Carissima
mamma,
è nel furioso divampare delle fiamme di quest’inferno, nella mancanza
di tutto ciò che un tempo avevamo avuto, nella completa privazione di qualsiasi
cosa ci fosse appartenuta, che il ricordo di te è ancora vivido, come la luce
di una stella. La stella che ogni tanto viene nascosta dalle nubi dell’inverno,
ma sempre ricompare fulgida nel cielo, ad infondermi un attimo di gioia, di
speranza. Ma che cosa spero, dopotutto? Cosa mi illudo di poter cambiare
soltanto drogandomi di illusioni, nutrendomi di sogni irrealizzabili?
Ogni giorno siamo già svegli da un pezzo quando un livido sole malato
sorge oltre il filo spinato della recinzione. E noi siamo lì, in piedi nella
neve o nella terra fangosa, e talvolta quel sole non possiamo neanche vederlo,
perché le nuvole o la foschia si ergono intorno alla Prigione come una
muraglia. Una muraglia impenetrabile, una muraglia di lacrime, riflesso
ingrigito e opaco delle nostre anime, che pure annegano nell’atonia di giorni tutti
ugualmente pieni di angoscia, anime costrette in un corpo diventato troppo
piccolo, anime in un involucro sudicio, misero, niente più che un guscio vuoto,
una buccia essiccata al sole.
Freddo, fame, nausea, dolore, disperazione…. Mentre lo spirito e il
corpo sono fustigati dalle fruste di queste orribili torture, la mente non
reagisce e, passiva, accetta semplicemente tutto ciò che le viene imposto.
Strappati ai nostri cari, privati dei nostri affetti e d’identità
propria, resi talmente insignificanti da non avere più nulla di diverso dal
resto dei disgraziati che condividono con noi la Prigione. Non siamo più noi
stessi, siamo prigionieri. Prigionieri dei tedeschi. Prigionieri, a volte,
perfino incapaci di provare odio verso gli odiati carcerieri; tutti noi siamo
così distrutti, così incommensurabilmente devastati da non renderci conto più
di nulla, ormai.
C’è fra noi prigionieri chi conserva una scintilla di speranza, o lo
spirito ardente di chi ancora ama la sua patria, e non vede l’ora di farvi
ritorno; ma nessuno sa quando finirà tutto questo, nessuno sa se torneremo mai
a casa. Infine anche le ultime speranze rimaste in quei pochi uomini capaci di
conservarle verranno distrutte, macellate dalle percosse dei nostri aguzzini.
Le fede di un tempo, la fede in una giustizia che tutti noi avremo un giorno
ricevuto, non è più nient’altro che uno straccio logoro: sembra che ogni giorno
altri innocenti muoiano, e che i responsabili del genocidio resteranno per
sempre impuniti.
Eppure io ti scrivo, mamma, affido a un foglio di carta le mie parole,
non so se per rammentare a me stesso che ancora una linfa di vita scorre nelle
mie vene, o se per dimostrarti che il tuo ricordo perdura in me…. e per darti
prova, ancora una volta, di tutto l’immenso amore che provo per te anche (e
soprattutto) in questo frangente. Spero che questa mia lettera possa riuscire
in tutti questi scopi.
Ma a te, mamma, chiedo di non piangere per me e per il destino che mi
è stato riservato. A te chiedo di non perdere i tuoi giorni, i tuoi mesi, i
tuoi anni in lacrime, perché se io sapessi che la malinconia e la tristezza
hanno offuscato la luce della tua stella, sarei completamente perduto.
In qualche modo forse tornerò; ma anche se non dovessi farlo, se
dovessi morire qui, vorrei che mi ricordassi per come sono stato un tempo,
vorrei che tutti voi mi ricordaste in una forma migliore di quella in cui sono
ora. Perciò, dopo che avrete letto queste parole, datele al fuoco del
caminetto. E ricordate di come sono stato un tempo, perché un giorno, se esiste
giustizia almeno in Paradiso, allora ci incontreremo, e tutte le sofferenze che
abbiamo vissuto su quest’incubo terreno saranno dimenticate.
Un abbraccio dal fondo del cuore a te, a mio padre e ai miei fratelli
e le mie sorelle, e a tutti gli amici che hanno avuto la fortuna di sfuggire ai
tentacoli della piovra furiosa nazista, sperando nella felicità di voi tutti e
inviandovi tutto il mio immenso amore,
Sergio.