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Autore: Tenar80    10/06/2012    0 recensioni
Nell’Arcipelago i giorni hanno tutti più o meno la stessa lunghezza e non siamo soliti misurare il tempo in anni, ma nel corso della mia vita le balene erano già tornate quindici volte a innalzare i loro canti d’amore davanti all’Isola Lunga, quando arrivarono gli Uomini Luminosi.
La storia di Ehlohe è la primissima che pubblico qui. Racconta di persone e mondi che si incontrano e che si infrangono e incantesimi intessuti col sangue.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Qualche nota: è la prima storia che posto qui, per cui sono ancora piuttosto maldestra, specie per quel che riguarda la conversione del file.
Amo scrivere storie fantasy nelle quali, spesso, non accade nulla di fantasy, qui almeno c’è un po’ di magia. Mi rendo conto che Ehlohe non è forse un gran personaggio, ma mi piace il modo in cui si sforza di essere oggettiva nel raccontare una storia che, in fondo, è sua solo in parte.
Chiunque vorrà lasciare un commento è, ovviamente, benvenuto.
Non ricordo cosa pensavo e cosa mi aspettassi. Ero oltre la speranza e la paura, credo. 
 Il mondo era finito. 
 La ragazza che ero stata non esisteva più. 
 Sulla spiaggia, dall’altra parte della penisola su cui sorgeva il villaggio rispetto alla baia delle ossa di balena, c’era l’accampamento degli Uomini Luminosi. Vi erano ancorate navi più grosse dei più grandi tra i cetacei e c’erano tende colorate sulle dune. L’uomo vestito di rosso si diresse ad una tenda, dicendo qualche stanca parola a quello che mi conduceva.
 Fui portata nel torrente e fatta lavare e poi mi fu data una veste non tinta di una stoffa ruvida che pungeva sulla pelle.
 Quando entrammo nella tenda, il mago del re dormiva. Vidi che aveva i polsi coperti da larghe strisce di cuoio. 
 L’ambiente era semplice, uno spazio per i giacigli, due casse, un focolare. C’era un cesto di pesce fresco e della frutta e l’uomo che mi aveva in carico mi fece segno di preparare un pasto.
 Così ebbe inizio la mia vita di schiava. Non rividi più mia madre o mia sorella. Non so se siano ancora vive o se sia meglio per loro che non lo siano. 
 Rimasi nel campo per un tempo che ora misurerei in mesi.
 Avevo compiti semplici. Pulivo la tenda, preparavo il cibo, andavo al torrente a lavare le vesti. I primi giorni, il mago non fece altro che dormire. Poi, piano, riprese ad alzarsi e da come lo trattava l’altro uomo era chiaro che era stato malato. Tutti, però, nel campo lo trattavano con deferenza e passava molto tempo a parlare con gli altri capi, a leggere e a scrivere, cose che io non avevo mai visto fare.
 Appresi che il suo nome era Azel e quello del servo Pollok. Azel era brusco con me. Mi dava ordini a gesti, scandendo bene una parola. La volta successiva ripeteva quella parola, senza il gesto, e se non capivo subito si irritava. Non gli piaceva come cucinavo e annusava le vesti che gli avevo lavato e rammendato prima di metterle. Non mi toccava mai, ne per picchiarmi, ne per portarmi nel suo letto. Le altre ragazze dicevano che ero fortunata.
 Di tutta la mia gente, vedevo solo le altre quattro ragazze che quel giorno erano state con me a pulire il sili. Insieme andavamo a fare il bucato al torrente, parlavamo la nostra lingua e cercavamo di capire cosa fosse accaduto.
 Essendo state trovate da uno dei capi lontano dallo scontro, i soldati non ci avevano toccato, per questo eravamo state scelte per diventare schiave dei capi. La nostra gente, invece, era stata portata all’interno, verso le montagne, per lavorare all’estrazione del metallo giallo. Era stata la magia del mago del re, mi dissero le altre, un portento più forte di quelli del nostro stregone, a far bruciare le capanne e a distruggere le nostre armi di legno.
 Con i giorni, l’impazienza di Azel iniziò a cambiare forma. Mi indicava le cose e ne pronunciava il nome nella sua lingua, poi me faceva ripetere la parola, infine mi mostrava come scriverla sulla pergamena e spesso mi obbligava a ricopiarla. Io, però, ero troppo apatica e triste per essere una buona allieva, così lui si spazientiva subito e mi mandava via.
 - Solo una perdita di tempo. - borbottava.
 Credo siano state le prime parole in questa lingua che io abbia compreso.
 Quando non leggeva, non scriveva, non era fuori con gli altri capi e non si irritava con me, preparava strani miscugli in ampolle di vetro, mescolando polveri e liquidi che tirava fuori da una cassa che non mi era permesso toccare. 
 Ci volle del tempo, però, prima che gli vedessi fare una vera magia.
 Si stava costruendo qualcosa più a monte, dove erano stati portati gli altri del villaggio e i capi andavano e tornavano da là al campo. Un giorno, uno dei capi più importanti fu portato su una barella nella nostra tenda. Qualcosa gli era caduto su un piede, che adesso era solo una massa di sangue e di carne. Vederlo così, indifeso e sofferente, mi fece sentire bene.
 Azel lo fece sistemare nel suo giaciglio e si tolse le fasce di cuoio dai polsi. Come lo stregone del villaggio, aveva molte cicatrici, rosse sulla pelle bianca. Alcune, due per ogni polso, si stavano appena chiudendo e Azel fece una smorfia quando con un coltello ne dovette riaprire una. Del sangue cadde sul piede ferito, meno di quanto lo stregone ne aveva usato per mio padre. Non cantò e non disse niente. Chiuse gli occhi e tenne la mano sopra il piede. E questo guarì. 
 Azel, però, era sudato e tremava e Pollok borbottò parecchio mentre si occupava del suo polso.
 - Non avrebbe dovuto usare il sangue così presto, neppure per il comandante. - mi disse quella sera.
 Ormai capivo abbastanza la lingua per seguirlo e Pollok sembrava soddisfatto di avere qualcuno con cui parlare. Mi chiamava “bambina” e mi trattava proprio come se fossi piccola, parlandomi piano e spiegandomi lentamente i concetti.
 Era soddisfatto di essere il servo di un mago. Mi spiegò la differenza tra lui e me. Lui era un servo, riceveva una ricompensa per il suo lavoro, dei pezzi di metallo giallo, e, se avesse voluto, avrebbe potuto lasciare il servizio. Io ero come un oggetto, appartenevo in tutto e per tutto ad Azel.
 - Ma come una cosa preziosa e fragile, che deve essere trattata con cura. - aggiungeva.
 Seppi che Azel aveva ventitré anni ed era giovane per essere un mago del re. Si era imbarcato per aiutare un mago più anziano, ma questi era morto durante il viaggio, così Azel si era trovato a compiere magie che non avrebbe dovuto fare da solo e, dato che ogni portento aveva un prezzo di sangue, Pollok era preoccupato per lui.
 Per tutto quel tempo non pensai mai di fuggire. Avrei potuto farlo. Ero sulla mia isola, avrei potuto andarmene di notte e cercare di raggiungere uno dei villaggi dall’altra parte della montagna, che forse erano ancora liberi. Forse.
 Facevo fatica a mettere a fuoco i pensieri. Di notte avevo incubi che non ricordavo, di giorno tremavo per ogni rumore forte o piangevo, senza sapere bene il perché, mentre pulivo il pesce o rammendavo un abito.
 Senza volerlo, mi abituavo ad Azel, mente lui si abituava a me. Più lo capivo e più lui aveva pazienza a spiegarmi le cose. Gli piaceva insegnare e io appresi allo stesso tempo a parlare, a leggere e a scrivere in una lingua che mi era estranea. 
 Capii che i suoi intrugli erano per lo più medicine e che gli piaceva curare, con le erbe o con la magia. A volte, però, doveva andare verso la montagna per compiere magie del sangue che non erano di guarigione. 
 Tornava debole e irritabile e anche lui aveva gli incubi nelle notti seguenti.
 Arrivò una notte in cui entrambi non riuscivamo a dormire. Pioveva, la pioggia rabbiosa dell’Arcipelago, un rumore quasi insopportabile.
 - Perché la tua magia è stata più forte di quella del nostro stregone? - chiesi.
 - Anche il tuo stregone usava la magia del sangue? - chiese lui.
 Gli raccontai di mio padre e della sua gamba e nel farlo piansi. 
 Per la prima volta, lo vidi imbarazzato.
 - Perché noi sappiamo calcolare il coefficiente di moltiplicazione. Sappiamo calcolare quanto sangue esattamente serve per moltiplicare la nostra forza di volontà. La magia è stata elevata dalla scienza alla massima efficienza.
 - Una goccia per trovare, due gocce per salvare. Niente vale tre gocce di sangue. - ripetei.
 Lui fece un sorriso amaro.
 - Avevate uno stregone saggio. Noi invece abbiamo un re avido. 
 Infine, venne il giorno in cui altre navi enormi giunsero nella baia. Ne scesero altri uomini, soldati, ufficiali e tre uomini vestiti di rosso che passarono molto tempo a parlare con Azel. 
 Pollok era entusiasta.
 - E’ arrivato il cambio. Presto torneremo a casa. - mi disse.
 Ma la mia casa era stata bruciata.

   
 
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