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Autore: Yoko Hogawa    09/06/2012    23 recensioni
John affronta il dolore in modo codardo, affondando in una routine quotidiana senza scopo. Almeno finché Sherlock non ritorna, e tutto diventa un continuo cercare di ritrovare la vecchia vita, le vecchie abitudini, tutte quelle cose che aveva smesso di fare perché faceva troppo male persino pensarci.
Ma c'è qualcosa che non va. John conta i mesi e calcola i giorni, i minuti, le ore, i secondi. C'è qualcosa che non va e non se ne rende conto, ma ne sente l'eco lontana. E la ignora.
[post-ritorno post-Reichenbach][Johnlock in una continua altalena fra bromance e pre-slash]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Awake me not, hush. Whisper low.'
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Desclaimer: salve, qui è la segreteria telefonica della famiglia Ovvietà. In questo momento non siamo in casa, lasciate un messaggio dopo il segnale acustico. BEEEEEEP. « Ah, salve, sono Yoko. Ecco, volevo solo dire che i personaggi di questa fic non sono miei, ma sono stati creati da Sir Doyle e presi in prestito da Moffat e Gatiss... quei trolloni... e che scrivo gratis. Grazie e... beh, buona uscita ». CLICK. TU TU TU TU TU...

 

Note: alla fine anche io sono caduta nell’incubo delle post-Reichenbach. Forse era scontato.

In realtà questa fic è una prima parte di una seconda parte (You don’t say? 8D). Insomma, è un prequel di qualcosa che sto già scrivendo e che – forse – vedrà la luce in seguito. Le due fic in questione praticamente vanno in coppia, ma ho deciso di fare una serie e non due capitoli di una stessa. Mi piace di più.

E tutto ciò si chiama esplorare i limiti di quanto a fondo può affondare una mente umana.

Ed è lunga. Parecchio. Sono 26 pagine e parecchio prolisse.

 

E... beh: niente è come sembra. Tenetevelo in mente ;D

 

Per il resto, a chi vorrà leggere, buona lettura  

______________________________________________________________________________________________________

 

Hush. Whisper low.

 

 

 

 

 

Il difficile non è andare avanti.

La quotidianità ideale, quella che ognuno elegge a gruppo di controllo per dare senso ai termini di “normalità” e “anormalità”, quella è facile. Si tratta di ripetizione ad oltranza: un insieme di tradizioni, abitudini e azioni qualunque; svegliarsi, mangiare, lavarsi i denti, ritirare la posta, andare al lavoro, dormire.

Andare avanti è una bazzecola. Come camminare. Un passo dietro l’altro, e prima o poi da qualche parte si arriva.

John aveva imparato a farlo in guerra, e quella è la maestra più severa di tutte.

Si chiamava Afghanistan e si doveva andare avanti. Calpestando gli altri, se necessario.

Era stato là, nel deserto, che John aveva imparato a fingere di stare bene. E gli veniva naturale, ormai.

Andare avanti è facile quando sei in grado di bloccare ogni arteria che porta rifornimento al tuo cuore, impedendogli non solo di battere, ma anche di collassare sotto il peso del dolore.

È lì che diventa semplice.

Alzarsi al mattino. Uscire. Trovare un nuovo lavoro, un nuovo appartamento, un nuovo silenzio, un nuovo equilibrio. Andare a dormire. Visitare una tomba. Uscire con qualche ragazza. Sorridere, ridere, raccontare battute, fare l’amore (sempre una notte, mai più di due). Mentire. Mentire sempre. Agli altri e a se stessi.

John mentiva benissimo a se stesso. Pura sopportazione: dopotutto aveva affrontato tempi peggiori, posti peggiori, esperienze peggiori. Il primo soldato che non era riuscito a curare. Il primo ragazzo a cui aveva sparato. Il primo paziente perso tenendogli la mano mentre il cancro banchettava con il suo pancreas. La sua prima visita autoptica. L’abbandono di suo padre e le lacrime di sua madre. Amicizie finite e poi dimenticate.

Il trucco è chiudere in una bolla ciò che fa male, ciò che causa dolore, e accantonarlo; metterlo nell’angolo della mente più buio e polveroso, chiuderlo in un cassetto e poi nascondere la chiave che lo apre, in modo che non possa continuare a ferire.

John lo aveva fatto con Sherlock.

John era scappato da Sherlock. Dal ricordo di Sherlock. Dal fantasma di Sherlock.

Dicevano tutti che Sherlock era ormai un trauma da superare, un lutto da elaborare (Negazione, Rabbia, Contrattazione, Depressione, Accettazione). Tutti lo vedevano come il vedovo di un genio, l’amico di un impostore, il povero credulone delle fiabe che è sempre il primo a morire e lui, per tutta risposta, era ancora vivo.

Si era trasferito e con sé non aveva portato niente di lui. Nemmeno i ricordi.

Ricordi belli – il tè, il suono del violino, le risate, i pericoli, i sospiri, le serate da Angelo, le discussioni, le stranezze, le cene insieme, il suo braccio sulle spalle di Sherlock, la mano di Sherlock sul suo ginocchio. E ricordi brutti – un cielo grigio, un tetto, un addio, un salto, un volo, un marciapiede, i suoi occhi fissi nel vuoto e sangue, sangue, sangue, sangue, sangue.

No, John non aveva superato il trauma. Aveva chiuso gli occhi e faceva ancora finta che non fosse mai esistito.

Era la via più facile.

Così un giorno riuscì a svegliarsi rendendosi conto che non ricordava il volto di Sherlock. Sapeva che aveva gli occhi chiari, ma non ricordava bene il colore preciso, nonostante li avesse osservati molte volte. Sapeva che aveva i capelli scuri, ma non che sfumatura prendessero alla luce del sole. Sapeva che era alto, più di lui, ma alto quanto? E il naso? Il mento? Riusciva a focalizzarli da soli, ma in una visione d’insieme gli sfuggivano completamente le fattezze di quel viso.

Sorrise, perché in poco tempo ne avrebbe dimenticato anche la voce. Poi la presenza.

La parte cosciente di sé si sarebbe liberata di lui. Era così che John andava avanti.

 

 

Ma il difficile non è andare avanti.

Andare avanti è come camminare: un passo dietro l’altro ed il gioco è fatto.

Il fatto è che, ad un certo punto, risvegliato dalla più impensabile delle piccolezze, il passato torna a trovarti; si avvicina silenziosamente e ti picchietta un dito sulla spalla e quando ti giri è troppo tardi, ti investe con tutta la sua potenza.

Ed è difficile.

Difficile è avere il coraggio di guardarsi indietro, sospirare e scrollarsi tutto dalle spalle. Difficile è udire suoni, sentire profumi, toccare oggetti ognuno collegato ad un ricordo, e farlo sorridendo. Difficile è dirsi di aver fatto il possibile nonostante tutto, di essere sopravvissuto nonostante tutto, di essere ancora in piedi nonostante tutto e di continuare così nonostante tutto. Difficile è ammettere di avere sbagliato, ma rendere anche conto a se stessi di non poter più tornare sui propri passi per rimediare. Difficile è smettere di pensare che sarebbe potuta finire meglio. Difficile è scoprire che avresti potuto fare la differenza e “adesso le cose sarebbero diverse”.

Difficile, è rendersi conto di tutte queste cose senza crollare.

E John non era capace di farlo.

Aveva accantonato la guerra, e la guerra era tornata da lui. Aveva infestato i suoi sogni, reso inutile la sua gamba, fatto tremare la sua mano.

Poi aveva accantonato Sherlock...

...e Sherlock era tornato da lui.

 

 

John aveva un segreto, e quel segreto era un orologio da polso.

Cinturino nero, quadrante bianco, tondo, lancette sottili. Un normalissimo orologio da polso, un po’ meno di sedici sterline in gioielleria, comprato per sfizio più che per necessità, ma pur sempre un oggetto utile e discreto.

Ne aveva passate di tutti i colori. Rimasto per anni sul fondo di una sacca ad aspettare che la batteria si scaricasse, era stato ritrovato da John mentre impacchettava – di nuovo – tutta la propria vita per ricominciarla altrove. Era appena stato congedato e lasciava l’ospedale militare di Kabul per tornare in Inghilterra.

Da lì in poi aveva affrontato con lui la terapia, la riabilitazione e le sedute dalla psicologa. Aveva avuto un coinquilino. E poi aveva visto pallottole, corse, nuotate nel Tamigi, bombe, tritolo, mani estranee, manette, armi da taglio e chissà cos’altro. Non si era mai fermato. Come John.

Poi, un giorno, John era stato investito da un ciclista.

E l’orologio si era fermato.

Ma John se ne era accorto solo dopo, quella stessa notte, quando seduto sul proprio letto ancora intatto aveva slacciato il cinturino con lo sguardo di una persona che ha perso tutto ma non se ne è ancora resa conto.

Il vetro incrinato, il cuoio rovinato, le lancette immobili a segnare un’ora che rappresentava il suo personale limbo, la sua finestra di possibilità perdute.

Qualche minuto dopo l’addio, qualche ora prima del nulla.

Quell’orologio, il dottor Watson non lo aveva tolto mai più. Non lo aveva fatto riparare. Non lo aveva chiuso in un cassetto a prendere polvere. Lo portava sempre al polso, come se niente fosse successo, fingendo che niente fosse successo. Guardava l’ora, di tanto in tanto, sapendo di non poterla vedere ma non era quella l’ora che voleva scorgere attraverso l’incrinatura del vetrino, non era l’ora corrente che vedeva realmente.

Una scheggia di tempo congelata in un battito di cuore, in un tonfo sordo sull’asfalto.

Quello  era il tempo che vedeva.

Dandosi dello stupido per essere così sentimentale e pretendendo al contempo di voler dimenticare ogni cosa, continuava però ogni mattina a legarsi quell’orologio stretto al polso.

 

La vita di John era diventata una routine; una di quelle abituali e monotone, che aveva assunto per dare agli altri – e a se stesso – l’idea che tutto continuasse normalmente.

Ogni mattina scendeva in strada di buon’ora e andava a comprare il giornale. Non dormiva mai oltre le sei e stare in casa da solo non era una buona idea (evitare di pensare era essenziale).

Camminava fino all’angolo, attraversava la strada ed entrava nella piccola edicola gestita dal pakistano. Ormai si conoscevano, anche se John non era sicuro che si fossero effettivamente presentati, dato che non si ricordava il nome.

Si salutavano, facevano due chiacchiere sul tempo, John pagava ed usciva.

Si fermava da Starbucks per un caffè (aveva smesso di bere tè). La cassiera del turno di mattina si chiamava Therese ed erano usciti insieme un paio di volte. Nessun rancore, quelle due notti erano state belle, ma poi entrambi avevano capito che non era il caso (John credeva fosse stata colpa sua, ma non si era soffermato molto sulla questione). Erano rimasti amici. Lei lo chiamava “Johnny”. John odiava quel nomignolo per ovvi motivi, ma non lo dava a vedere (lei non lo faceva apposta, lei non sapeva, non prendertela con lei solo per il gusto di farlo, John Hamish Watson).

Uscito da Starbucks con il suo caffè, prendeva la metro e si dirigeva al lavoro. Cinque fermate.

Aveva trovato un posto come medico in una clinica privata a Marble Arch, praticamente frequentata solo da gente ricca sfondata che per un’unghia rotta temeva di avere il cancro. La maggior parte delle volte finiva per curare cirrosi epatiche o ragazzini talmente strafatti da essere ad un passo dall’overdose, ma lo stipendio era buono e gli assurdi problemi delle vite degli altri lo tenevano lontano da quelli della sua.

Lavorava dalle nove alle dodici, poi dalle quattordici alle diciassette. Di solito faceva direttamente dalle nove alle diciassette. Tutte le volte che poteva, entrava un’ora prima ed usciva un’ora dopo, saltando il pranzo. Non aveva fatto amicizia con nessuno e mai nella sua carriera le cartelle dei suoi pazienti erano state così complete, precise ed ordinate (in ordine alfabetico e per scaffali).

Uscito dalla clinica passava da Tesco per la spesa, buttandosi sui cibi precotti. Oppure su quelli surgelati. A volte si fermava in un fish&chips ad una fermata prima della sua, altre volte proseguiva lungo il percorso e si fermava in una pizzeria due fermate dopo. Solitamente lo faceva con uno schema logico preciso: lunedì, mercoledì, venerdì e sabato Tesco, martedì fish&chips, giovedì pizza.

Tornato a casa, faceva il bagno ed accendeva il televisore, immergendosi anima e corpo in qualsiasi cosa trovasse.

Serie tv, film, documentari. Era esperto del palinsesto di ogni canale e ci metteva pochissimo a trovare ciò che desiderava. Non guardava mai polizieschi o film di guerra, né film incentrati sul suicidio di qualcuno, o che finivano con il suicidio di qualcuno, o che contenevano il suicidio di qualcuno. Leggeva le trame su Internet prima di guardarli, per essere sicuro.

A volte Lestrade lo invitava fuori per una birra, Harry lo chiamava a casa sua o la signora Hudson lo invitava a cena. Accettava meno della metà delle volte e solo quando aveva il giorno libero o se era domenica. Erano modi per occupare una giornata non lavorativa, dunque libera da impegni. Aveva cominciato ad odiare le giornate libere.

Dormiva poco. Temeva il suo mondo onirico, l’incapacità di controllare la propria mente durante il sonno. Per tutto il primo mese, pensando di aver bisogno di riposo, andava a dormire presto ma era l’inferno; incubi continui, palpitazioni, attacchi di panico. Aveva ben presto deciso di smettere di andare dall’analista e di cercare il sonno per sfinimento: stare sveglio ad oltranza finché il cervello non fosse stato così stanco da non avere nemmeno la forza di sognare. Funzionava.

E poi, con il suono della sveglia, si ricominciava tutto da capo.

 

Fu proprio in una di quelle mattine che qualcosa mutò.

Non fu un cambiamento drastico. Avvenne per gradi e portava con sé la sensazione che in realtà non stesse proprio succedendo niente. Dalla caduta erano passati circa quattordici mesi (si sforzava di non tenere il conto, ma finiva per farlo comunque. E poi erano passati giusto due mesi dall’anniversario, trascorso al cimitero, era difficile non ricordarselo).

Quella mattina si era svegliato con una sensazione strana, diversa. Era tranquillo. Troppo riposato. Anche se non sognava – o meglio, non si ricordava cos’avesse sognato – di solito era costretto a cercare una via d’uscita da un groviglio di lenzuola. Quella mattina non ne ebbe bisogno, il letto era integro. Aveva dormito bene.

La novità lo lasciò stranito.

Si alzò, si lavò, si vestì e uscì di casa, intenzionato come al solito ad andare a prendere il giornale. Era giovedì.

Davanti al suo portone però, mentre chiudeva a chiave, un’ombra attirò la sua attenzione, riflessa sul batacchio in oro. Difficile non farlo la mattina alle sei, quando le strade sono per lo più ancora deserte. Tanto più che gli sembrava dannatamente vicina.

Un colletto, pelle pallida, un guizzo azzurro chiaro. Si voltò di scatto ma dietro di lui non c’era nessuno, solo la strada semi-deserta dell’alba.

Scosse la testa e prese a camminare, deciso a lasciar perdere quell’evento. Probabilmente aveva dormito peggio di quello che in realtà gli era sembrato.

Entrato dal pakistano prese la sua solita copia dell’Indipendent, poggiando sul bancone sia quella che le monete contate. Come al solito il proprietario lo salutò con un sorriso (al quale John rispose al meglio che poté, stirando appena le labbra). Dallo schermo delle telecamere di sorveglianza, John notò una persona aggirarsi fra gli scaffali dietro di lui.

Un cappotto, capelli ricci. Si girò di scatto ma, come prima, non c’era nessuno. Tornò a guardare lo schermo ma anche quello gli restituiva l’immagine di corridoi vuoti.

« Tutto a posto? » domandò il giornalaio, porgendogli lo scontrino.

« Sì... sì, mi sembrava di avere visto... nulla, lasciamo stare » ringraziò ed uscì.

La stessa cosa successe alla fermata della metropolitana. L’orario pendolare per eccellenza si stava avvicinando e le banchine cominciavano a riempirsi di gente. Il treno in arrivo accolse sia lui che tutti gli altri che attendevano pazientemente, e mentre entrava nel vagone con la coda dell’occhio percepì la scia di una presenza famigliare all’entrata del convoglio affianco.

Lo svolazzare di un cappotto, il colletto viola di una camicia. John non poté esimersi dall’entrare nel vagone, spinto dalla gente, ma quello che evitò di fare fu di sporgersi a guardare. Era troppo adulto per vivere d’illusioni, e mai come in quei mesi aveva fatto suo il detto “beata ignoranza”. Su certe cose preferiva sbagliarsi.

La giornata passò tranquillamente al lavoro ed era ormai talmente abituato a saltare il pranzo che i morsi della fame non si facevano nemmeno sentire. Si concedeva solo un caffè prima di riprendere il turno e fu proprio mentre si dirigeva alla macchinetta nel corridoio che i suoi occhi catturarono un altro spettro, un altro tassello di un puzzle trasparente.

In piedi in mezzo alle persone in attesa davanti all’entrata, lo sguardo di ghiaccio di un volto longilineo. Solo un attimo, un istante, perché quando John si voltò del tutto verso la porta a vetri, era già sparito.

Se l’era sentito addosso, questa volta, eppure ancora scosse il capo e sbuffò spazientito. Colpa del sonno, della caffeina, dell’ossessione, del tempo, della terapia, di qualunque cosa. Sempre colpa altrui. Era meglio del pensiero di averlo visto davvero.

Non era semplicemente possibile.

Come ogni giovedì John saltò la sua fermata, scendendo due stazioni dopo di essa e dirigendosi a passo svelto verso la pizzeria. Salutò con un cenno del capo il proprietario – italiano – ed ordinò una pizza ai peperoni, sedendosi ad uno dei pochi tavolini rotondi davanti al negozio.

Attese con pazienza che la pizza fosse pronta, concentrandosi a guardare la gente che passava in fretta per la strada. Dall’altra parte un autobus si fermò vicino al marciapiede per far scendere i passeggeri.

Un'altra volta: riccioli neri, occhi chiari, labbra sottili. Uno sguardo da un posto dell’autobus in partenza. Scomparve insieme ad esso appena dopo l’incrocio.

John non si alzò, non lo seguì, non fece nulla. Era pura immaginazione, il cervello che aveva deciso di tormentarlo.

E poi, Sherlock Holmes non prende autobus.

Beh... prendeva.

 

Si era appena accomodato in poltrona, pronto alla sesta visione di “Il Miglio Verde”, quando il campanello suonò.

Col senno di poi, se John avesse saputo cos’avrebbe trovato oltre quella porta, probabilmente non l’avrebbe aperta. Sempre col senno di poi, a ripensarci, forse sì, avrebbe aperto lo stesso. Il Senno di Poi è sempre stato uno stronzo, in effetti, perché ti da l’illusione fallace di aver fatto sempre e comunque la scelta sbagliata quando, in realtà, non puoi proprio saperlo.

Percorse scalzo il breve tragitto che lo portava dal salotto alla porta, con i pantaloni del pigiama a solleticargli i piedi e la maglia a mezze maniche sotterrata sotto una giacca di lana marrone di dubbio gusto; non si prese il disturbo di guardare dallo spioncino (non erano molti quelli che lo cercavano di persona, non a quell’ora e soprattutto non fra settimana), presagendo che la vicina avesse di nuovo poche uova per preparare la cena (scusa che usava per parlare con lui una decina di minuti buoni, aveva notato. John era stato un esperto in queste tattiche di flirting, ovviamente le notava subito se messe in atto da altri e nel caso in oggetto non era interessato).

Ma quando aprì la porta, per un momento, un attimo intero, ogni organo del suo corpo si bloccò e si contorse.

Ciò che aveva intravisto durante tutto il giorno – sotto la porta di casa, dal giornalaio, in metro, in clinica, su un autobus – quei frammenti che aveva attribuito alla sua immaginazione, avevano improvvisamente assunto non solo senso, ma anche concretezza: capelli ricci e neri, occhi azzurri come ghiaccio, viso longilineo dai lineamenti particolari, camicia viola, cappotto nero.

Sherlock Holmes.

O il fantasma di Sherlock Holmes. Lo spirito inquieto di Sherlock Holmes. Il Sherlock Holmes morto e risorto.

Una persona che non sarebbe dovuta più esistere.

Aveva immaginato quel momento mille volte. Lo aveva dipinto per notti intere su di una vetrata sottile e fragile che giorno dopo giorno si era incrinata, finché non era andata in mille pezzi e lui si era inginocchiato a raccoglierli, tagliandosi le dita nel tentativo di rimettere insieme tutti i frammenti. Ma le sue lacrime avevano cancellato tutto il colore e, ad un certo punto, fra le sue mani c’era solo vetro e l’attimo che aveva voluto intrappolare – per goderne o farsi del male, non era lecito saperlo – era scomparso.

Sfumato, insieme alla speranza, dentro centinaia di toni di grigio.

Aveva giurato di abbracciarlo, di urlare, di picchiarlo a sangue, di ucciderlo di nuovo e definitivamente. Si era detto che gli avrebbe messo le mani al collo e avrebbe stretto forte fino a che le sue labbra sottili non fossero diventate viola, come la sua camicia, come i gelsomini di mrs. Hudson sulla sua tomba. Aveva pensato di imprecare. Spaccargli il naso e fargli sputare qualche dente, almeno uno, così che si sarebbe ricordato chi era John Watson. Si era detto di voler fare tante cose, di voler vomitargli addosso tutta la sua rabbia, di piangergli sulla spalla anche solo una piccola parte delle parole che non gli aveva mai detto e che si era reso conto di volergli dire (e come nelle migliori fiabe se ne era accorto troppo tardi). Aveva preso coscienza dell’amarezza che avrebbe comportato vederlo ancora vivo. Della sua totale e completa mancanza di fiducia. Si era reso conto che avrebbe significato una cosa sola: ovvero che Sherlock lo aveva lasciato indietro e lui aveva patito una sofferenza immeritata per l’anima del cazzo. A quel punto, la rabbia era talmente grande che si mescolava con la tristezza e gli provocava la nausea.

Poi tornava alla realtà. Si diceva che era impossibile. Che non sarebbe mai successo. E il mondo sembrava sempre un po’ più vuoto.

 

Finché non era successo davvero, e adesso il mondo era assordante. Il cuore gli rimbombava nelle orecchie, i muscoli erano tesi e pronti a fare una qualsiasi delle cose che John aveva immaginato di fare e si era trovato a pensare di voler mettere davvero in pratica. Rabbia, disperazione, tensione, tristezza, angoscia, sorpresa, paura, sollievo, ira: troppi sentimenti per un uomo solo; non respirava per timore che, se avesse preso fiato, sarebbe esploso.

Sherlock stava sulla porta e lo guardava, alto e affascinante come se non fosse nemmeno passato un anno, ma solo qualche ora, qualche minuto. Lo guardava come se si aspettasse lo spazio per entrare ed accomodarsi e John si sentì catapultato a Baker Street in una di quelle sere in cui si era detto che andava tutto bene.

Sentì una famigliarità che aveva perso e mai più ritrovato. Un senso di casa che si era buttato giù da un tetto, aveva sanguinato sull’asfalto e si era infiltrato per osmosi fra le crepe del marciapiede, scomparendo goccia dopo goccia.

Tutta la fatica che aveva fatto per estraniarsi dal dolore, per nasconderlo, per isolarlo, per costringerlo a lasciarlo in pace; tutta la farsa su cui aveva costruito la propria vita da allora, tutta la routine, la monotonia, il silenzio, il limbo... tutto crollato, spazzato via da una figura in piedi alla porta che non gli faceva nemmeno il favore di pronunciare una schifosissima parola che fosse una.

E lui, l’imbecille delle fiabe che muore sempre per primo, che lo stava a guardare. Quell’imbecille che era invidioso del primato rubatogli dal protagonista improvvisatosi Icaro senz’ali.

« Stronzo... » soffiò dalle labbra, improvvisamente a corto di voce (sentendosi come se non l’avesse mai usata, da un anno a quella parte).

« Posso entr– »

« No, taci » lo interruppe John, alzando una mano leggermente tremante di rabbia e tensione: « cuciti la bocca perché giuro che ti prendo a calci in culo finché non ti pentirai d’essere venuto al mondo ».

« Arrivi tardi » rispose Sherlock.

John sbatté violentemente la mano sinistra sull’anta della porta, provocando un botto profondo che rimbombò poderoso sulle scale del condominio: « ho detto “taci” » ribadì.

Sherlock chiuse la bocca senza più fiatare, ma continuò a guardarlo. Dritto negli occhi. John sentiva la necessità di doversi staccare da quello sguardo prima che riuscisse a minare qualsiasi sua difesa ma non aveva la minima intenzione di distoglierlo per primo.

« T-Tu... » cominciò allora, schiarendosi la gola quando sentì la propria voce tremare: « ...tu sei morto ».

« No, non lo sono ».

« In quale lingua devo dirti di stare zitto?! » sbottò. Dal piano superiore, poté sentire una delle altre porte dello stabile aprirsi.

Con un profondo respiro si spostò dalla porta, facendo entrare Sherlock e chiudendosela alle spalle. Quando infine furono fra le quattro mura di quel piccolo appartamento – non tutto ciò che poteva permettersi ma tutto ciò di cui aveva effettivamente bisogno – tutto il rancore e l’orgoglio sanguinante del dottor Watson esplose nelle sue vene come un torrente in piena.

Il pugno scattò senza che lui potesse controllarlo e colpì il volto di Sherlock. Un “crack” inquietante gli diede conferma di avergli rotto il naso, che subito cominciò a sanguinare copiosamente, ma nonostante la consapevolezza di avergli fatto seriamente del male il prurito alle mani continuava. Lo colpì ancora. E ancora. Sherlock era con la schiena contro il muro e lui lo stava picchiando a sangue, mirando sempre al viso. A volte il detective si scansava e le nocche di John cozzavano contro la parete. Sentì dolore, molto. Quasi quanto Sherlock, forse. Ma mai come quello che aveva provato per un anno intero, mai forte come quello, mai distruttivo come quello, mai temuto come quello. Il dolore della carne prima o poi scompare, il dolore dell’anima è una bestia che ti divora le viscere un pezzo alla volta e non smette mai, mai, mai.

Fu solo quando a Sherlock sfuggì un gemito di dolore che John riprese il controllo delle proprie braccia, fermandosi. Il volto del detective era rigato di sangue e subito un’altra immagine simile gli si proiettò violenta nella mente, un immagine di un anno prima, facendolo sussultare con il fiato corto. Non fu più in grado di colpirlo, ma alle mani sostituì la voce.

E urlò. Tanto, molto a lungo. Ore ed ore passate in piedi all’ingresso, Sherlock seduto a terra che lo guardava mentre il volto gli si gonfiava per le botte subite in silenzio ed il sangue macchiava il colletto della camicia viola; un tempo infinito passato a rinfacciargli ogni secondo di quell’intero anno passato nell’angoscia e nel senso di colpa, nella tristezza e nell’inutilità, minuti di una vita che aveva dovuto ricostruire da capo senza avere niente con cui gettarne le fondamenta, ore di quella vita che era stato costretto a lasciarsi alle spalle per non rimanerne intrappolato e dimenticarsi come si vive.

Incapace di perdonarlo così com’era incapace di lasciarlo andare.

Fu solo quando le prime luci dell’alba entrarono fioche dalle finestra della sala, che John smise di gridare. Aveva continuato ad insultarlo anche quando la propria voce era divenuta roca dallo sforzo, persino quando l’aveva persa del tutto e non era riuscito a far altro che soffiare insulti ed imprecazioni nel silenzio di Sherlock, che lo era stato a sentire sempre, senza mai parlare.

Infine, quando anche il fiato aveva cominciato a latitare, John si era addossato al muro di fronte a quello a cui era appoggiato Sherlock e si era fatto scivolare a terra, esausto. Quindi, seduti l’uno di fronte all’altro, John sostituì alla voce le lacrime.

E pianse. Poco, come un soldato. Una mano davanti agli occhi e ansiti profondi e corti.

Solo allora Sherlock osò avvicinarglisi. Come se dovesse appoggiare la mano sulla testa di una tigre confusa e chiusa in una gabbia, dove l’unica possibilità che ha è quella di alzarsi e girare in tondo osservando la libertà fuori dalle sbarre.

Gli si avvicinò carponi, e con calcolata lentezza gli appoggiò una mano sul ginocchio piegato.

Poi parlò, e la sua voce sciolse quel blocco di cemento che John aveva avuto sullo stomaco da quando lo aveva visto buttarsi dal tetto del Barts.

« Se continui così andrai in iperventilazione » disse solamente, stringendogli il ginocchio con la mano.

La sua voce, quella voce, John se l’era voluta dimenticare. Per non sentirla continuamente dirgli addio. Ora che la ritrovava però, più vera e sua che mai, toccava corde dentro il suo petto, sotto lo sterno, rimaste silenti per mesi e mesi.

Si ritrovò ad implorarlo con il pensiero di dire il suo nome, almeno una volta, solo una volta. Se lo avesse pronunciato, allora avrebbe potuto avere un motivo per alzare gli occhi e rendersi conto che era reale.

« John, calmati adesso » disse ancora Sherlock.

Il dottor Watson sorrise, nascosto nelle proprie mani.

 

Chiamò la clinica verso le sei e trenta del mattino, chiedendo un giorno di permesso. La segretaria che rispose al telefono fu fin troppo felice di darglielo, dato che da quando aveva cominciato a lavorare per loro era sempre il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene.

« Allora è umano anche lei, dottor Watson! » aveva ironizzato la donna dall’altro lato della cornetta, e per la prima volta da molto tempo John aveva avuto anche il coraggio di sollevare gli angoli della bocca in un mezzo sorriso.

Non si ricordava l’ultima volta in cui aveva sorriso davvero. L’aveva accantonata insieme a tutti gli altri ricordi legati alla persona che ora era seduta sul divano con il volto rivolto al soffitto e una borsa del ghiaccio sul naso.

Attaccò il telefono con un saluto di circostanza e, tornando verso il salotto, si sedette sul tavolino davanti al divano. « Va bene, fammi vedere... » sibilò, la voce ancora in sciopero e la gola in fiamme per lo sforzo.

Sherlock, abbassando il viso, si tolse lentamente il ghiaccio. Era... viola, John non avrebbe potuto definirlo meglio. Molto in pendant con la camicia.

Il sopracciglio e la palpebra destri si erano gonfiati ed il livido era emerso sulla pelle chiara del detective, diventando di un violaceo bordato di giallo. L’occhio stesso era aperto solo a metà, a causa del gonfiore, e l’unica cosa che John poté fare fu guidare la mano di Sherlock e riposizionare la borsa del ghiaccio su quella parte. « Tienila lì » disse, dedicandosi poi alla zona più massacrata del volto: il naso.

Era rotto, ma per lo meno il setto nasale non era deviato – oppure lo era stato, ma con uno dei pugni successivi glielo aveva raddrizzato di nuovo... molto probabile. Vi era un taglio sanguinante sulla parte superiore e strie di sangue ormai secche si allungavano come ragnatele sulle labbra sottili ed arcuate, scendendo fino al mento e al collo.

John deglutì, afferrando un asciugamano imbevuto di disinfettante e cominciando a pulirlo delicatamente, attento a procurargli il minor dolore possibile nonostante sapesse per mestiere che avrebbe fatto male comunque.

« Sei un’idiota » gli disse – sussurrò data la mancanza di voce – mentre cominciava a ripulirgli e a disinfettare il taglio sul dorso del naso e le parti laterali dello stesso.

Sherlock lo guardò. « Perché? » gli chiese, la voce nasale e la bocca socchiusa per riuscire a respirare.

« Perché solo gli idioti si fanno prendere a pugni senza reagire » rispose subito Watson, passando delicatamente a pulire le narici e la parte superiore delle labbra.

« Credo di essermelo... beh... » una pausa, Sherlock si schiarì la gola: « ...meritato » ammise.

Il dottore sapeva, lo sapeva da sempre, che quello era il massimo grado di scuse a cui Holmes era capace di dare voce. Tornare a saperlo era qualcosa di straordinario, in quel momento, in cui una notte insonne si mescolava con una rabbia martellante ricoperta da un grosso strato di sollievo e la stanchezza tipica di qualcuno che ha vissuto troppa vita in qualche ora, troppe emozioni per una sola notte. Ma era meraviglioso e Sherlock era davanti a lui, gonfio e viola e con il naso rotto, e nonostante tutto gli sembrava la cosa più bella e più perfetta sui cui avrebbe potuto mai posare gli occhi.

Cercò di trattenersi, ma le labbra cominciarono a tremargli e il suo autocontrollo era ormai inesistente, troppo provato dalla nottata appena trascorsa. Mentre passava a ripulire il mento ed il labbro inferiore di Sherlock, morse il proprio cercando di trattenersi.

Sherlock, che non aveva mai smesso di guardarlo, non si scompose. « John » chiamò.

« Silenzio » esalò John.

Scoprire di dover buttare via quattordici mesi d’inferno quando pensavi che quell’inferno fosse tutto ciò che ti fosse rimasto della cosiddetta vita era terribilmente debilitante.

« John... » ripeté il detective, osservandolo con un paio d’occhi azzurri provati dalla stanchezza.

Come aveva fatto a dimenticarseli, come? Perché aveva voluto dimenticarseli? Avrebbe passato anni a soffrire di propria volontà per il solo fantasma di quegli occhi. Era stato uno sciocco a volerli cancellare dalla memoria e uno sciocco ancora più grande quando aveva fatto finta di poterci davvero riuscire.

« Sherlock, sta zitto... » soffiò di nuovo John.

« John... » Sherlock lo ignorò: « ...non credo ci sia bisogno di piangere » disse.

Con silenziose lacrime che scivolavano piano sulle proprie gote, il medico terminò di pulire il pasticcio di sangue sul viso dell’altro. « So io di cos’ho bisogno » disse semplicemente, deglutendo grumi di lacrime ed angoscia.

 

Sherlock dormiva sdraiato sul divano, fin troppo corto per lui. Dormiva con le gambe piegate e le mani sotto al cuscino. Aveva una fasciatura di cerotto bianco su tutto il naso che arrivava fino agli zigomi. La faccia gonfia e livida era molto simile ad un quadro di Picasso.

John, seduto sulla poltrona dall’altro lato del piccolo e spoglio salotto, semplicemente lo guardava. Aveva mal di gola, l’emicrania, gli occhi gonfi e lucidi di sonno e di lacrime ed una spossatezza che se la sentiva persino nelle ossa. Era arrabbiato, furioso, addirittura inviperito. Provava a tratti la voglia di strozzarlo nel sonno e a tratti quella di appoggiare l’orecchio al suo costato e ascoltare il battito del suo cuore. Momenti in cui avrebbe davvero voluto che se ne andasse senza più tornare e altri in cui pensava di chiuderlo a chiave in quell’appartamento per il resto dei loro giorni. Pensieri contrastanti in cui lui era prima carnefice poi amante, ma sempre e comunque vittima.

Tutto quello che effettivamente fece, fu restare a guardarlo dormire.

 

Sherlock gli aveva spiegato che non doveva farsi vedere in giro.

Il concetto era semplice: aveva finto la propria morte per poter distruggere la rete di contatti che Moriarty teneva con i propri clienti, persone che di certo non erano né innocue né tendenti a dimenticare i torti subiti. A quanto pare, suicidandosi Moriarty aveva fatto loro torto, e se si fosse venuto a sapere che Sherlock in realtà era vivo e vegeto, la prima cosa che essi avrebbero fatto sarebbe stata quella di vendicarsi sulle persone che effettivamente non avevano ucciso quattordici mesi prima (lui, mrs. Hudson, Lestrade).

Gli aveva anche rivelato di essere stato in giro per l’Europa la maggior parte del tempo, lavorando ai casi che suo fratello gli passava. In cambio, Mycroft stava pian piano ristabilendo la sua immagine prima nell’opinione pubblica, poi per essere effettivamente prosciolto da ogni accusa ricaduta su di lui. John non aveva potuto avere riscontro del lento e minuzioso lavoro del maggiore degli Holmes perché, anche se era assiduo lettore dei quotidiani, saltava a piè pari ogni articolo che parlava di Sherlock Holmes, sia in positivo che in negativo. Sherlock non parve lamentarsene.

Solo una volta ristabilita la sua immagine e depennato interamente il network di cui Moriarty era il fulcro, sarebbe potuto ritornare ad indossare i suoi panni e riprendere la vita da dove l’aveva interrotta.

Tentò anche di spiegargli come aveva finto la propria morte – con quel tono leggermente eccitato del bambino che vuole impressionare l’adulto e sa che ci riuscirà – ma John lo fermò sul nascere, una mano alzata e gli occhi socchiusi. Troppa carne sul fuoco, troppe emozioni per un lasso di tempo così breve. Non si sentiva pronto a rivivere quel giorno, soprattutto perché aveva appena dovuto prendere la sua anima per rivoltarla come un calzino, cercando fra le pieghe il vero John Watson e tutto ciò che era stato; aveva dovuto riaprire quello stanzino nell’angolo buio della sua mente in cui aveva stipato tutti i ricordi del migliore amico, in una scatola di cartone su cui aveva velocemente scritto a pennarello “ricordi di Sherlock”, tirandoli fuori uno ad uno e spolverandoli con cura.

Holmes sembrò contrariato, ma rispettò il suo volere. Per vendetta – o forse no – quando John gli chiese il perché fosse tornato nonostante non fosse tutto sistemato con il “mondo”, Sherlock distolse lo sguardo e non volle rispondergli.

Il pensiero che potesse averlo fatto per lui attraversò la mente di John per un attimo sufficiente a farlo crogiolare in quel famigliare calore che pesava di aver perduto per sempre.

 

La situazione era ulteriormente semplificabile: Sherlock non poteva uscire da quell’appartamento. Aveva disubbidito agli ordini tassativi di suo fratello maggiore solo andando lì, ed il conseguente compromesso fu che restasse a vivere con John facendo finta di non esistere. Cosa che non gli era uscita male, negli ultimi tempi, pensò John, ma non si poteva mai dire.

L’appartamento era piccolo e aveva una sola camera da letto, ma dato che per Sherlock la notte era una miniera d’oro essa non rappresentava un vero problema. E comunque John aveva la ferma intenzione di vendicarsi pian piano, nelle piccole cose quotidiane, e farlo dormire sul divano finché non fossero stati liberi di tornare a Baker Street gli sembrava un buon inizio.

Ovviamente, la vita di John agli occhi degli altri doveva continuare come se non ci fosse stato nessun mutamento. Doveva andare al lavoro e fare esattamente quello che faceva ogni sacrosanto giorno della settimana. Comprese le saltuarie uscite con Lestrade e qualche ragazza. Per quel particolare, John disse con fermezza che si sarebbe arrangiato da solo, grazie Sherlock.

Così, la mattina dopo si alzò per andare al lavoro. Sherlock era raggomitolato sul divano in una posizione che John avrebbe definito francamente impossibile, stordito dalla dose massiccia di antidolorifici che era costretto a prendere a causa del dolore al naso. Dormiva. Decise di non svegliarlo ed uscì in punta di piedi.

Arrivato dal giornalaio all’angolo, allo stesso orario di sempre, prese la sua solita copia dell’Indipendent e pagò con i soldi contati. Al momento di dargli lo scontrino, il gentile pakistano lo osservò accigliato.

« Le è successo qualcosa, signore? » domandò.

Per un attimo il cuore di John sobbalzò, ma il suo buon senso ebbe la meglio sul principio di panico: « no, non credo proprio. Perché? ».

« Non lo so, stamane sembra più... rilassato. Allegro, forse » gli disse con un sorriso sincero.

Sorriso a cui John rispose con uno stirarsi di labbra ed un cenno di saluto.

Si rese conto che la propria espressione distesa sarebbe stata l’unica cosa che non sarebbe riuscito a dissimulare.

 

 

Mi annoio. – SH

Io no. Sto lavorando. – J

Dov’è tutta la mia roba? – SH

Dove l’hai lasciata. A Baker Street. – J

Puoi passare a prenderla? – SH

...Va bene. Ti serve altro? – J

Latte. – SH

John? – SH

Cosa? – J

Mi annoio. – SH

 

 

Quando bussò alla porta del 221B – aveva giustamente restituito le chiavi quando si era trasferito a Camden Town – la signora Hudson lo accolse con un sorriso felice, gettandogli le braccia al collo ancora prima di pronunciare il suo solito “John caro”. Riconobbe nella donna quella punta di allegria forzata che tutti, bene o male, usavano con lui, ma questa volta non ne risentì. Intimamente, pensava di non averne più motivo.

Aveva studiato per tutto il giorno la scusa adatta che avrebbe giustificato il suo trovarsi in quel luogo, con quella richiesta. Le disse di essere pronto a fare un passo avanti, di non poter più reggere quella situazione di stasi in cui si trovava – era stato in cura da Ella talmente tanto che ormai aveva imparato a memoria quali fossero le parole giuste da usare per tranquillizzare la gente sulle proprie condizioni – e pensava che entrare in contatto con le cose di Sherlock lo avrebbe aiutato nel processo. Lo disse sorridendo, sforzandosi di farlo tristemente, e per fortuna la cara signora Hudson aveva lasciato il suo intuito femminile in cucina davanti alla televisione, visto che lo abbracciò di nuovo, commossa dalla sua buona volontà, e lo accompagnò al piano superiore.

John sapeva già cosa prendere – aveva pensato anche a quello.

Tutti i suoi condomini conoscevano più o meno chi era e le sue abitudini, e non avrebbe francamente potuto spiegare l’improvvisa passione per il violino (soprattutto se suonato in piena notte). Dunque non lo prese, nonostante la prima idea fosse ricaduta effettivamente su di esso. Prese però alcuni libri (quelli che sapeva Sherlock consultasse più spesso), il microscopio, alcuni materiali da laboratorio come beker e varie ampolle e il teschio. Almeno Sherlock avrebbe avuto qualcuno con cui parlare – rigorosamente a bassa voce – durante il giorno.

Fermò un taxi e, quando ebbe finito di caricare tutto, salutò la signora Hudson con un abbraccio e la promessa di rivedersi presto. John non sapeva se sarebbe tornato effettivamente presto o meno, ma non gli costava nulla cercare di farlo, anche solo per un tè con quella che poteva quasi definire come una seconda madre.

 

Sembrava di assistere al remake in chiave moderna del Diario di Anna Frank.

Era passata una settimana ed il tempo, contrariamente a quanto aveva fatto per i quattordici mesi precedenti, sembrava viaggiasse al triplo della velocità.

John faticava ancora ad abituarsi alla presenza di Sherlock; durante la notte si svegliava almeno due volte per controllare che il coinquilino fosse davvero lì, o non fosse sparito. Ogni volta l’altro era sveglio e gli lanciava qualche occhiata mista a sorrisetti sghembi, quelli del tipo “so cosa stai pensando, non ti preoccupare e torna a dormire” che parlavano praticamente da soli. Probabilmente non avrebbe smesso di farlo, ma scoprì che quella mezz’ora di sonno che perdeva in quell’attività di controllo notturno non lo disturbava affatto.

Il cucinino si era presto trasformato di nuovo nel laboratorio del piccolo chimico di Sherlock, con l’unica differenza che ora John gli imponeva almeno di riportarlo ad uno stato accettabile prima che lui tornasse a casa dal lavoro. Holmes aveva capito, quando John per ripicca gli aveva rovesciato tutti i beker – indistintamente – nel lavello, che non era il caso di discutere con una persona che era benissimo in grado di frantumarti il naso per la seconda volta solo per il gusto di “vederti soffrire come ho sofferto io, e ti assicuro che non sarà mai abbastanza” (testuali parole). Perciò, quando John rientrava dal lavoro, la cucina era discretamente abitabile, con tutta la roba chimica in un angolo del ripiano ed il tavolo sgombro per la cena.

 

Le uniche cose che notava, e che erano diverse da prima, erano quelle più insignificanti.

Sherlock non mangiava molto. Nemmeno prima lo faceva, ma solamente quando era impegnato in un caso; di solito, nei momenti di stacco fra un’indagine e l’altra, quando si sedevano a tavola per pranzare o cenare o fare colazione, l’appetito di Sherlock gli permetteva di cibarsi perlomeno sufficientemente. Ora era calato – mangiava veramente poco – ma nonostante tutte le parole di John in proposito la situazione non cambiò né nella settimana, e nemmeno per tutto il mese a venire. Alla fine, semplicemente, il dottore si arrese a mangiare anche ciò che Sherlock lasciava nel piatto, oppure a buttarlo via. Nonostante tutto Sherlock stava fisicamente bene e John poteva definirsi abbastanza soddisfatto.

 

Tornare alla loro solita intesa fu tutto un altro discorso.

Sherlock era praticamente sempre lo stesso, ma John si mostrava spesso e volentieri restio a fare qualunque cosa facessero prima. Guardare la TV spazzatura, leggere seduti sul divano o in poltrona, chiacchierare di fatti di cronaca e di vecchi casi. John odiava particolarmente proprio il parlare dei vecchi casi – beh, di casi in generale – perché ogni volta aveva un tonfo al cuore che non sapeva spiegarsi, ma che faceva male.

Il problema era che vedeva la situazione come qualcosa di transitorio, come qualcosa che non fosse destinato a durare. Glielo aveva detto Sherlock stesso (o almeno, il succo del discorso era sicuramente quello; ad un certo punto John aveva deciso di estrapolarne il senso principale e lasciar perdere i ricami linguistici del detective). E forse era vero.

Semplicemente non era più a suo agio. Si era ormai abituato a guardare la televisione da solo, a leggere da solo, a vivere da solo. Quando ti convinci che niente sarà come prima è difficile tornare sui propri passi, soprattutto quando la vecchia vita ti piomba addosso fra capo e collo e tu decidi bene di spaccargli letteralmente la faccia a suon di pugni. Semplicemente, certi ricordi facevano ancora fatica a riprendere posto dentro al suo petto, si dimenavano ancora fra una costola e l’altra indecisi sul da farsi, e dunque all’inizio si sentiva più a disagio che tranquillo. Era come dover ricominciare tutto da capo nonostante le basi solide su cui quell’amicizia era cresciuta; era come tornare alle prime volte in cui John guardava esterrefatto i sacchetti di plastica nel frigorifero chiedendosi se fossero davvero lingue umane e se quello dei pezzi di cadavere nel frigo fosse un suo fetish o una passione passeggera.

Col passare dei mesi, però, le cose fra loro migliorarono. Qualche pezzo del puzzle cominciò a tornare a posto e John ne sistemava uno nuovo ogni notte, quando chiudendo gli occhi riusciva a sentire Sherlock passeggiare in salotto, o sfogliare le pagine di un libro o di un trattato o di un giornale. Lasciava la porta della propria camera socchiusa per poter sentire esattamente quei rumori e addormentarsi, ora come mai nei mesi precedenti, tranquillo.

 

Nei tre mesi in cui Sherlock era tornato, John era andato a trovare la signora Hudson un paio di volte ed era uscito con Lestrade altre tre. Greg era l’unico che non usasse il compatimento come leva per dimostrare di essergli vicino, e di questo John gliene era immensamente grato.

Uscivano il sabato sera (sempre se Greg non aveva altri impegni), prendevano una birra e parlavano di rugby, sport che aveva sempre appassionato entrambi. Oppure l’ispettore gli raccontava degli ultimi gossip sentiti in centrale – anche se John sapeva che lui non era proprio tipo da voci di corridoio – e Watson, con la calma e la consapevolezza riguadagnate solo di recente, riusciva tranquillamente a riconoscere quelle attenzioni fra le righe che Greg gli riservava e che, per ovvi motivi di cecità emotiva ed empatica, non aveva mai riconosciuto prima.

Non parlavano mai di casi, vecchi o nuovi, e quando era John a chiedergli come andasse il lavoro l’altro rispondeva sempre “al solito, non c’è male”. Non parlavano mai di indagini, di film tristi, di Sherlock o di qualsiasi cosa gli si avvicinasse. John non gli aveva mai chiesto se vedeva ancora Mycroft, nonostante sapesse che i contatti fra l’ispettore ed il maggiore degli Holmes non si erano interrotti, e Greg gli faceva il favore di non parlarne di sua spontanea volontà.

Solo una sera, quando l’ispettore gli confidò di voler divorziare ufficialmente da Cecile (e per questo aveva bevuto un paio di pinte in più del solito), si lasciò andare in una sorta di ricordo. Uno solo.

« Sai, non riesco a togliermi l’urlo di quella bambina dalla testa » aveva detto, riferendosi al caso dei due fratelli rapiti che lui e Sherlock avevano risolto nel giro di un paio d’ore, e che era costato al detective i primi sospetti di quello che sarebbe diventato uno scandalo vero e proprio: « sono passati diciassette mesi e ancora penso che se avessi riconosciuto i segni... non lo so, magari avrei potuto metterlo in guardia. Proteggerlo. Fermarlo o... non lo so. Non lo so proprio... ma quell’urlo non mi da pace » gli disse.

Solo in quel momento John si rese conto di quanto in realtà fosse fortunato. Ebbe la consapevolezza che Sherlock non era mancato solo a lui, ma anche alle poche altre persone a cui era legato, in un modo o nell’altro, e tutti loro portavano dentro qualcosa di cui colpevolizzarsi. Lestrade non faceva differenza.

Per la prima volta, l’idea di stare mentendogli lo infastidì.

« Sono molte le cose per cui piangerci addosso, Greg. Basta solo trovare quella per cui lottare » gli rispose Watson, finendo in tre sorsate la propria birra.

Lestrade, con gli occhi lucidi e annebbiati dall’alcool, lo guardò con un sorrisetto. « Mi fa piacere che tu ti stia riprendendo, John... » biascicò.

Il medico stirò le labbra in un sorriso fine. Belle parole.

Peccato non ne fosse pienamente convinto. E nemmeno lui sapeva bene il perché.

 

A metà del quarto mese John andò ad un appuntamento con una ragazza che lavorava al Tesco.

Si chiamava Tess. Fluenti capelli rossi ed ondulati, occhi marroni, ballerina di danza moderna (per hobby).

Fu solo per una notte e John non ebbe bisogno di specificarglielo: anche lei voleva esattamente la stessa cosa.

Era da molto che John faceva l’amore con alcune donne solo per il puro soddisfacimento dei propri bisogni sessuali, oppure semplicemente per svuotare la mente da qualsiasi altra cosa. Era stato utile sia quando nella propria testa c’era solo l’immagine del volto di Sherlock rigato di sangue e con gli occhi spalancati fissi nel vuoto, sia quando si sentiva in colpa perché non sembrava più in grado di richiamare a sé quel momento.

Tuttavia, ora che Sherlock era tornato si ritrovò in un altro tipo di situazione, ed aveva un po’ la connotazione di un (in)desiderato impasse.

Pensava a Sherlock, ma Sherlock era vivo. Pensava a lui con affetto, e questo lo faceva anche prima. Pensò a lui nel letto di Tess con Tess e questo no, prima non lo aveva mai fatto.

Fu una notte molto confusionaria, fatta di momenti in cui i capelli rossi di lei diventavano corti boccoli neri e le sue iridi scure in realtà erano azzurre. Flash e frammenti di sogni o fantasie perdute chissà in quale anfratto della memoria, seppellite dal pudore e dalle proprie convinzioni. Diede la colpa al Cuba Libre bevuto in serata con Tess, in cui sembrava esserci solo del gran rhum con un lieve retrogusto di cola.

La reazione di Sherlock una volta rimesso piede in casa non lo aiutò molto.

Rientrò molto tardi, ma il fatto che Sherlock fosse sveglio non lo sorprese. Nemmeno che fosse seduto sul divano con le luci spente (non le accendeva finché John non tornava, sempre per dare l’idea che nell’appartamento non ci fosse nessuno). A lasciarlo davvero perplesso fu la discussione che intavolò non appena gli si presentò di fronte – e ovviamente lesse da come vestiva come fosse andata la serata.

« Solo una notte? » domandò, più retoricamente che altro, giusto per dare una nota acida al tono di voce (altrimenti non avrebbe “domandato retoricamente”, avrebbe affermato).

Ma John era troppo navigato per cadere nei suoi complicati giochini mentali, le cui regole erano note solo a Sherlock stesso. « Già » annuì.

« Ed è da molto che ti diletti con questo stile di vita consumistico? » stessa modalità di prima.

« Da qualche tempo » rispose vagamente John, non sentendosi in obbligo di fornire alcuna spiegazione circa le sue attività sessuali.

Sherlock rimase in silenzio per qualche istante, prima di riprendere: « direi da una decina di mesi » sentenziò, e questa volta non era una domanda, era una supposizione.

E John non aveva una pazienza infinita. « Sì, Sherlock, hai ragione, contento? » sbottò, abbandonandosi sulla poltrona ed accendendo la televisione a volume basso (data l’ora tarda): « ultimamente non mi sono sentito in vena di cercare relazioni stabili e durature, ma mi perdonerai se l’ultima che ho avuto è finita con te che ti butti da un tetto » gli rinfacciò, salvo sentire il proprio stomaco torcersi non appena pronunciate quelle parole.

Ammettere ciò che l’altro aveva fatto sarebbe stato come passare sale su di una ferita aperta, per lui. Sempre.

« Relazione, John? » gli rispose il detective, apertamente ironico.

Brutta, bruttissima scelta di parole. Ma Watson ebbe la prontezza mentale di trasformare il suo impellente imbarazzo in qualcosa di simile alla sufficienza: « esistono diversi tipi di relazione, Sherlock. Anche d’amicizia. O di fratellanza. Io credo che avessimo qualcosa di simile a quest’ultima, anche se mi sono ritrovato spesso a pensare che fossi l’unico dei due a ritenerla tale » si sfogò. Lungi da lui, in realtà, ma c’erano giorni in cui Sherlock era semplicemente troppo per i suoi nervi.

Anche quell’atmosfera era tipica di casa, in un qualche strano modo, però. Loro due che battibeccavano.

Gli era mancato il poterlo fare.

« Non eri l’unico dei due » ammise il detective con sincerità, osservandolo da sopra le dita incrociate delle mani, chinato in avanti e con i gomiti puntellati sulle proprie gambe.

John non si lasciò sopraffare, però: « allora si può sapere qual è il problema? Sono uscito con altre donne prima! » ed entrambi sapevano a cosa si riferiva con “prima”.

« Prima era la stessa più volte ».

« Ne ho comunque cambiate molte ».

« Cos’è, un vanto? ».

« Una constatazione, Sherlock ».

« Una stupida constatazione, John. Prima almeno ci provavi seriamente. Adesso sono solo scopate ».

Tralasciò cos’era sentire la parola “scopate” uscire dalla bocca di Sherlock Holmes. « Vorresti farmi credere che ti preoccupi della mia moralità? » domandò invece.

« Della tua sicurezza » ribatté subito l’altro, e via di nuovo.

« Sono sempre prudente, e non credo che questo sia affar tuo! ».

« Potrebbe essere anche affar mio ».

« E come, di grazia, potrebbe essere affar tuo?! » sbottò John.

Sherlock non rispose, continuando a guardarlo dritto negli occhi. C’era qualcosa in quello sguardo d’acquamarina liquida. Qualcosa di profondo che John non fu in grado di afferrare se non dopo qualche istante di ragionamento.

« Sei... geloso, Sherlock? » domandò allora, sollevando entrambe le sopracciglia in un’espressione a metà fra l’accigliato ed il sorpreso.

« Fatti una doccia, hai ancora il suo profumo addosso. Prada Candy. Semplicemente stomachevole. Te l’ha detto di avere un marito e come minimo due amanti fissi? No, certo che no. Probabilmente avresti cambiato idea sul finale della serata, data la tua moralità » borbottò, stendendosi sul divano e girandosi di schiena.

John rimase a guardarlo con la bocca semi-aperta per qualche minuto buono, con il solo sottofondo della televisione.

Tess fu l’ultima donna che vide da quel momento in poi.

 

Pian piano arrivò l’estate. Erano passati ormai otto mesi dal ritorno di Sherlock e ventidue dalla sua “morte”. John non sapeva esattamente perché continuasse a tenere il conto dopo tutto quel tempo, dopo che pian piano le cose sembravano essersi nuovamente assestate in un equilibrio stabile... continuava semplicemente a farlo. Sentiva come se quei numeri fossero parte della ricetta fondamentale di quella stabilità insperata.

Insieme al caldo arrivò anche il bisogno di sapere gli sviluppi di ciò che stava facendo Mycroft. Era da molto che Sherlock era tornato a Londra eppure ancora faceva quasi la stessa vita di Anna Frank.

I pochi aggiornamenti che arrivavano da Mycroft, sempre tramite sms sul nuovo cellulare di Sherlock (quello vecchio era in una busta negli archivi di Scotland Yard), erano lievemente migliori ogni volta. C’era sempre un passo in più, qualche metro guadagnato sulla strada che avrebbe riportato Sherlock alla normalità della vita di prima, una normalità che comprendeva il mondo al di fuori di quell’appartamento.

Finché una domenica, appena John tornò dalla sua visita mensile a mrs. Hudson (non aveva ancora smesso di porre qualsiasi evento su di una linea logica ben definita, come se avesse il bisogno intrinseco di riempire la casellina del calendario per sapere cosa l’avrebbe tenuto vivo il giorno dopo... rimpiangeva di non aver ancora abbandonato quel piccolo tic), trovò Mycroft tranquillamente seduto sul divano con Sherlock sulla poltrona a fissarlo storto. Non era esattamente una scena insolita, ma la normalità che portava con sé lo lasciò stordito.

Avrebbe continuato a perdere battiti di cuore ogni volta che la sua vita fosse scesa d’un metro in più nella vecchia routine? Sperava di no, o avrebbe rischiato l’infarto.

« Mycroft. È un piacere rivederti » disse, non sapendo se suonare ironico o acido. Non gli uscì un tono degno di nessuno dei due.

« John » salutò il maggiore degli Holmes: « mi fa piacere vederti in forma, mi erano arrivate informazioni non esattamente positive su di te, non molto tempo fa » insinuò, in quel modo liscio e quasi piacevole con cui incartava d’oro velate minacce di morte.

Sherlock gli lanciò un’occhiataccia, ma John ritrovò in fretta il modo migliore con cui affrontarlo: « sai com’è Mycroft, reagisco male alle menzogne » ribatté, decisamente meno velato dell’uomo.

Mycroft sogghignò, così come fece Sherlock, solo con due significati completamente diversi.

« A cosa dobbiamo l’onore della visita? » chiese, sedendosi sul bracciolo della poltrona senza nemmeno pensarci; a Sherlock sembrò non dispiacere affatto.

Gli occhi di Mycroft si assottigliarono in uno sguardo compiaciuto, a cui Sherlock rispose con un’infinitesimale alzata di sopracciglio, come a sfidarlo a commentare qualsiasi cosa. John non si perse né lo scambio d’occhiate, né evitò di coglierne il significato nascosto, ma per la prima volta da molto tempo non gliene importò nulla di cosa potesse pensare su loro due. Non si era dimenticato di chi era stato il primo errore, in primis, e soprattutto provava una sorta di sensazione simile all’appartenenza nei confronti di Sherlock, ora che il fratello maggiore era presente. Non volle nemmeno pensare a cosa significasse, o almeno non in quel momento.

« Sono semplicemente venuto a vedere come ve la cavate, e a comunicarvi che tutte le esche lanciate in favore della riabilitazione di Sherlock agli occhi dell’opinione pubblica stanno dando i frutti sperati. La polizia sembra più difficile da convincere, ma posso dire con sicurezza che l’ispettore Lestrade contribuirà come può » disse.

Il moto di gratitudine che John ebbe per Greg crebbe a dismisura.

« Quando potrò uscire da questa prigione? » chiese però Sherlock, arrivando subito al punto che gli interessava. Probabilmente sapeva già i dettagli del piano messo in moto dal fratello, dunque il sentire che andava tutto bene non era un’informazione utile.

« Temo che dovrai essere paziente ancora per un po’ » gli rispose Mycroft: « a meno che tu non ti senta così male da non poterlo sopportare, in quel caso sai benissimo che casa nostra è disponibile » insinuò.

« Sto benissimo » rispose Sherlock piccato, non aggiungendo altro.

« Lo spero. Dopo tutte le volte che mi hai ripetuto di voler venire qui, esaurendo buona parte della mia pazienza, mi sembra il minimo » disse, alzandosi dal divano prima di poter vedere la terza occhiataccia che Sherlock gli lanciò nel giro di dieci minuti.

Si salutarono e, con la solita eleganza che lo caratterizzava, Mycroft lasciò l’appartamento. John, chiudendogli la porta alle spalle, sogghignò in direzione di Holmes. « Volevi venire qui così tanto? » domandò ironicamente.

Ma Sherlock non rispose, limitandosi ad annuire con le mani unite e le dita appoggiate sulle labbra.

 

John era bravissimo a prendersi in giro. Aveva mentito a se stesso dicendo di stare bene talmente tante volte nella sua vita, che ormai imporsi bugie convenzionate era facile quanto respirare.

Per questo motivo, all’apparenza, i pensieri che occasionalmente aveva su Sherlock non si erano ancora trasformati in una consapevolezza vera e propria. Continuava a dirsi che era normale, dopo averlo perso per sempre per quattordici mesi, provare nei suoi confronti una sorta di senso di proprietà; così come doveva essere normale, secondo la sua opinione, il continuare imperterrito a svegliarsi di notte per vedere se era ancora lì, il guardarlo ogni dieci minuti chissà poi per quale motivo, il tornare a casa a passo svelto ogni sera per stare in sua compagnia qualche minuto in più.

Poteva, dopotutto, essere una reazione normale dopo il trauma subito, trauma che non aveva dovuto superare perché si era risolto prima che lui arrivasse a quella fase – anche se non ci sarebbe mai arrivato, ne era tragicamente consapevole.

Sherlock non diceva niente di quel suo comportamento, anche se John era convinto che lo avesse notato. Sherlock Holmes capiva dov’eri andato a pranzo da una briciola incastrata nel polsino della camicia, personalmente riteneva impossibile che non avesse notato la sua ansia tutte le volte che non lo vedeva in giro o non lo aveva intorno.

Una notte, durante la quale John non chiuse occhio (e quando riuscì a farlo dormì male), si svegliò alle tre e mezzo del mattino ancora più stanco di quando si era coricato. Era comunque l’orario in cui di solito si alzava dal letto per sbirciare in salotto, così si scostò il lenzuolo dalle gambe nude – dormiva in maglietta e pantaloncini – e camminò silenziosamente fino alla camera adiacente.

La stanza era al buio e Sherlock era steso sul divano, a prima vista addormentato. Watson rimase a guardarlo per qualche istante, forse un paio di minuti, prima di annuire con un cenno e voltarsi per tornare in camera.

Fu la voce del detective a fermarlo. « Sono quasi nove mesi » disse, il tono calmo e decisamente sveglio.

« Da quando sei tornato? » rispose John con una domanda, girandosi a guardare la sua sagoma nel buio.

« Anche. Ma sono quasi nove mesi chi ti alzi la notte per controllare che io ci sia ancora » specificò.

Il dottore sospirò una risata. « Credo che non mi si possa biasimare troppo, no? » gli rispose. Stavano parlando a voce bassissima nonostante ci fossero solamente loro due all’interno dell’appartamento, come se portassero rispetto alla notte stessa.

Sherlock si mise seduto, puntando gli occhi sui suoi. « Non ti sembra di esagerare? » gli chiese, senza tuttavia usare il solito tono supponente. Era più una voce morbida, pacifica, come quelle rare volte in cui semplicemente chiacchieravano del più e del meno, senza bisogno di dimostrazioni d’intelligenza o di giochi del tipo “vediamo se hai imparato ad applicare bene il mio metodo d’osservazione”.

John piegò le labbra in un sorriso mesto, stringendosi nelle spalle: « credo che ognuno abbia i suoi tempi per elaborare un cambiamento, Sherlock » gli rispose.

« Ma tu non stai elaborando un cambiamento » cominciò subito l’altro: « il cambiamento tu l’hai vissuto prima. Questo dovrebbe essere un ritorno a qualcosa che hai già vissuto, non una modifica sostanziale della tua vita » ipotizzò.

John, di tutta risposta, sospirò. « Sherlock, io ero arrivato ad un punto in cui tutto quello che eravamo, tutto quello che avevamo... l’avevo dato per perso. E non ero pronto ad affrontarlo. Ma me lo ero imposto, perché continuare a sperare che il tuo migliore amico ti compaia alla porta quando lo hai visto buttarsi da un tetto è sinceramente da stupidi. E da illusi ».

« Però è successo » obiettò Sherlock.

« È successo perché come al solito mi hai usato » ribatté John.

« Sai come si dice. “Devi ingannare gli amici per ingannare i nemici” ».

« Sì... ma nessuno pensa mai agli amici ingannati, chissà perché ».

Calò il silenzio fra loro. Qualche istante in cui Sherlock non smise mai di guardarlo ed in cui, ad un certo punto, fu Watson a spostare lo sguardo dai suoi occhi.

Avevano evitato fin troppo quel discorso, passando più di otto mesi facendo finta che andasse davvero tutto bene, o che nella loro nuova vita da coinquilini non ci fosse quella macchia nera da cui il passato continuava a tenere la mano verso di loro. Era troppo pretendere che John ritrovasse la tranquillità perduta quando per poco più di un anno la sua vita era stata un continuo ripetersi insensato di ore e giorni e settimane e mesi. Qualcosa da numerare, momenti da ripetere, parole da riutilizzare.

Persone da dimenticare.

Senza chiedersi nulla si avvicinò al divano, sedendosi per terra fra esso ed il tavolino, il viso rivolto verso Sherlock (che ne osservò ogni mossa steso supino, le braccia appoggiate sullo stomaco, gli occhi fissi sulla figura di John).

« Perché sei tornato, Sherlock? » domandò allora John, sussurrando, senza chiedersi se fosse o meno il caso di porre quella domanda o se era meglio aspettare ancora – chissà cosa poi, chissà quale segno.

Sherlock lo guardò ma non disse nulla. Nemmeno schiuse le labbra. Nemmeno ne ebbe l’intenzione, probabilmente. Continuava semplicemente a guardarlo negli occhi, e questa volta John non distolse lo sguardo.

« Perché ora? » continuò Watson, deciso ad avere le sue risposte.

Sherlock sollevò la mano sinistra dal proprio stomaco, lentamente, avvicinandola a Watson come se avesse paura che lo mordesse, o più probabilmente che scappasse dal tocco che ne seguì. Sherlock appoggiò i polpastrelli tiepidi delle sue dita sulle labbra di John, sfiorandole in un tocco effimero; prima l’arcata superiore, poi quella inferiore.

« “Ora”... » sussurrò al contempo, adattandosi allo stesso tono usato da John: « ...perché tu ne hai bisogno. E sono qui... » per ultimo fu il pollice che accarezzò le labbra del medico da una parte all’altra: « ...per lo stesso, identico, motivo ».

Watson sospirò sulle dita dell’altro, gli occhi chiusi, aggrappandosi a quel minimo tocco senza tuttavia muovere un solo muscolo per farlo veramente. Sherlock non stava toccando nient’altro di lui, né le gote con le restanti quattro dita né il collo o la tempia o chissà cos’altro; solo le labbra, le carezzava, le studiava come se facessero parte di uno dei suoi maledetti esperimenti, trattandole con cura quasi come avesse il timore di romperle, o farle sanguinare, o rovinarle.

Non riusciva a non pensare, John, a quanto intimo quel gesto fosse. Ma non ebbe il coraggio, il fegato, la forza e la voglia di rifiutarlo.

Né di staccarsene.

 

Quel breve e strano contatto fu il primo di una lunga serie di episodi, di piccolezze (che coinvolgevano ginocchia, mani, centimetri di pelle e dita), che se John avesse veramente avuto cuore di soffermarcisi sopra e pensarci con serietà, probabilmente si sarebbe auto-etichettato come fuori di testa.

Sul divano, quando ordinava cinese o bevevano tè guardando qualcosa in televisione, sedevano sempre più vicini. Il divano era piccolo ma sufficiente a due persone per avere i propri spazi, ma stranamente entrambi loro cercavano di sedersi sempre in prossimità del centro, rendendo così ovvio il conseguente sfiorarsi delle loro gambe e delle loro spalle. A volte Sherlock si appisolava, appoggiando la testa sulla sua spalla, e John gli appoggiava la mano sulla gamba, lasciandola semplicemente lì.

Il dottore si era accorto che Sherlock fingeva soltanto di dormire, così come Sherlock si era probabilmente reso conto che il dottore gli toccava la gamba solo dopo che aveva chiuso gli occhi.

Capitava anche che fossero a tavola, impegnati a cenare o a fare colazione, e stendendo le gambe i loro piedi si incontravano. Un piccolo sussulto ed un lieve imbarazzo da parte di John, un sorrisetto quasi invisibile da parte di Sherlock. Nessuno di loro ne comprendeva il vero significato, né sospettava che ce ne fosse veramente uno, e tutto quello che facevano era rimanere così: con i piedi incrociati a sfiorarsi sotto il tavolo.

E poi, tutte le volte in cui le loro mani si erano sfiorate, accarezzate per qualche secondo. Quando si passavano di mano fascicoli, libri, giornali, il telecomando della televisione, Sherlock porgeva a John il cellulare o John porgeva a Sherlock la tazza del tè. Brevi istanti di calore rubati l’uno all’altro, rendendo il tocco casuale, continuando a fare finta che fosse realmente così, per poi sorriderne sotto i baffi.

E le occhiate. John studiava il colore degli occhi di Sherlock sotto le diverse tonalità di luce, notando come cambiassero tonalità d’azzurro a seconda dell’intensità. Holmes, d’altro canto, sembrava sondargli l’anima ogni volta che i loro sguardi si incrociavano e si incatenavano, incapaci di lasciarsi andare prima di avere assorbito qualsiasi cosa – sentimento, anima, luce, colore, impressione, immagine, affetto, parole non dette, pensieri, desiderio – e trovando difficile farlo anche dopo. Minuti infiniti in cui trovavano interessante un solo, maledettissimo colore: l’azzurro (ghiaccio quello di Sherlock, indaco quello di John).

I loro corpi comunicavano le parole che non avevano ancora trovato e che erano lontani anni luce dal pronunciare; uno di loro troppo orgoglioso per ammetterle, l’altro troppo inesperto per sapere dove cercarle.

Entrambi dicevano bugie silenziose che l’altro poteva sentire benissimo. E andava bene così.

 

Una sera del decimo mese dal ritorno di Sherlock, mentre era intento a togliersi il camice per poter tornare a casa, John ricevette una telefonata. Fuori c’era ancora luce ma le giornate cominciavano sensibilmente ad accorciarsi, segno del prossimo arrivo dell’autunno.

Estraendo il telefono dalla tasca rispose senza nemmeno guardare chi fosse, portandosi il telefono all’orecchio ed infilandosi la giacca al contempo. « Pronto? » esordì, la voce indaffarata a causa della manica della camicia che non voleva sapere di non arrotolarsi impunemente verso l’alto.

« John? » rispose una voce famigliare dall’altro capo.

« Greg, ciao » salutò cortesemente John, tenendo stretto il telefono contro l’orecchio con la spalla e usando entrambe le mani per rimediare al pasticcio dentro la manica della giacca. « Come va? » domandò sereno.

Ma la voce dell’ispettore non sembrava altrettanto tranquilla, e John poteva sentire altre voci in sottofondo. Una sembrava quella della signora Hudson, ma non ci avrebbe messo la mano sul fuoco. « John... perché non sei venuto, oggi? » domandò Greg.

Watson aggrottò le sopracciglia, dubbioso. Guardò il calendario sopra la scrivania e no, non era un fine settimana, era un mercoledì, dunque non avevano preso appuntamento per vedersi... oppure sì? Se ne era dimenticato?

« Dovevamo vederci? In tal caso scusami, ma oggi ero al lavoro e così... »

« John stai scherzando, vero? » lo interruppe Greg, non lasciandogli il tempo di parlare: « dimmi che stai scherzando » lo supplicò, letteralmente.

Il dottore sentì un fiotto di panico irrigidirgli la schiena. Cos’aveva dimenticato di così importante?

Tornò a guardare il calendario ma tutto ciò che vedeva erano solo numeri. Non era mai stato tipo da segnarsi le cose sul calendario, dunque davanti a lui vi era una semplice griglia numerica che andava da 1 a 30.

La folgorazione lo colpì quando si alzò il polsino della camicia per controllare distrattamente l’ora sul suo orologio, saldamente allacciato al proprio polso.

Il vetrino rotto, la cassa sfregiata, le lancette ferme. Una scheggia di tempo. Un ricordo negato ma mai abbandonato, sempre tenuto a contatto con la pelle, con ogni battito di cuore.

Il secondo anniversario.

Boccheggiò per qualche istante al telefono, incapace di trovare l’aria per proferire parola ed indeciso se dire la verità o mentire spudoratamente. Il cervello gli diceva che era stupido festeggiare l’anniversario di una morte falsa, la prova era a casa e lo stava aspettando per la cena, ma il cuore ebbe il sopravvento nel tempo di un respiro e si sentì come travolto da un treno per quanto male fece la realizzazione che si era completamente dimenticato del secondo anniversario della morte di Sherlock.

Dodici mesi prima aveva passato l’intera giornata in piedi davanti alla tomba, al punto da farsi girare alla testa per il dolore acuto ai muscoli tesi delle gambe ferme da ore. Dodici mesi dopo era andato al lavoro come se nulla fosse.

Perché, se lui sapeva la verità, quella consapevolezza faceva comunque così male? Perché il cuore batteva come un forsennato dalla scontentezza e non poté fare a meno di sedersi per non crollare?

« Te ne sei dimenticato? » continuò Greg al telefono, probabilmente insospettito dal lungo silenzio.

John decise il da farsi in venti microsecondi, ingoiando moralità e buon senso.

« No, Greg, no » rispose, trovando la forza di suonare deciso: « certo che non me ne sono dimenticato, come potrei? (già, come hai potuto?) è che... vado avanti. Sto andando avanti. Per quello non sono venuto, Greg » mentì.

Mentì in modo spudorato. Mentì per proteggere Sherlock ma soprattutto se stesso, perché si era dimenticato il giorno più importante dell’intero anno, qualcosa che aveva giurato di non dimenticare mai in quel tutto che aveva pian piano cominciato a cancellare. Il giuramento di essere sempre là, sempre, in quel giorno, pronunciato ormai due anni prima mentre la bara di legno scuro veniva calata tre metri sotto terra con dentro quello che, allora, credeva fosse il cadavere del proprio migliore amico.

Si sentì gli occhi lucidi e riconobbe nella ferrea stretta della mascella, denti contro denti in una morsa quasi dolorosa, la frustrazione.

« Oh... sì, hai ragione. Scusami John. Non ci avevo pensato » si scusò subito Lestrade, ma la sua voce non era per niente sollevata; era delusa, forse, forse negativamente colpita da quella bugia che l’ispettore aveva assunto come verità per mancanza d’alternativa.

John deglutì intere sorsate di sensi di colpa. « Non fa niente. Ora scusami ma devo... chiudere l’ambulatorio. Ci sentiamo poi? » domandò, controllandosi a malapena, quasi incapace di trovare abbastanza fiato per pronunciare ogni parola della frase.

« Sì, certo. Scusami ancora » si congedò Lestrade, riattaccando.

Appena in tempo. John si fece scivolare il cellulare di mano, che cadde a terra con uno schiocco secco. Prese un profondo respiro ma non fece altro che sentirsi l’aria mancare dai polmoni, bloccata in gola in attesa di un singhiozzo che soffocò fra le mani giunte davanti al proprio viso.

Pianse. Non poté farne a meno. Senza un perché, senza una motivazione logica.

“Sherlock è a casa” si diceva. “Sherlock non è morto davvero, per questo te ne sei dimenticato” continuava a ripetersi. “Non sei un ingrato, forse solo distratto. Non hai tradito la sua memoria. Non l’hai tradito. Non l’hai tradito. Non l’hai tradito” si ripeté ancora, e ancora, e ancora.

Ma continuò a piangere senza sapere perché.

Così come continuò a sentirsi in colpa, senza sapere il perché.

 

Undici mesi, 335 giorni, 8.040 ore, 482.400 minuti; per i secondi, la calcolatrice mostrò un numero che superava i ventotto milioni.

Decorso clinico delle malattie infettive: esposizione, contagio, fase preclinica, fase clinica conclamata, guarigione.

Ancora una volta, come all’università prima dell’esame. Repetita iuvant.

Esposizione (“Il mio nome è Sherlock Holmes e l’indirizzo è il 221B di Baker Street”), contagio (“Oh, Dio, sì”), fase preclinica (“Io non ho amici. Ne ho uno solo.”), fase clinica conclamata (“Addio, John”).(1)

Undici, i mesi passati nella speranza di una guarigione rapida senza ricadute.

Guardava Sherlock fissare il soffitto dal divano con le mani giunte sotto al mento, e l’unica cosa che riusciva a pensare era che non si sentiva come se tutto fosse tornato come prima. Lui era ancora fra la fase clinica conclamata e la guarigione, preso nel mezzo di qualcosa che non sapeva quantificare e a cui non sapeva attribuire un nome.

A volte, se chiudeva gli occhi qualche secondo e poi li riapriva piano, il divano era vuoto. Il salotto era vuoto. La cucina era vuota. La sua vita era vuota. Ancora.

Un battito più veloce di ciglia e Sherlock era lì, a raccogliere chissà cosa dietro al divano e allora ah, ecco, “per quello non lo avevo più visto, era chinato”.

Una bugia come le altre. Ventotto milioni i secondi usati per crederci.

 

Accadde una di quelle sere che, mentre erano seduti sul divano a guardare Memento (uno dei film che riusciva ad interessare anche Sherlock), qualcuno bussò alla porta dell’appartamento.

La prima reazione di entrambi fu di fissare la porta senza muovere nemmeno un muscolo. John non aspettava nessuno quella sera (era martedì, raramente usciva nei giorni lavorativi) e se fosse stato Mycroft li avrebbe prima avvertiti tramite sms (ed il cellulare di Sherlock era sul tavolinetto di fronte a loro, muto come lo era  stato fino a quel momento).

Bussarono ancora, questa volta aggiungendo un: “John, sono Greg!” da fuori, timbro vocale attutito dal legno.

Le loro braccia erano a contatto, le loro spalle praticamente appiccicate, Sherlock aveva deciso di accavallare una delle sue magre e lunghe gambe sopra a quella di John più vicina dunque fu il tendersi istantaneo dei muscoli dell’altro a svegliare il medico da quella piacevole trance in cui si era tiepidamente immerso. Si guardarono contemporaneamente, alzandosi in piedi all’unisono.

« In camera » gli sussurrò John, senza nemmeno aspettare di vederlo scattare prima di dirigersi a passo pesante verso la porta: « arrivo! » esclamò (non senza aver prima controllato che Sherlock fosse sparito dietro la porta della camera da letto).

Quando aprì la porta notò un Lestrade con le occhiaie ed un’espressione stravolta. Poche altre volte lo aveva visto così stanco, ma non era di certo la prima.

« Posso rubarti una decina di minuti? » chiese Greg, entrando nell’appartamento non appena John si fece da parte per farlo passare. Si diresse subito in cucina, appoggiando un fascicolo sul tavolo sotto gli occhi sorpresi di Watson.

« Cos’è? » domandò infatti il medico, osservando l’amico.

« Un caso » gli rispose quello, sospirando pesantemente: « so che non ti fa piacere parlarne, ma sono veramente in alto mare. Hanno riaperto un cold case(2) a causa di un possibile collegamento con un omicidio recente. Comunque sia questo caso non era mio, dunque devo riesaminarlo da capo, ma... come dire, sono bloccato. In ogni direzione cerchi di focalizzarmi. Non ci riesco. È davvero frustrante... » spiegò brevemente, guardandolo dritto negli occhi.

A John non servì chiedere ulteriori spiegazioni, o addirittura domandargli perché gli stesse raccontando la situazione. Quando capì il significato di quello sguardo, negò ripetutamente con il capo. « No » aggiunse poi a voce.

« John... » cominciò l’ispettore, ma venne interrotto dal medico stesso.

« Greg, no. Non è il mio lavoro. Non è più il mio lavoro. Non è mai stato il mio lavoro » disse, ma questa volta fu il turno del poliziotto di interromperlo.

« Non ti sto chiedendo di risolverlo, ti sto solo chiedendo un parere, il tuo punto di vista » chiarì.

« Io non sono Sherlock Holmes » il dolore che pronunciare quel nome ancora gli dava (perché?).

« Ma eri la persona più vicina a lui. Conosci il suo metodo ».

A Watson sfuggì una risatina amara. « No che non conosco il suo metodo! » lo contraddisse: « io ho osservato il suo metodo, quello sì, ma non lo padroneggio affatto! » esclamò.

Di certo non poteva dirgli il vero motivo per cui assolutamente non voleva quel fascicolo in casa sua. Non poteva dirgli che la persona che stava ascoltando – e probabilmente persino osservando di sottecchi – la loro conversazione dalla camera da letto ci avrebbe passato i giorni sopra, come al solito, con il moderato rischio che potesse fare qualche pazzia, come uscire di casa per andare a cercare chissà quale indizio per confutare Dio solo sa quale teoria.

Sherlock Holmes era un maniaco ossessivo e non avrebbe fatto entrare in quella casa l’esatta causa scatenante della sua ossessione.

Poteva sentire gli occhi azzurri di Sherlock sulla propria schiena, una puntura insistente in mezzo alle scapole, come se potesse passargli per osmosi la silenziosa eccitazione infantile di avere un caso per le mani – qualcosa con cui passarsi il tempo.

Poi Greg gli fece quello sguardo supplichevole, reso ancora più efficace dall’espressione di uomo privo di sonno che si portava appresso, e John chiuse gli occhi con uno sbuffo.

Se ne sarebbe pentito. Lo sapeva. Gli faceva male il petto come se qualcuno gli avesse dato un pugno sullo sterno. Era un presentimento.

« Detesto quando mi fai quella faccia » borbottò, le dita a massaggiarsi l’attaccatura del naso.

« Quale faccia? » domandò Lestrade.

« Quella faccia » ripeté Watson.

« È la mia faccia ».

« No, è la faccia di un naufrago aggrappato ad un tronco in mezzo al mare che guarda la barchetta di un pescatore di passaggio » disse John.

« ...metafora appropriata » commentò semplicemente Lestrade.

Si guardarono per qualche istante, poi il medico semplicemente annuì. « Non ti aspettare grandi cose, Greg. Non fare questo errore » aggiunse al suo assenso, prendendo il fascicolo dalle mani di un Greg sollevato.

« Fai quello che puoi, John. E... grazie » gli disse.

Watson annuì in silenzio. « Figurati ».

 

Sherlock si mise subito al lavoro, dunque i ritorni a casa di John divennero all’insegna di biblici discorsi sul chi, cosa, come e quando. I due casi contenuti nel fascicolo (il cold case e quello recente a cui era stato collegato) erano di quelli che facevano perdere speranza nell’umanità.

Negli anni sessanta, durante lo scavo delle fondamenta di un palazzo in costruzione, era stato ritrovato uno scheletro. Le analisi forensi avevano identificato il cadavere – casalinga, quarant’anni, madre di due figli, marito nella Marina di Sua Maestà, padre ricco industriale nel campo tessile – e prodotto l’ipotesi che la donna non fosse stata seppellita con la propria pelle addosso.

La stessa cosa settant’anni dopo. Una società elettrica commissiona uno scavo per sostituire una tubatura usurata e dal terreno spunta un cranio. La vittima, identificata in una casalinga del Sussex sparita un paio di settimane prima, viene trovata completamente scheletrizzata.

« È un caso interessante » disse Sherlock la prima sera dopo la visita di Lestrade: « in entrambe le scene del crimine non sono stati trovati residui di abiti o calzature, niente gioielli o altri oggetti in metallo, nessun residuo di capelli o unghie. Cosa possiamo dedurne? » domandò il detective, un sorriso furbo mentre lo guardava dal tavolo della cucina ingombro di fogli e fotografie.

John conosceva quello sguardo: erano gli occhi di quando Sherlock voleva stupirlo facendolo passare per uno stupido. Tuttavia stette al gioco.

« Per gli abiti e i gioielli, potrei dire che le vittime sono state sepolte senza, dunque nude; i capelli e le unghie potrebbero essersi semplicemente decomposti. Dipende da quanto datato è lo scavo, dato che stiamo parlando di scheletri » rispose Watson, afferrando il bollitore e cominciando a fare del tè. Considerando l’interesse di Sherlock e il fatto che non aveva sgombrato il tavolo, come minimo avrebbero saltato la cena – o avrebbero mangiato a mezzanotte, una delle due.

« Precisamente, John! » esclamò Holmes, il medico sentì una vecchia ma famigliare ondata di orgoglio.

« Allora posso aggiungere altri elementi per permetterti di avere una migliore idea del quadro generale. Gli scheletri sono stati identificati. Le due donne sepolte, sia negli anni sessanta che quest’anno, erano scomparse da meno di qualche settimana e la sezione delle ossa lunghe ha mostrato una struttura ossea interna praticamente intatta, decomposta, per l’appunto, solo da qualche settimana » disse, tornando a guardarlo: « ora cosa ne deduciamo? » domandò.

Ma John non gli diede corda, questa seconda volta.

« Sai, ancora sono così ingenuo da chiedermi il perché continui a fare questo macabro giochino con me se sai già la risposta di tutte le domande che mi fai » gli disse, senza focalizzarsi sul punto del discorso.

Sherlock roteò gli occhi: « perché è stimolante. E ora rispondi » tagliò corto.

Ma John si rabbuiò, serrando le labbra senza dare la propria interpretazione del puzzle. Non gli era mai importato molto di stare al gioco, tant’è che lo faceva volentieri quando capitava, ma in quel momento c’era qualcosa che lo infastidiva più del solito. Forse l’atteggiamento di Sherlock – normalissimo, considerando il soggetto – o forse il caso stesso – che non avrebbe voluto accettare, tra l’altro – però qualcosa di molto simile all’istinto voleva impedirgli di prendere parte alle indagini.

« Non lo so » si risolse allora nel dire, appoggiando la tazza di Sherlock sull’unico angolo del tavolo libero e dirigendosi in salotto con la propria fra le mani.

Sherlock lo osservò con le sopracciglia aggrottate prima di aggiungere: « quando l’avrò risolto sarai tu a dover fare rapporto a Lestrade, ti conviene seguire i miei ragionamenti » disse.

« Leggerò il tuo resoconto » fu la lapidaria risposta di John mentre accendeva la televisione.

Non si sentiva ancora pronto. Per la vecchia vita, per l’eccitazione della caccia, per vederlo sparire in vicoli e scalinate inseguendo il criminale di turno, per l’andare e venire di Lestrade dal loro appartamento (qualsiasi appartamento fosse), per le scene del crimine, per i fascicoli, per le deduzioni e per tutto quanto il pacchetto “Indagini con Sherlock Holmes”. Non voleva vederlo allontanarsi da lui, anche se con la promessa che sarebbe tornato – aveva smesso di credere alle sue promesse da molto tempo, ormai.

Non voleva vederlo buttarsi ancora da quel tetto.

Per una volta, Sherlock avrebbe fatto a meno di lui.

 

Il passare delle settimane segnò l’entrata nel dodicesimo mese (1 anno, 12 mesi, 365 giorni, 8.760 ore, 525.600 minuti, più di trentun milioni di secondi). Sherlock non si accorse nemmeno di quell’ “anniversario speciale” che prendeva vita solo nella mente di John Watson, tanto era preso dal caso.

Nonostante il medico non chiedesse delucidazioni, vedeva il migliore amico arrancare giorno dopo giorno. Una sera aveva avuto il coraggio di lamentarsi per la mancanza di libertà e, dunque, della scarsità di informazioni che quella “prigionia” gli procurava. John sapeva che lo aveva detto d’impeto, senza intenderlo veramente, dunque gli perdonò immediatamente l’uso del termine “prigionia” per definire la loro vita che si rimetteva insieme un pezzo alla volta, rimarginando un taglio per volta. C’erano momenti in cui John credeva che fosse solo il suo mondo – solo la sua anima – ad essere pieno di crepe, ma non diceva niente, dandosi del paranoico.

E perché Sherlock non lo avrebbe ascoltato comunque.

Nel frattempo passava le serate davanti a repliche di film romantici strappalacrime, che nemmeno guardava con attenzione; passava la maggior parte del tempo cercando di cogliere parole, frammenti di sussurri, sguardi, forse persino pensieri dell’uomo seduto in cucina circondato da fogli e post-it (attaccati ovunque intorno a lui), da fotografie e scene del crimine disegnate con il gesso sulla parete insieme a complicati schemi informatici e diagrammi di flusso in greco. Solo un frammento, una pallida ombra di ciò che era la mente di Sherlock Holmes.

Metà di lui voleva aiutarlo. Lasciare perdere i dubbi e andare a vedere di togliere il ragno dal buco, qualunque fosse. Tornare ad essere il suo catalizzatore di luce come lo era stato un tempo solo per risolvere il maledetto caso, ridarlo a Lestrade e tornare a passare quelle poche ore in cui era a casa insieme al suo migliore amico, così come era stato per gli undici mesi prima di quel momento.

L’altra metà però rimaneva aggrappata al proprio orgoglio con le unghie e con i denti. Vedeva il divano vuoto accanto a sé, frasi ed immagini vacue in un televisore, il tempo che passa senza che gli venga prestata attenzione. Una luce in cucina che non si spegne, serate di silenzio che non era più abituato a sopportare. Pensava di essere vissuto nel silenzio per quattordici mesi della propria vita ma solo in quel momento, solo quando c’era qualcuno con lui che il silenzio lo creava, si rendeva conto di quanto non fosse vero; di quanto fosse facile soffrire per l’assenza di una persona senza sapere quanto è maledettamente difficile soffrirne l’assenza in sua presenza.

Chiudendo gli occhi e sospirando piano, decise di alzarsi e andare a dormire. O cercare di farlo, per lo meno.

Dubitava che ci sarebbe riuscito – erano appena le dieci e mezzo, decisamente troppo presto per i suoi standard – ma non trovava niente di meglio da fare; se fosse rimasto sul divano avrebbe guardato Sherlock di sottecchi per tutta la sera senza seguire la trama del film o di qualsiasi cosa stesse guardando alla televisione (nemmeno lo sapeva in realtà).

« Io vado a dormire » annunciò a vuoto, dirigendosi in camera senza nemmeno aspettarsi una risposta da parte di Sherlock – che in effetti non arrivò.

Una volta in camera si spogliò, si mise il pigiama e fece la piega al lenzuolo. Come in una routine comprovata si sedette dalla sua parte del letto e, alla sola luce fioca proveniente dalla finestra, si tolse l’orologio.

Lo tenne fra le mani, osservandolo in silenzio.

Non era abituato a sentirne il ticchettio nemmeno quand’era funzionante. Non è quello che ci si aspetta da un orologio da polso. Però c’erano momenti, come quello, in cui era confortante avere un ticchettio a spezzare un silenzio pesante. Il tempo che passa, la vita che va avanti.

La vita va avanti comunque. Era una delle prime frasi che si era sentito dire dopo il funerale di Sherlock. Quand’era convinto che sì, la vita andava davvero avanti comunque, ma non era sicuro, all’epoca, che lui sarebbe rimasto ancora per molto in sua compagnia.

Passò il pollice sul quadrante scheggiato, quasi come potesse percepire il battito del cuore dell’orologio attraverso la pelle delle dita.

Forse fu proprio per l’assenza di quel piccolo ticchettio che sentì la porta alle sue spalle aprirsi e alcuni passi coprire la distanza da essa al letto. Il materasso sobbalzò e, prima che potesse voltare il capo, Sherlock era dietro di lui, la fronte appoggiata alla sua schiena.

« Quell’orologio è rotto » mormorò, la voce bassa come se rispettasse sia il luogo che la notte.

« Lo so » gli rispose John: « è fermo da poco più di sessantotto milioni di secondi » aggiunse.

A Sherlock non servì nemmeno un minuto per effettuare il calcolo: « due anni e due mesi. Dalla caduta » disse. John annuì.

« Quando il ciclista mi ha investito. Credo si sia rotto lì » disse Watson a sua volta, continuando a tenere gli occhi incatenati alle lancette immobili.

« Perché lo conservi? » domandò allora Holmes.

John si prese qualche istante, per rispondere a quella domanda. « Non lo so... » sussurrò poi: « ci sono affezionato, credo. Ho provato a non portarlo, ma non mi sento tranquillo ».

Dietro di lui, in un movimento lento, Sherlock allungò la mano destra in direzione del piccolo oggetto. Il suo petto contro la schiena ed il mento appuntito appoggiato alla spalla – vicini, così vicini... – il dito affusolato di Sherlock andò ad accarezzare il quadrante, seguendo la linea frastagliata della crepa che lo attraversava. « Probabilmente non si può più riparare » sentenziò.

Le labbra di John si piegarono in un sorriso amaro. « L’orologio o ciò che rappresenta? » domandò di slancio, senza nemmeno pensarci.

Non ricevette risposta.

« Sherlock? ».

« Cosa c’è che non va, John? Con me. Con me che risolvo casi. Con me e te » domandò, ancora appoggiato a lui, accanto a lui.

« Non... lo so » balbettò, incapace di rispondere.

« Ormai dovresti esserti ri-abituato a me, John. È passato un anno » continuò Holmes.

John scosse il capo, piano. « Davvero non lo so, Sherlock. C’è qualcosa che non va. C’è qualcosa che mi disturba. A volte mi guardo intorno e mi sento come fuori fase, come in un film in cui l’audio ed il video non sono sincronizzati. Altre volte chiudo gli occhi per un istante e quando li riapro... tu non ci sei » rivelò, confessando nella penombra della camera da letto quei momenti che erano la sua vergogna, poiché lo rendevano debole.

Ma Sherlock non rise della sua debolezza (non lo aveva mai fatto). Si limitò a dare una delle sue risposte logiche, capaci di minimizzare ogni problema, facendo di una montagna insormontabile una piccola collinetta scoscesa.

« Si chiama “autosuggestione” » disse: « hai paura della mia assenza e la materializzi senza rendertene conto » spiegò.

« Non è solo questo... » intervenne però il medico, senza avere la minima idea di come continuare la frase. Sapeva che non era solo quello il motivo per il suo disagio, ma non sapeva dare un nome ed una forma all’altra motivazione, qualunque essa fosse.

« John, non me ne andrò più. Adesso smetti di non credere a ciò che vedi » gli disse Sherlock, afferrando la propria mano e chiudendogliela attorno all’orologio, nascondendolo alla sua vista.

Watson, a quelle parole, chiuse gli occhi. « Ti va di rimanere qui stanotte? » domandò in un soffio alla figura accanto a lui, dietro di lui (dentro di lui).

Quasi poté vederlo, l’angolo destro delle labbra di Sherlock alzarsi in un sorrisetto compiaciuto.

« Come desideri ».

Stesi sul letto uno di fronte all’altro, John osservò il volto rilassato di Sherlock, dormiente. Chiuse gli occhi, li riaprì piano... e per un solo, spaventoso istante, il letto accanto a sé era vuoto. Li chiuse di nuovo in preda al panico ma quando li riaprì Sherlock era di nuovo lì, addormentato al suo fianco.

Con quella strana sensazione alla bocca dello stomaco, e stringendo ancora fra le dita l’orologio da polso, si addormentò a sua volta.

 

Passò un’altra settimana prima che Sherlock si rendesse conto di avere mezzi fin troppo limitati per poter sperare di risolvere quel caso in maniera decente. Era riuscito a ridurre il campo a tre idee – come aveva spiegato a John quando alla fine si era deciso a collaborare, cercando di riconquistare la loro normalità un poco alla volta – ma due di esse pretendevano un appostamento e l’altra almeno una visita negli archivi d Scotland Yard; cosa che Sherlock  era impossibilitato a fare per cause di forza maggiore e John, nonostante avesse dato la sua disponibilità, era stato scartato con un gesto della mano e una spiegazione sbocconcellata su come “dovrei esserci anche io per forza, John. Potrebbe sfuggirti un particolare fondamentale... non si può fare”.

Avrebbero restituito il caso a Lestrade con tutto ciò che Sherlock era riuscito a trovare, mascherandoli da risultati trovati da John (salvo poi prendersene il merito in seguito, quando avrebbe detto a tutti di essere vivo). A questo proposito, e tentando inutilmente di nascondere tutta l’irritazione, Sherlock scrisse i suoi appunti su di un foglio che poi John ricopiò nella sua calligrafia.

 

La mattina dopo, durante la pausa pranzo in ambulatorio, John decise che era ora di dare qualche informazione a Lestrade riguardo al caso. Riteneva un po’ strano che glielo avesse fatto tenere per così tanto tempo senza mai cercarlo o chiedergli degli aggiornamenti, ma col tempo aveva imparato che Greg era una persona impegnata. Probabilmente era stato molto occupato con gli altri casi che stava seguendo e di cui gli aveva accennato.

Cercò il numero in rubrica, trovandolo velocemente. Non dovette aspettare nemmeno due squilli perché il detective inspector gli rispondesse.

« Lestrade » sentì dall’altro capo del telefono.

« Greg? Sono John Watson ».

« John, ciao » lo salutò l’ispettore, la voce tranquilla nonostante l’affanno palese: « come va? ».

« Bene ma... stai ansimando? » chiese il medico con un sorriso sulle labbra.

« Eh già. Non c’è niente di meglio che inaugurare l’autunno con un cadavere trovato nelle fogne. Non puoi sapere che puzza... » borbottò a bassa voce.

John si trattenne dal ridacchiare. « Posso immaginarmelo. Proprio una bella gita fuori porta, eh? Sarebbe interessante da vedere » buttò lì, non con l’intenzione di dirlo seriamente, ma solo per fare un po’ di (macabra) conversazione.

Lestrade rimase in silenzio per qualche istante, l’eco dei passi bene udibile ora tramite il telefono. « Sai John, potresti. Venire qui intendo » riprese poi: « non è strano che la Polizia collabori con alcuni medici, sarebbe abbastanza facile per te ottenere l’autorizzazione, considerando i precedenti... » ipotizzò.

Solo in quel momento John percepì la compassione insita nella voce di Greg, causata da quella piccola vena di preoccupazione che prima non l’aveva mai incrinata. Probabilmente quell’episodio del secondo anniversario lo aveva fatto ricredere sulle sue condizioni, o semplicemente voleva provare ad essere gentile... non lo sapeva. Sapeva solo che non era davvero il caso di cominciare a rimettere piede sulle scene del crimine. Troppo... troppo presto. Troppo doloroso. Troppo intenso, come ricordo.

« Greg, sto bene. Sulle scene del crimine sono chiamati ad operare solo i Patologi, cosa che io non sono, e sappiamo entrambi benissimo che i “precedenti” non volgono a mio favore... e nemmeno al tuo » non ancora, pensò, prima di aggiungere: « non eri stato sottoposto ad inchiesta? ».

« Sono pulito, John, lo sono sempre stato. Anche se sospetto che un nostro amico comune abbia allungato la sua ombra su qualche pezzo grosso del dipartimento » gli rivelò.

Mycroft Holmes. Quell’uomo ne sapeva una più del diavolo.

« Non so come, ma è riuscito a provare che il mio giudizio era irreprensibile, e di conseguenza che chiedere consiglio a Sherlock per tutti quegli anni non è stato un errore. Anche se non è completamente scagionato, suppongo che questo ripulisca un poco il suo nome » aggiunse ancora.

Già. Riusciva a vederlo. Il sottile filo scintillante che Mycroft stava tessendo silenziosamente nell’ombra del sole e che avrebbe portato lentamente Sherlock ad avere di nuovo una reputazione degna di essere protetta, e dunque una vita.

Si chiese come mai non gli aveva dato quelle informazioni quand’era venuto a casa sua, ma si risparmiò di dare attualmente voce a quella domanda. Passò piuttosto al motivo della telefonata.

« Senti, per quanto riguarda quel fascicolo che mi hai passato... ho fatto del mio meglio, e credo di essere arrivato a qualcosa, ma te l’ho già detto che non sono un genio, dunque dovrai accontentarti » disse calmo, adocchiando l’orologio a muro per non perdersi l’inizio del turno del pomeriggio.

Greg, dall’altra parte della cornetta, trattenne il respiro. « Quale fascicolo? » domandò poi, genuinamente sorpreso.

Il cuore di John perse un battito.

Fu un attimo surreale quello che seguì. Nel silenzio di entrambi, Watson poté quasi sentire i pensieri di Lestrade prendere una piega che non gli sarebbe piaciuta, ovvero quella del dubbio. E non era importante quale parte di lui Lestrade avrebbe effettivamente messo in dubbio, se la salute fisica o quella mentale – in un riferimento velato e rivestito di cortesia –, il suo istinto aveva cominciato a mandargli segnali inequivocabili di pericolo, brividi lungo la spina dorsale per avvertirlo di non dargli nemmeno occasione di cominciare il discorso che aveva già preparato, che già giaceva dietro ai denti pronto a divenire voce e parole.

Lo interruppe giusto prima che provasse a parlare.

« Ah, scusa Greg, hai ragione » finse, sbattendosi la mano sulla fronte in modo che l’altro ne sentisse il rumore: « è stato un mio collega dell’ambulatorio, in realtà. Il paziente ha un nome simile al tuo e faccio perennemente confusione » mentì spudoratamente, cercando in quel poco tempo a disposizione l’unica scusa che valesse la pena usare.

Lestrade ci mise un po’, per rispondergli. « Figurati, può capitare... » lasciò cadere. Non era convinto.

Intelligente, Lestrade. Sherlock lo stimava silenziosamente, John lo sapeva, e adesso riusciva anche a capire il perché.

« Ora scusami ma devo andare, sta per finire la pausa pranzo... » recitò di nuovo, già pronto con mano tremante a spegnere il cellulare, ma Greg lo interruppe prima che potesse mettere in atto i suoi pensieri.

« Un momento John, aspetta! » esclamò: « sei... sicuro di sentirti bene? Ultimamente mi sembri un po’... fuori fase, ecco » gli disse, cercando quella falsa cortesia che tutti avevano avuto nei suoi confronti dal giorno in cui avevano deciso che lui era il maledetto vedovo dell’impostore suicida. Un atteggiamento che Greg non aveva mai avuto con lui, ma che ora stava mettendo in atto.

Fu per un miscuglio letale tra fretta, rabbia e reverenziale terrore che mandò al diavolo l’aplomb.

« Smettila immediatamente » disse, lapidario: « smettetela tutti quanti. Io sto bene, Cristo, sto bene. Non ho bisogno di sedute, di terapie, di abbracci amichevoli e soprattutto di tutta quella pietà che mi vomitate addosso da due anni a questa parte. Perciò ora basta, Greg. Smettetela tutti, di leggere in ogni mio gesto intenti suicidi o inesistenti crisi depressive. Non voglio passare il resto della mia vita a centellinare le parole per non indurvi a preoccuparmi per me, è sfibrante! » si sfogò.

Non rimase ad aspettare la risposta di Greg, perché chiuse la comunicazione quasi subito.

Il modo in cui aveva mentito poteva avere del magistrale. Persino il tono della voce, nonostante la sfuriata fosse stata per la maggior parte basata su sentimenti che provava davvero. Si disse che in un’altra vita avrebbe potuto fare l’attore, ma l’importanza già marginale di quel discorso venne perduta completamente quando si rese conto di ciò che era davvero successo.

Lestrade non gli aveva consegnato nessun fascicolo. Questo a sentire lo stesso Lestrade, ovviamente. Il che non era possibile perché lui ci aveva parlato, con Greg, quella sera a casa sua. Erano accanto al tavolo del cucinino e avevano discusso su come non fosse giusto, per l’ispettore, chiedere a lui una mano per le indagini.

Ma Lestrade negava.

Panico. Panico immotivato, razionalmente, ma che gli cresceva nelle viscere mozzandogli il respiro in gola.

Doveva tornare a casa. Doveva tornare a casa e chiedere a Sherlock quali altre possibilità di fossero per il comportamento di Lestrade, perché al telefono era suonato così maledettamente naturale che John si sarebbe giocato la vita, sulla veridicità di quelle parole.

Doveva tornare a casa perché stava per prendere in mano uno dei libri di medicina sullo scaffale, quello con più polvere sulla copertina ancora praticamente nuova, intatta. Un libro che un medico d’ambulatorio come lui non dovrebbe avere, ma che aveva comprato per una sorta di macabro memento.

Caratteri d’oro su frontespizio blu. La scritta “Post-Traumatic Stress Disorder: a Study” sembrava sorridergli sinistra.

Si tolse il camice di dosso e volò fuori dallo studio, diretto verso casa.

 

Salì le scale del condominio a due a due, coprendo in qualche secondo i due piani necessari per arrivare al proprio appartamento. Si frugò nelle tasche con foga alla ricerca della chiave e, quando finalmente la trovò, la girò così forte nella serratura che quasi rischiò di spezzarla al suo interno.

Irruppe nell’appartamento con il fiatone, sudato e provato, ma non ebbe nemmeno il tempo di pronunciare il nome del coinquilino che le parole gli morirono in gola per la seconda volta in quella giornata.

Due uomini si fronteggiavano in fondo al salotto, vicino all’unica finestra con vista sulla strada.

Sherlock sulla sinistra, il suo più grande incubo e allo stesso tempo più grande oggetto di rabbiosa vendetta sulla destra.

James Moriarty era perfetto nel suo completo gessato scuro, munito di cravatta azzurro pastello con un sottile ed elegante fermacravatta in oro. Entrambi si erano voltati in sua direzione al suo rientro e, mentre Sherlock aveva mantenuto un’espressione seria e concentrata, Moriarty gli aveva sorriso.

« Dottore, la stavamo giusto aspettando! » esclamò; John avrebbe quasi detto che fosse addirittura compiaciuto della sua presenza: « prego, si sieda » aggiunse poi, indicando la poltrona esattamente al centro, e di fronte, ai due.

John rimase fermo immobile dove si trovava, osservando Sherlock. Una muta richiesta di chiarimenti, spiegazioni, qualsiasi cosa potesse chiarirgli cosa ci faceva nel loro salotto un uomo che si era sparato in bocca facendo del proprio brillante cervello una poltiglia.

« Oh, questa è un’ottima osservazione, seppure banale » intervenne Moriarty e gli occhi di John furono subito su di lui.

« Prego? » soffiò il medico allibito, ancora indeciso se chiedere spiegazioni ad Holmes o passare subito all’azione, correndo in camera e prendendo la propria pistola dal comodino. Ma Moriarty non sembrava avere intenzione di scatenare uno scontro a fuoco nell’appartamento e Watson non vedeva punti rossi di mirini laser su nessuno di loro.

Nell’indecisione, si limitò a non fare nulla, ascoltando semplicemente.

« Ho detto che è un’osservazione buona ma banale » ripeté Jim: « ti sei chiesto come può un uomo che si è sparato in bocca essere vivo e vegeto in piedi nel salotto del tuo appartamento, ma a questo punto io posso ribattere con una domanda simile, chiedendoti “cosa ci fa una persona che si è schiantata al suolo lanciandosi da un tetto in piedi nel tuo salotto?” » domandò, scimmiottandolo.

Cominciò a salirgli l’irritazione, ma la tenne a bada. Prese aria per rispondergli e Sherlock lo precedette.

« John, vattene via » gli ordinò, il tono fermo e lapidario.

« No » rispose subito Watson, con il medesimo tono.

Sherlock, fissandolo negli occhi, ripeté nuovamente l’ordine: « John, è meglio se te ne vai, fidati di me ».

« Io mi fido di te... » gli rispose subito John, per poi aggiungere: « ...ma non me ne andrò comunque ».

« Che scenetta toccante! » esclamò James, allargando le braccia con il sorriso del Diavolo dipinto in volto: « sono commosso. Sul serio. Ma le dispiace, dottor Watson, se riprendiamo il discorso? Vorrei arrivare al punto velocemente, giusto per godermi la scena » disse.

« Non osare... » lo minacciò Sherlock, fissandolo con astio.

« Altrimenti? » lo canzonò Moriarty.

John si aspettava una risposta del tipo “altrimenti non uscirai vivo da questa stanza”, ma Sherlock non disse nulla, rimanendo semplicemente in silenzio. James sorrise di nuovo, mellifluo e falso, derisorio in direzione del detective, tornando poi a rivolgersi al medico. « Dunque? » lo esortò.

John face scattare gli occhi da lui a Sherlock un paio di volte, prima di rispondergli: « lui non è morto » pronunciò.

Moriarty ridacchiò con scherno. « Secondo questa linea logica, anche io non dovrei essere morto » obiettò.

« Questo lo vedo. È il come che mi sfugge ».

« Sbagliato dottore, a lei sfugge qualcos’altro di molto più importante » fu l’immediata risposta dell’altro.

Ancora una volta, fu Sherlock ad interrompere quello stranissimo botta-e-risposta.

« Basta così! » esclamò, la voce baritonale sputata fuori in un ringhio.

James Moriarty roteò gli occhi con fare seccato, digrignando i denti mentre si girava di nuovo in direzione di Sherlock: « mi ripeto: altrimenti? » domandò con tono di sfida.

« Farò in modo che tu scompaia » gli rispose Sherlock.

« Ah! Oculata scelta di parole, bravo! » lo lodò, salvo poi tornare a prestare attenzione a John.

« John, vai via » tentò nuovamente Holmes, ma il medico fu irremovibile. Il detective arricciò il naso in un principio d’ira solo parzialmente provocata dalla testardaggine di John.

« È sempre stato un cagnolino fedele, il nostro caro dottor Watson... » lo sfotté Jim, camminandogli intorno con le mani unite dietro la schiena: « ...non è sveglio come mi aspettavo che fosse, ma lo è comunque abbastanza per accorgersi che c’è qualcosa che stride, in tutta questa faccenda » una pausa.

Poi la ripresa: « non è vero, dottore? Io so che l’ha notato. So che c’è qualcosa che la disturba, qualcosa che non torna; qualcosa che le sussurra in un orecchio la notte prima di addormentarsi, così che fatica a prendere sonno... e non sto parlando di Sherlock, anche se scommetto che le piacerebbe » lo derise di nuovo, ridacchiando a labbra serrate.

John lo avrebbe volentieri preso a pugni per varie ragioni, credeva di averne il diritto ed il dovere, ma non lo fece proprio per le parole che aveva appena pronunciato.

Era da tanto che negava a se stesso quella sensazione, ma sentirselo dire da una persona come Jim Moriarty – l’uomo che aveva giocato con lui e Sherlock come se fossero soldatini di stagno destinati ad essere legati ad un petardo e fatti esplodere in cortile, l’uomo che era riuscito a togliergli tutto in pochi secondi (il tempo che impiega un corpo a cadere da un tetto) – lo lasciava più interdetto che sorpreso.

Come faceva a saperlo? Oppure, come aveva fatto ad intuirlo? Sapeva – ovviamente lo sapeva – della sua intelligenza smisurata, ma pensava che fosse Sherlock l’unico in grado di intuire cosa pensasse arrivando quasi al limite della lettura nel pensiero.

Moriraty gli sorrise di nuovo. « Chi tace acconsente, presumo » disse.

John era stato improvvisamente catapultato nella situazione di non sapere come comportarsi. Non aveva la minima idea di quale santo protettore o quale addestramento militare gli stava consentendo di mantenere un’apparente calma di fronte all’uomo che aveva reso quattordici mesi della sua vita un vero inferno, ma sapeva solo che quando quei freni inibitori fossero stati sganciati qualcuno lì si sarebbe fatto molto male. Per causa sua. Poi poteva anche finire in galera, non gli importava: ci sarebbe andato soddisfatto di se stesso. Se se ne fosse presentata l’occasione, non poteva promettere che non avrebbe provato ad ucciderlo.

Eppure Moriarty continuava a guardarlo come se da lui si aspettasse qualcosa, e l’agitazione di Sherlock in proposito non favoriva del tutto la calma di cui si era auto-eletto portatore.

Nel silenzio di quegli sguardi – Moriarty che guardava John e Sherlock che guardava Moriarty – John spostò lo sguardo su Sherlock, ancora impossibilitato a capire a quale gioco stesse incoscientemente prendendo parte.

Jim sbuffò. « Ho capito, devo fare tutto io » disse, venendo subito raggiunto dalla voce di Sherlock.

« John, vattene » ripeté, rivolgendosi a John ma guardando fisso James. Ma Watson non si mosse.

Questa volta non gli avrebbe permesso di allontanarlo. Sarebbe rimasto al suo fianco.

« Voglio che tu faccia uno sforzo, Johnny-boy. Uno sforzo mentale » cominciò allora l’uomo, completamente insensibile alle occhiate palesemente omicide con le quali Sherlock sembrava volergli aprire il cervello per poi dissezionarlo pezzo per pezzo.

Moriarty lo ignorò e continuò: « sono pazzamente, ossessivamente in attesa di vedere la tua espressione quando capirai la profonda realtà di ciò che sto per dirti. Quando la farai tua, la lascerai circolare dentro le vene insieme al sangue. Quando capirai che è pura follia e che non puoi farci più niente, ormai sei in trappola, catturato, inutile » disse sibilando, lo sguardo di un serpente, di un falco predatore appostato nel buio.

« John, non ascoltarlo! » sbottò Sherlock.

Moriarty rise quasi di gusto. « È un po’ troppo tardi, non credi Sherlock? Già il fatto che io sia qui dimostra che è troppo tardi. Lo ha già capito, il seme dell’idea è già piantato dentro di lui e lo sta cibando, magari inconsapevolmente, magari senza accorgersene, ma prima o poi fiorirà... e si ingrandirà, e le radici circonderanno il suo cuore mandandolo in frantumi. E io non voglio perdermi lo spettacolo quindi ho deciso di versare la benzina sul fuoco. È giunto il momento che si renda conto di quanto profonda è la tana del Bianconiglio... e del fatto non secondario che di quella tana ne ha quasi toccato il fondo » disse, la voce melliflua e la faccia di uno psicopatico alla continua ricerca di un piacere perverso sempre più grande, sempre più soddisfacente.

Quelle parole attirarono l’attenzione dell’ex soldato, che sentì una sorta di fastidiosa puntura alla nuca mentre le sentiva pronunciare. « Cosa intendi dire? » domandò a Moriarty, che gli sorrise come un cacciatore di fronte alla sua prossima vittima completamente indifesa ed ignara del pericolo.

Sherlock tentò di fargli cambiare idea con uno sguardo profondo, uno di quello che solo fra di loro assumeva significato, ma John era ormai attirato da Moriarty come una mosca lo è dalla melassa.

« Hai mai notato delle stranezze, John? » cominciò allora Jim, avvicinandosi piano, fermandosi a meno di mezzo metro da lui; e lui immobile a guardarlo, ostentando la calma e la durezza del soldato che era stato (e che era ancora).

« Stranezze di che tipo? » chiese spiegazioni Watson, non facendo altro che alimentare l’ego di Moriarty e la sua voglia di giocare con qualsiasi persona avesse sotto mano.

« Qualsiasi. Nella logica, nel buon senso. Oppure tutto l’opposto, qualcosa troppo logico, di troppo esatto, qualcosa di scontato, di... conveniente. Di troppo conveniente » una pausa, il sorrisetto di superiorità ancora ben piazzato sulle sue labbra: « se ti dicessi che la realtà in cui vivi è tutta una bugia, come reagiresti, mi chiedo? » aggiunse poi, continuando a fissarlo negli occhi.

« John non ascoltarlo! » ripeté Sherlock per l’ennesima volta, ma non si mosse.

Sherlock Holmes era immobile in un angolo mentre Moriarty aveva superato quella che i suoi sensi avevano eletto a distanza massima di sicurezza, essenziale per permettergli di mantenere il sangue freddo. Come reazione a quell’intrusione nello spazio che solo Sherlock poteva occupare, John fece un passo indietro.

Moriarty sogghignò.

« Sei pazzo... » si ritrovò a sussurrare il medico in direzione di Jim, che annuì.

« Abbastanza, sì » ammise tranquillamente: « ma pensaci bene, Johnny-boy, rifletti. Com’è possibile che lui sia qui? » domandò, indicando Sherlock con un cenno del capo.

Il detective non si mosse, incatenando gli occhi a quelli di John in quell’attimo in cui Watson lo guardò. L’ordine che gli aveva ripetuto fino ad un attimo prima – “vattene!” – stava diventando ora un’implorazione in fondo a quelle iridi azzurre. “Fuggi” sembrava dire: “non ascoltarlo, perché ciò che ti dirà ti spezzerà”.

Ma John era testardo e curioso e voleva sapere. Sapere perché aveva sempre la sensazione che andasse tutto storto, che fosse tutto un copione recitato da qualcuno. Voleva sapere perché, pur essendo felice, si sentiva in colpa di esserlo.

Deglutì, prima di abbozzare una risposta, tornando a guardare Moriarty: « ha finto la sua morte » disse solamente.

James negò con il capo.

« Avrà trovato un modo... non lo so, non gliel’ho chiesto... » continuò, imperterrito ma sempre più fievole.

Jim negò nuovamente.

« Lui è... vivo? » sputò alla fine, trattenendosi per orgoglio dal pigolare quella domanda – quella che non era nata come domanda ma lo era diventata nel mentre.

Moriarty negò un’altra volta. « No, Johnny-boy. No » disse: « io mi sono sparato una pallottola in bocca ed il mio cervello è schizzato sul soffitto del Barts. Sherly si è buttato dal tetto e si è aperto la testa in due sul marciapiede come una mela, oltre che rompersi un numero considerevole di ossa e spiaccicarsi chissà quanti organi. Sai com’è, uomo versus cemento, direi che vince il cemento » scherzò.

John esitò un attimo, traendo un respiro breve ed istantaneo. « Stronzate » decretò poi: « lui è vivo, posso vederlo e toccarlo, è reale. Così come lo sei tu, per quanto la cosa mi dispiaccia, anche se non posso garantire che lo rimarrai ancora per molto » lo sfidò, minacciandolo.

Ma era come la minaccia di un leone ferito davanti a sei cacciatori di frodo con i fucili a doppia canna pronti a riempirlo di piombo.

Moriarty rise di gusto, salvo poi tornare serio tutto d’un tratto. « Non fare il bambino Watson, sei un medico, un uomo di scienza! » gli disse duramente: « cos’è la realtà? Qualcosa che puoi vedere e toccare? Cazzate. Fondamenti di Psichiatria Johnny: tipi di psicosi che prendono il controllo del tuo cervello e ti fanno credere quello che vuoi, che sia uno stimolo uditivo, tattile o visivo, persino olfattivo. Osserva, non limitarti a guardare! ».

« Non dirmelo! » urlò John a quelle parole, puntandogli il dito contro e facendo un passo avanti, arrivandogli dannatamente vicino con l’aria minacciosa del soldato. « Non azzardarti a dire quelle parole, in bocca a te non valgono nemmeno un quarto di quando le pronuncia lui » soffiò furente.

Quella storia stava prendendo una piega confusa ed incerta. La rabbia era l’unica reazione che conosceva per ricreare l’equilibrio perduto.

« Allora chiediglielo » lo spiazzò Moriarty, facendosi indietro quasi danzando ed indicando Sherlock con le braccia aperte: « chiediglielo. “Sei reale, Sherlock?” “sto sognando tutto, Sherlock?” » una pausa, il tono più basso di voce, il sorriso sornione bel cattivo delle fiabe: « “sono pazzo, Sherlock?” » sussurrò malizioso.

Come guidato da un marionettista, John posò lo sguardo su Sherlock, cominciando a respirare più profondamente per cercare di calmare il battito impazzito del cuore che stava per fargli esplodere la giugulare.

Holmes lo guardò, pacato e tranquillo, e l’unica cosa che riuscì a dire – a ripetere – fu: « non ascoltare ».

Non era un sì, ma non era nemmeno un no. Era Sherlock che evitava di rispondergli. Era Sherlock che non sapeva come rispondergli.

Oppure lo sapeva e non voleva farlo. Oppure non rispondeva perché sapeva che John aveva già capito. Di conseguenza, che anche John sapeva.

La logica lo colpì come un pugno alla bocca dello stomaco.

Prima apparizioni, fantasmi per la strada. Sherlock che torna e lui che si sfonda le dita prendendolo a pugni.

« Prendendo a pugni un muro, Johnny-boy » intervenne Moriarty.

Sherlock che deve rimanere nascosto perché il suo nome non è ancora stato riabilitato.

« Così che nessuno possa vederlo, così da costringere te a non parlare di lui a nessuno ».

Sherlock che dorme sul divano, che non può suonare il violino, che non può fare strani esperimenti per via dell’appartamento e della necessità di avere più privacy possibile.

« Non può fare niente che tu non sai fare, non può sapere niente che tu non sai già o che hai immaginato, creato appositamente per lui, per questo ».

E gli esperimenti che conduceva li faceva di giorno, quando lui non c’era. John rientrava a casa che i suoi attrezzi di chimica erano riposti in un angolo della cucina, puliti. Nessun foglio, nessun libro, nessun disordine di qualche genere: solo un ordine da sempre creduto ristabilito prima del suo rientro a casa.

« Un ordine che non è mai stato spezzato. I libri di Sherlock sono esattamente dove li hai appoggiati dopo averli presi da Baker Street, le beute e gli alambicchi sono impolverati. Intoccati. Mai usati da quando sono qui ».

Il caso. Il caso di Lestrade.

« Vecchio. C’è scritto “Henry Knight – Dartmoor/Baskerville” sulla copertina del fascicolo, hai preso anche quello a Baker Street ».

Consapevolezza. Un bolla di paura esplosa esattamente nel centro del petto. Il cuore in rapida accelerazione.

E... Lestrade?

« Non era reale » arrivò la puntuale risposta di Moriarty.

Mantenendo una calma solo apparente, John posò lentamente lo sguardo su Sherlock, che non aveva mai smesso di tenere i propri occhi chiari fissi su di lui.

« Quante... » cominciò, ma fu costretto a schiarirsi la gola per non far tremare la voce: « ...quante altre persone ho immaginato? » domandò al detective.

Questa volta, fu Holmes a rispondere.

« Mio fratello non è mai stato qui. Tu non vedi Mycroft dal giorno del mio funerale. Così come Lestrade. Lui ogni tanto lo vedi, ma non è mai stato in questo appartamento, non ti ha mai portato quel caso. Hai immaginato tutto » gli disse.

Fece fatica, John, a non perdere il controllo di se stesso. A non lasciarsi andare a quell’estrema punta di panico che grattava le pareti del suo stomaco in un conato di nausea.

Non poteva essere vero. Non poteva essere possibile. Lui aveva visto Sherlock, sempre, costantemente, per un anno intero. Dodici mesi. Trentun milioni di secondi.

Negò piano con la testa, trattenendo il respiro (aveva paura di fomentare la nausea, di doversi chiudere in bagno a vomitare o peggio, ammettere che fosse tutto vero e perdere tutto: la sanità mentale, il lavoro, la licenza di medico... Sherlock. Non poteva farlo. Non ora. Non si sentiva pronto.

Prendendo profondi respiri con il naso, la bocca serrata, si diresse in cucina. Le carte sparpagliate sul tavolo le aveva già viste molte volte – erano effettivamente del caso del Mastino – e le attrezzature chimiche di Sherlock avevano due dita di polvere sul vetro. Erano esattamente nello stesso posto in cui le aveva appoggiate un anno prima, entrando in quell’appartamento con lo scatolone tintinnante in mano, e da lì non erano mai state spostate.

« No... non è possibile... » soffiò, ora del tutto sconvolto.

C’è un momento che gli esseri umani temono, che vorrebbero non arrivasse mai. E stranamente non si tratta di momenti che riguardano la perdita di una persona cara, guai di qualsiasi genere, un proiettile nella spalla che minaccia di farti morire dissanguato nel giro di dieci minuti.

Il momento più temuto da un essere umano è quello in cui si smette di distinguere la realtà dall’immaginazione e tutto diventa un composto chimico mutabile, che contro ogni legge manualistica cambia i propri componenti a seconda dell’ambiente in cui si trova. La mente che controlla, la mente che è il computer centrale di tutto il corpo, la mente che fa provare dolore, piacere, caldo, freddo, che elabora i suoni, i sapori, gli odori, gli impulsi visivi, i sogni. Quella stessa mente che ha il compito di farci capire cos’è reale e cosa non lo è smette di portare avanti quel compito e mescola tutte le carte in tavola, al punto in cui niente è più distinguibile.

Al punto in cui si impazzisce.

Il calore di un paio di mani posate sulle sue spalle lo fece sobbalzare, ma non le scacciò. Le avrebbe riconosciute ovunque, quelle mani, e se non lo avevano spaventato quando impugnavano una pistola puntata contro la sua testa, non lo avrebbero spaventato mai.

Allora perché adesso ne aveva paura?

« Tu non hai finto di essere morto... tu stai fingendo di essere vivo » mormorò John, gli occhi sgranati fissi sul vuoto.

« Mi dispiace... » sussurrò a sua volta Sherlock.

« Perché, Sherlock? Perché sei qui? » domandò. Inutile osservare che in realtà, probabilmente, stava conversando con quella che era solo un’allucinazione, una copia, un’ombra di Sherlock che era la cosa più simile a lui che aveva potuto immaginare ed inconsciamente ricreare.

« Te l’ho già detto, John » una pausa da parte sua, la voce calma come al solito, profonda ed esattamente uguale a quella vera: « ne avevi bisogno. Avevi bisogno di me. Stavi crollando, John... ti sto proteggendo » spiegò.

« Proteggendo... ?! » chiese Watson incredulo: « io sto impazzendo... sei un’allucinazione, Sherlock, tu... tu non esisti! » esclamò, girandosi di scatto e liberandosi dalla presa gentile dell’amico.

Guardarlo negli occhi ora faceva male. Faceva pungere qualcosa all’interno del suo petto, frantumi di vetro che erano rimasti ignorati fino a quel momento, conficcati in ogni suo organo e tessuto vitale.

« Tu sei morto davvero... » realizzò in quel momento John, rendendosi conto di aver passato un anno intero immerso in una pazzia fuori misura, in un’allucinazione.

Sherlock era morto davvero e lui era pazzo. Psicotico. Delirante.

Holmes non gli rispose, facendo un passo indietro e lasciando le braccia lunghe contro i fianchi. Solo adesso, in quei comportamenti remissivi di una persona che non sa cosa dire, si rendeva conto che quello non poteva essere Sherlock. Si rendeva conto delle particolarità che non era riuscito a ricreare di lui, come l’iperattività frenetica e l’incapacità cronica di ascoltare i consigli degli altri.

Il vero Sherlock Holmes non sarebbe stato rinchiuso per un anno all’interno di un appartamento, sarebbe scappato fuori a costo di farsi catturare. Il vero Sherlock Holmes non avrebbe passato intere serate sul divano in sua compagnia, guardando film senza commentare. Il vero Sherlock Holmes non lo avrebbe amato nel modo in cui il falso Sherlock Holmes, quello creato dalla sua mente a difesa di se stessa, aveva fatto per mesi, ogni secondo di quei trentun milioni.

« Puoi sempre tornare indietro » intervenne poi Moriarty, appoggiato con la schiena allo stipite della cucina con il suo solito sorrisetto sulle labbra sottili: « puoi sempre chiudere gli occhi e liberartene. Di me e di lui. Ora sai che non è la realtà, puoi benissimo escluderla... è come ricalibrare una bilancia, John. Ti basta chiudere gli occhi » gli disse.

E fu esattamente quello che fece. L’ultima cosa che vide: gli occhi di Sherlock sui suoi. L’espressione triste ma consapevole di quelle iridi azzurre.

Chiuse gli occhi piano e, quando li riaprì lentamente, l’appartamento era vuoto.

Moriarty era sparito, Sherlock era sparito. Solo fogli di carta sul tavolo, le cose che aveva portato da Baker Street piene di polvere, se stesso e la sensazione di non poter più tornare indietro.

Deglutendo, guardò l’orologio al suo polso. Con il senno di poi se ne rendeva conto: probabilmente, se Sherlock fosse tornato davvero, se lo sarebbe tolto e lo avrebbe fatto riparare. Come doveva succedere alla loro amicizia, al loro rapporto: sarebbe stato aggiustato, ricucito, e pian piano ripristinato.

Ma non lo aveva mai fatto. E ora lo vedeva come un piccolo segnale, il suo istinto che aveva lottato contro ciò che la propria mente aveva strutturato. La scheggia di tempo di quel giorno era sempre stata a contatto con la sua pelle per ricordargli in silenzio che la realtà era il dolore, non il sollievo.

Sherlock era morto... avrebbe dovuto ricordarselo.

Maledetto, dannato Senno di Poi. Ti da l’idea di aver fatto la scelta sbagliata quando invece non si può sapere... e nel frattempo ti lascia lì, nel dubbio, ad affogare.

Poi alzò gli occhi.

Il suo sguardo vagò per l’appartamento vuoto e silenzioso, rimbalzando sulle pareti in penombra del salotto ed echeggiando nella solitudine.

Un’illusione. Mesi e mesi ad immaginare una cosa impossibile che non era mai avvenuta. Allucinazioni. Pazzia.

Era pazzo, chiunque l’avrebbe detto. Chiunque l’avrebbe capito. Chiunque l’avrebbe creduto, quando avrebbe raccontato quella storia.

Trattenne in un mugugno un sospiro pesante, deglutendolo come se fosse una sorsata di cicuta.

Un nuovo fiotto di dolore lo colpì all’improvviso, mentre a passo lento si dirigeva in salotto. Il rumore che i suoi passi facevano sul parquet era assordante, come spari, come mine anti-uomo nelle vaste terre dell’Afghanistan, dove il tuono di un’esplosione rimbombava come un colpo di cannone.

Cominciò a respirare più velocemente, il cuore cominciò a correre. Riconobbe facilmente l’attacco di panico. Non seppe come evitarlo.

Non voleva essere solo. No. Non ancora. Non dopo quell’anno. Non dopo Sherlock Holmes. Non gli aveva detto niente. Non gli aveva detto quanto ci teneva. Non gli aveva detto che gli era mancato. Non gli aveva detto come ci si sentiva ad essere sott’acqua tutto il giorno, tutti i giorni. Non gli aveva fatto capire che era la sensazione che provava in sua assenza. Non riusciva a respirare. Non voleva perderlo. Non voleva perderlo di nuovo.

E non importava se non era reale.

Era comunque una perfetta, stupenda illusione in cui vivere.

« S-Sherlock? » chiamò, sedendosi – abbandonandosi – sul divano con le mani sulle tempie. « Sherlock?! » urlò quando non ricevette risposta.

Era paura, era terrore. Era una sequela infinta di immagini di una vita vuota che sarebbe dovuta ricominciare da capo. Era come trovarsi scalzo a Baker Street, una seconda volta. Era come vederlo cadere di nuovo.

No.

« John? ».

La voce bassa e baritonale proveniva dal suo fianco, dalla parte del divano non occupata. Una mano con un tocco che avrebbe riconosciuto fra mille si posò sulla sua spalla, rimanendoci, confortante.

« John, stai iperventilando. Cerca di calmarti » sussurrò Sherlock, stringendogli appena la spalla.

Fece come gli era stato detto. Qualche respiro più profondo, gli occhi chiusi, la mente concentrata unicamente sul tocco caldo della mano di Sherlock.

La concretizzazione del ricordo di qualcosa che non avrebbe avuto mai più.

« Forse... » una pausa, un sorriso amaro e al contempo intriso di tristezza, il volto nascosto nelle mani giunte: « ...forse è meglio se telefono ad Harry » sussurrò.

Sconfitto, abbattuto, ferito in un luogo in cui non sarebbe stato più possibile guarire. Una ferita si era riaperta e sanguinava, bruciava, doleva maledettamente e lui non sapeva come curarsi, come ricucirsi.

Piccola, insignificante bambola di pezza travestita da soldato.

Sherlock, al suo fianco, gli si avvicinò ed appoggiò la testa sulla sua spalla. La mosse appena in assenso alla sua ipotesi. « Va bene... » disse poi a voce: « fa come vuoi. Io sono qui ».

John sorrise di nuovo.

« Lo so ».

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutto sommato, quel posto aveva un bel giardino. Tranquillo, curato. Nelle giornate di sole era godibile quasi quanto Regent’s Park. Salvo che non c’erano bambini, persone a passeggio con i propri cani o sportivi di qualsiasi tipo.

Sospirò, chiudendo gli occhi rilassato. Una lieve brezza fredda gli entrava nel colletto del cappotto, portando con sé il sentore dell’inverno quasi terminato. Profumando quasi di primavera ancora lontana.

« Arriva qualcuno ».

« Dottor Watson! » esclamò un uomo da dietro di lui, avvicinandosi chiuso nel suo camice bianco.

« Dottor Harris » salutò cortesemente John quando l’uomo gli arrivò accanto: « non dovrebbe smettere di darmi del “dottore”? Ormai credo di non essere più meritevole di tale carica » aggiunse, sorridendogli sereno.

Il collega, in piedi di fianco alla panchina su cui era seduto, gli sorrise a sua volta. « È vero, ma ritengo che lei sia un gradino più in alto rispetto al resto dei miei pazienti, dunque mi sembra ingiusto privarla del suo titolo... anche se solo a parole. Me lo consente, dottore? » domandò amichevolmente.

John annuì appena, tornando a guardare il giardino imbiancato dagli ultimi sprazzi di neve quasi sciolta. « È venuto a propormi una nuova terapia? » domandò dunque, osservando l’uomo in camice con la coda dell’occhio.

Quello annuì. « Vale la pena tentare, non crede? » domandò accondiscendente.

« No, non credo ».

John dovette trattenersi dal ridacchiare. « Dipende dai punti di vista, dottor Harris » ripose invece.

« E quale sarebbe il suo punto di vista, dottor Watson? » domandò l’altro, indagatore.

« Credo che lei lo sappia già » gli rispose: « e la prego... mi chiami John. Non sono così diverso dalle persone che sono qui, dopotutto » aggiunse.

« Non hai niente a che vedere con quella marmaglia, non abbassarti al loro livello ».

L’angolo destro delle labbra di John si alzò di nuovo, ma fortunatamente era nascosto allo sguardo del medico, che si fermò solo sulla sua nuca scoperta.

Alla fine, il dottore sospirò. « D’accordo, John... ma vieni dentro, fa freddo » gli disse.

John annuì. « Ancora qualche minuto... » disse semplicemente, continuando a guardare il giardino.

Il dottor Carlton Harris, psichiatra di fama internazionale, acconsentì e rientrò a passo svelto, infreddolito.

Al suo fianco, sulla panchina, Sherlock si mosse a disagio.

« Quel medico comincia a starmi antipatico, John »  disse ad alta voce, girando per un istante il capo in direzione dell’uomo in camice in procinto di ritornare al calduccio del suo studio.

John non poté più trattenersi dal ridacchiare. « Shhht, Sherlock! Parla piano » disse, portandosi un dito davanti alle labbra con fare quasi infantile: « ti sentirà ».

« No, John. Lo sai... » gli rispose Sherlock: « ...puoi sentirmi solo tu ».

 

 

 

 

 

 

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1. Referenze: "My name is Sherlock Holmes and the address is 221B of Baker Street. Afternoon!" (Uno Studio in Rosa - ep 1x01); "Want to see some more?" "Oh God, yes." (stesso episodio); "Listen, what I said before I ment it. I don't have friends. I just got one." (Il Mastino di Baskerville - ep 2x02); "Goodbye, John" (La Caduta di Reichenbach - ep 1x03).

 

2. I "cold case" - casi freddi - sono vecchi casi irrisolti e dunque archiviati. Può capitare che vengano riaperti se espressamente richiesto da un organo giudicante o se si trovano elementi in crimini recenti che possano far pensare ad una serialità o ad un emulatore.

   
 
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