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Autore: Padfootlover    09/06/2012    0 recensioni
Prima one-shot che pubblico qui su EFP.
Non è niente di che, ma volevo rendere omaggio a quello che è in assoluto il mio personaggio preferito dell'intera saga: Sirius Black.
Volevo immaginarlo in una di quelle terribili giornate che, da adolescente, ha passato a Grimmauld Place, le sensazioni che ha provato e i pensieri che hanno attraversato la sua mente in un momento come quello che ho provato descrivere.
Beh.. spero che vi piaccia! ^^
Buona lettura!
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Fissare il soffitto della propria camera poteva rivelarsi un ottimo diversivo in certi casi.
Peccato che non facesse passare il dolore.
E non era soltanto di dolore fisico che si parlava. Quello, anche se lentamente, poteva anche passare, ma c’è un tipo dolore che spesso nemmeno il tempo riesce a curare, a mandar via.
Quel genere di dolore che ti dilania dentro, ti paralizza, ma tu non puoi far niente per  farlo scomparire o quantomeno per  alleviarlo.
Il genere di dolore che solo in pochi hanno la sfortuna di poter provare, il genere di dolore che non augureresti nemmeno al tuo nemico più acerrimo, nemmeno alla persona che odi di più al mondo. Forse.
Ed è proprio la mancanza di un sentimento quale l’affetto da parte di persone che, invece, dovrebbero dartene e garantirlo, ma che invece ti trattano come feccia, come se la tua presenza fosse irrilevante, che la differenza se tu sia morto o vivo non sia affar loro; tutto questo causava quel genere di dolore.
Anche se viene preferibilmente etichettato, dal diretto interessato, con parole quali: “odio” o “rabbia”.
Non vuole provare dolore per loro, non meritano il suo dolore. Non meritano nulla, se non il suo disprezzo.
Ma lui, Sirius Black, non può farci nulla; stavolta il vecchio soffitto rovinato dall’umidità, non gli verrà incontro come invece spesso aveva fatto quand’era bambino, quando per non pensare alle solite parole colme d’odio che gli erano state urlate contro, nonostante fosse solo una ragazzino, si divertiva a trovare figure nel soffitto della sua stanza, che l’umidità cominciava a far rovinare.
No, era da un pezzo che non era più così, e allora in quei casi si trovava a tu per tu con i suoi pensieri, con quel dolore che non riusciva a mandar via e la cosa spesso lo sfiniva, lo deprimeva, gli faceva venir voglia di buttar giù ogni singola parete di quella che, invece di una casa, era come una tremenda prigione per lui, e di cui lui era l’unico prigioniero.
“Vi odio, vi odio tutti. Voi siete la feccia..”
Erano questi i pensieri che ricorrevano più spesso nella mente del primogenito Black, sdraiato sul materasso dell’enorme letto a baldacchino che padroneggiava la sua stanza.
L’odio era il sentimento giusto che meglio descriveva quello che Sirius provava nei confronti dei suoi genitori, o per meglio dire, della sua intera famiglia.
Sì, perché quel genere di mancanza era causata proprio da loro, quelli che dovevano essere i suoi genitori, ma che in realtà erano solamente due estranei che non facevano altro che ripetergli quanto fosse un fallimento, quanto lo considerassero feccia, alla stregua di uno dei tanti elfi domestici che si divertivano a decapitare, per passatempo, quando era troppo vecchi per servirli e riverirli.
No, non potevano essere definiti genitori quei due mostri, nemmeno lontanamente.
Lui non considerava loro come suoi genitori e loro facevano lo stesso con lui.
E questo perché? Perché aveva deciso di non essere come loro, di non condividere le loro stessi folli idee.
Lui non credeva alla purezza del sangue, a lui quei discorsi avevano sempre fatto venire il voltastomaco, si era sempre dimostrato contrario e per questo aveva pagato. Sempre.
Ma non si trattava soltanto di male parole o dolore fisico.
Era la consapevolezza che tutto ciò è causato da persone che, invece, dovrebbero difenderti fino alla morte, arrivare anche a sacrificarsi per te. Era la consapevolezza che per te non sarebbe mai stato così, la consapevolezza che non avresti mai avuto parole di conforto da loro. La consapevolezza che quello che ti sta torturando è tuo padre, o almeno, quello che avrebbe dovuto essere tuo padre.

Con non poca fatica si era rialzato dal pavimento dell’enorme salone ormai vuoto, padroneggiato dall’enorme stemma di una famiglia non sua, nel quale ancora riecheggiava l’eco delle urla, dei continui insulti di un uomo che non conosceva, che non aveva mai conosciuto; mentre lui, piegato in due dal dolore, lo guardava con il suo solito sorriso beffardo, ma che gli costava caro ogni volta.
Infatti era stato allora che il dolore era aumentato, che aveva sentito quegli aghi invisibili trapassargli la pelle, i muscoli, per poi conficcarsi nelle ossa.
No, l'Avada Kedavra non era la peggiore delle Maledizioni Senza Perdono.
La morte non era nulla a confronto.
 Ma lui non avrebbe urlato; oh no, non gli avrebbe dato questa soddisfazione, lo avrebbe fatto sfogare, per poi vederlo andarsene, mentre gli lanciava l’ennesimo sguardo disgustato, e sbattere la porta, lasciandolo lì, dolorante, ma con ancora quel ghigno stampato sulla faccia.
E sua madre?
Lei era quella che guardava quello spettacolo in silenzio, ma che poi avrebbe fatto altrettanto;  non una parola , se ne sarebbe uscita anche lei, non mancando di scoccargli un’occhiata di disprezzo.Era accucciato a terra, tremante.
Aveva tentato disperatamente di alzarsi, ma le gambe gli avevano ceduto. Aveva picchiato il labbro contro il pavimento.  Aveva sentito il sapore dolciastro del sangue invadergli la bocca.
“Vi odio, vi odio tutti. Voi siete la feccia..”
Ancora questa era la frase che pronunciava quando, con le ossa e i muscoli ancora doloranti, si trascinava fuori di lì, sputando a terra il sangue che aveva in bocca e che tanto odiava, data la sua fantomatica “purezza”.
 Si era aggrappato al corrimano, trascinandosi scala dopo scala, facendo ben attenzione a non lasciarsi sfuggire neppure un insignificante gemito di dolore, mentre a fatica percorreva quel tragitto che gli sembrava sempre più un calvario.
Fino a che non si era spinto con forza verso la porta della sua stanza, aprendola con non poche difficoltà  e fiondandosi sul materasso del suo letto, che lo “guardava” come ad invitarlo a distendersi.
Ma se doveva scegliere tra il dover affrontare quel calvario e il dover affrontare, successivamente, tutto quel flusso di pensieri, avrebbe scelto sicuramente la prima delle due opzioni.
Perché per quanto li odiasse, per quanto li disprezzasse, continuava a far male.
Continuava a far male il sapere che veniva disprezzato per qualcosa di giusto. Non era lui la feccia.
Loro erano quelli malati, malati di un morbo incurabile ma del quale Sirius sembrava immune, fortunatamente.
Ma quel dolore sembrava essere infinito e lui non voleva provarne, doveva essere solo odio quello che provava nei loro confronti. Loro non meritavano che lui soffrisse così.
Però più pensava e più si rendeva conto che, effettivamente, non era dovuto solamente a loro. Forse non lo era affatto, o semplicemente tutto ciò si tramutava in rabbia, frustrazione, voglia di ribellarsi. Semplicemente era solo quello.
Possibile? Sì, lo era.
Non avrebbe resistito ancora molto a lungo prigioniero in quell’inferno, nel quale era stato costretto già per troppo tempo. Prima o poi sarebbe stato davvero libero; niente più sguardi malevoli, niente più insulti, niente di niente. Non avrebbe più voluto sentir parlare della “antichissima e nobile casata dei Black”, libero, come aveva sempre desiderato.
Ma allora cos’era che lo opprimeva in quel modo? Se non erano rabbia e frustrazione per come era stato sempre trattato, cos’era a non dargli pace e ad impedirgli di chiudere occhio, quando al momento era ciò che più desiderava?
La risposta era lì, a portata di mano, per così dire, ma Sirius non voleva darsi una risposta, o meglio, non voleva darsi QUELLA risposta; già la sapeva, solo che preferiva di gran lunga rimanere nella propria ignoranza, cioè, vivere nell’illusione di ignorare ciò che gli avrebbe fornito QUELLA risposta.
Purtroppo non era sempre così facile.
E quella sera Sirius era stremato: sia fisicamente che psicologicamente. Non aveva voglia di mettersi a competere con il suo stesso cervello e aspettare che uno dei due desistesse. Non quella sera, almeno.
No, per una volta (una?) lo avrebbe lasciato vincere.
‘Hai perso, caro Sir’ gli diceva, ma lui era troppo stanco per ribattere e così lo ignorava.
Poi, inevitabilmente, un nome cominciò a farsi spazio nella sua mente, e forse quello era la sola causa di quel malessere che provava continuamente e che si portava dietro e che per  “comodità” continuava ad attribuire ad altre persone, nascondendone il vero significato. Era più facile così, piuttosto che ammettere la verità.
Nel suo caso QUELLA verità aveva un nome e un cognome: Regulus Black, suo fratello minore.
Inutile era fingere, per quanto lo negasse, si sentiva chiaramente ancora legato a lui.
Era per lui che ancora resisteva a tutto, anche se lui probabilmente non se ne rendeva neppure conto.
In fondo sperava che lui capisse, che non si lasciasse fare il lavaggio del cervello; ma più i giorni passavano, più lo vedeva distante, si rendeva conto che il loro rapporto, già precario di suo, si andava sfaldando. Ormai ne era rimasto più poco e lui era sempre più vicino a “loro”.
Ecco, era questo che lo torturava realmente.
Lui che non era mai stato forte abbastanza per potersi ribellare, stava cedendo gradualmente.
Per questo lo odiava. Perché non ce l’aveva fatta, come lui.
Egoista? Forse. Ma non avrebbe cambiato le cose esserlo o meno.
E forse, sotto sotto , odiava anche se stesso perché era consapevole che presto o tardi lo avrebbe abbandonato, lo avrebbe lasciato solo, a fare i conti soltanto con se stesso.
Ma per sedici lunghissimi anni era stato lui ad essere solo in quella casa; non spettava anche a lui un po’ di libertà?
Lo sguardo tornò a vagare per la stanza: dagli stendardi di Grifondoro, alle foto di motociclette fino ad arrivare ad una foto che ritraeva coloro che considerava la sua vera famiglia: i suoi amici, i Malandrini, che gli sorridevano felici, salutandolo con le mani.
Una sensazione piacevole lo attraversò lentamente e gli fece dimenticare dov’era, cosa fosse successo e quei pensieri che lo stavano torturando.
Sorrise, socchiudendo gli occhi.
‘Libero..’
Una parola che solo apparentemente si andava perdendo nel silenzio di quella stanza, mentre il giovane Sirius finalmente si concedeva una meritata tregua, in una battaglia nella quale pochi sarebbero stati in grado di sopravvivere.




“I look inside myself and see my heart is black,
I see my red door and it’s heading into black,
maybe then I’ll fade away and not have to face the facts,
It’s not easy facing up when your whole world is black..„
{Paint It black – The Rolling Stones}
  
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