capito che era lui, ma non importava più: avevo passato la mia vita dentro un’illusione. Questa consapevolezza arrivò improvvisamente come un pugno nello stomaco che toglie il respiro. Ma cosa mi aspettavo? In fondo lo avevo sempre saputo che non era reale. Avevo sbagliato a nutrire vane speranze nel fatto che lui fosse la realtà e tutto il resto un brutto sogno. Mi si avvicinò svolazzando in attesa che gli offrissi il dito, ma non lo feci. Lui continuò a svolazzarmi intorno per un po’ e io non mi mossi. Pian piano il suo volo si fece più basso e più leggero, un battito d’ali gli consentiva di fare un giro intero intorno al mio busto. E poi eccolo cambiare colore e diventare bianco e con una leggera folata di vento accasciarsi a terra, inizialmente adagiato su di un fianco con le due ali ad angolo retto. Dopo quella che a me parve un’eternità anche l’ala ritta si ripiegò sull’altra. Mi sembrò di sentire un sussurro, mi girai per vedere se qualcuno mi stava chiamando. Nel momento in cui distolsi lo sguardo qualcosa dentro di me si spezzò. Mi rigirai alla velocità della luce e lui si dissolse e diventato polvere divenne parte del vento. Lì tra i fili d’erba, lunghi e affilati come coltelli, del parchetto davanti a casa mia, fu l’ultima volta che lo vidi.
Si dice che quando vedi una farfalla morire ti stai avvicinando al termina della tua vita.


Alcuni giorni dopo morii. Una morte banale, niente di eclatante. Ero andata a fare un’escursione con dei compagni di classe che, impietositisi alla mia vista malconcia e ancora più evanescente del solito, avevano deciso di invitarmi. Dovevamo accendere il fuoco per cucinare la carne e io mi offersi, con grande stupore di tutti (molti dei quali non avevano mai nemmeno sentito la mia voce), di andare a raccogliere la legna. Mentre camminavo nel bosco da sola vidi un’indicazione che segnalava un piccolo belvedere, così incuriosita seguii la freccia per poi uscire dalla boscaglia e vedere un bellissimo masso che sporgendo dalla montagna dava sulla vallata. Mi ci arrampicai: era bellissimo. Poi improvvisamente una leggera brezza mi sospinse in avanti e mi mancò il terreno sotto i piedi. Così caddi per qualche secondo. Il mio corpo atterrò nel fitto della boscaglia sottostante. Non lo ritrovarono mai più.
Solo allora capii che lui era stato la mia anima, ma ormai era tardi.
  
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