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Autore: _joy    12/06/2012    2 recensioni
 E nemmeno la felicità di vederlo così felice, di saperlo così vicino
mi prepara alla gioia, all’incredulità, alla meraviglia
che le tre parole che seguono riescono a suscitare in me:
«Gin, ti amo»
 
Gin/Ben 
[Serie "Forever" - Capitolo II]
 
 
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forever'
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Sono in piedi davanti allo specchio della stanza che ormai è mia e di Ben, a casa di Tommaso, e mi sto passando il mascara per la seconda volta.
Ok, sono pronta.
Ho un vestito di raso verde smeraldo, monospalla. Volevo raccogliere i capelli, ma so che a Ben piacciono di più sciolti e quindi li ho pettinati in modo da farli ricadere sulla spalla nuda.
Mi sono truccata gli occhi (di solito metto solo il mascara, ma stasera è una serata speciale) e ho messo i tacchi alti.
E – anche se non dovrei dirvelo – ho un bellissimo completino di pizzo nero.
Fatta anche questa confessione, sono pronta per uscire.
Prendo la pochette e apro la porta. Accidenti ai tacchi. Speriamo di non cadere. Mi ci mancherebbe solo questo.
Ben mi aspetta in salotto, seduto sul bracciolo del divano. Alza gli occhi dal giornale che sta leggendo e i nostri sguardi si incrociano. E lui resta in silenzio.
Mi squadra da capo a piedi e io arrossisco.
Poi lo vedo sorridere.
«Sei stupenda» mormora avvicinandosi. Mi tende la mano e io gliela stringo. Con l’altra, lui mi fa una carezza lungo il fianco.
Io mi avvicino ancora di più e lui mi stringe. E mentre mi abbandono tra le sue braccia, lo sento sussurrare:
«Dobbiamo proprio uscire?»
Sorrido.
«Sì, perché questa è la tua serata speciale»
«A me va bene anche se restiamo qui» tenta di convincermi lui.
E, in effetti, ci sto già quasi ripensando. Accidenti.
Faccio uno sforzo e mi stacco e lui borbotta. Allora gli do un bacio, ma lui mi stringe di nuovo e mi trascina verso il divano. Le sue mani trovano la zip del vestito e la abbassano di qualche centimetro.
Ecco, ho già la tentazione di sfilargli la camicia.
Ma alla fine, perché no? Possiamo uscire domani penso, mentre faccio correre le mani sul suo petto e inizio a sbottonarla.
Ben sembra pensarla come me.
«Ti dispiacerebbe molto se uscissimo domani?» mormora.
«Stavo pensando la stessa cosa. Mi leggi nel pensiero?»
Lui sorride.
«Vediamo se indovino a cosa pensi» mi slaccia completamente la zip.
Sento il vestito frusciare mentre lui infila le mani nell’apertura e mi accarezza la schiena. Mi abbandono tra le sue braccia.
Ci baciamo ancora, ma, quando faccio per tirarlo sul divano, lui esita un attimo.
«So che ci tenevi a uscire. Se davvero vuoi possiamo…»
Ho già cambiato idea.
«No, dai…volevo una serata speciale con te, ma non è detto che dobbiamo uscire per averla»
«Giusto» sorride lui.
Ma io sussulto all’improvviso.
«A parte il fatto che c’è Tommaso in camera sua»
E le mie parole hanno l’effetto di una secchiata d’acqua fredda.
Ben sgrana gli occhi.
«L’avevo dimenticato. Cavolo»
Io gli appoggio la fronte sul petto.
«Dici che se restiamo…»
«…ci tormenterà? Sì»
Io bofonchio qualcosa e lo sento ridere piano. E darmi un bacio sul collo.
«Sei così bella che mi fai dimenticare dove siamo. E che c’è il nemico in casa» scherza lui «Allora andiamo, principessa. Magari torniamo presto»
Mi fa voltare per allacciarmi la zip e mi dà un bacio sulla pelle nuda della spalla. Ho un brivido.
Poi mi volto per abbottonargli la camicia. Lui sorride e mi lascia fare.
Allaccio con cura meticolosa ogni singolo bottone e poi sospiro. Mi è passata la voglia di uscire. Ma Ben prende la sua giacca e la mia e mi tende la mano.
«Dove andiamo?» mi chiede.
«Sorpresa» rispondo, enigmatica.
«Nemmeno un indizio?»
«No, niente da fare»
«Un bel posto perché sei bellissima?»
«Anche tu sei bellissimo»
È vero. Sempre. Anche quando è vestito molto semplicemente, come stasera.
Ha dei jeans scuri e una camicia bianca aperta sul petto. I capelli spettinati ad arte, in cui è solito passare la mano, e un accenno di barba.
E quando sorride, come ora, io non capisco più nulla.
Usciamo abbracciati e andiamo a piedi. È una bellissima serata.
Solo che io ho messo i tacchi e, effettivamente, il posto non è vicinissimo. O meglio, è vicino per l’ottica milanese, il che significa una mezz’ora a piedi.
Ahia. Ma perché non ho preso la macchina? Ah già, non c’è parcheggio.
Dopo un po’, Ben mi guarda perplesso.
«Tutto bene Gin?»
«Certo!»
Maledette scarpe. Sono talmente abituata alle sneakers che è una tortura. Mi appoggio un po’ di più a Ben e lo sento che mi stringe con il braccio.
«Sicura? Mi sembri strana»
Faccio una smorfia.
«È colpa delle scarpe»
Lui si ferma e mi guarda perplesso. E poi si mette a ridere.
«Gin…non ci credo. Ma perché le hai messe?»
«Perché stanno bene con il vestito!»
«Ma se non riesci a camminare, non mi sembra comunque una buona idea»
«Ma io stasera volevo essere carina!»
La sua espressione, da divertita che è, si addolcisce subito.
«Tu non sei carina, sei bellissima» mi abbraccia.
Io passo le braccia attorno alla sua vita. Vorrei restare così tutta la sera, ma se non ci sbrighiamo ad arrivare o butto le scarpe o alzo bandiera bianca.
 
Ma quando arriviamo, ovviamente c’è fila. Lo sapevo e do i nostri nomi all’ingresso.
«Dove siamo? E perché c’è tutta questa gente per strada?» mi chiede Ben, perplesso.
Immagino cosa deve sembrargli. Il marciapiede di una traversa, pieno di gente. Nessuna insegna particolarmente evidente, ma un buttafuori con una lista in mano e l’espressione arcigna. Nessuna luce, niente di niente.
Lo prendo per mano e lo porto alla banca all’angolo, così posso lasciarmi cadere sul gradino. Sospiro soddisfatta e mi sistemo il vestito. Ben si siede accanto a me.
«Siamo al Nottingham Forest, uno dei 60 locali più belli del mondo. E non lo dico io, ma non so che classifica mondiale. C’è sempre una fila spaventosa, ma ho sentito dire che ne vale la pena. Hanno dei cocktail pazzeschi, sono famosi per quello»
«Sì, l’ho sentito dire quando mi ci hanno portato a New…» Ben si interrompe di botto.
Ma è tardi perché l’ho sentito.
«Cosa?????» strillo.
«Gin, oddio, scusami…scusa, fai come se non avessi parlato…»
«Ci sei già stato?» sono mortificata.
Vedo che vorrebbe negare e rimangiarsi quello che gli è sfuggito, ma sa che non può farlo. Mi prende la mano.
«Ascolta, mi dispiace tanto. Sono stato uno stupido, non dovevo dirlo»
«No…perché dovresti dirmi una bugia?» sono tristissima.
«Non è una bugia! Insomma, hai organizzato questa serata per noi due e io dico una stupidaggine e ti faccio arrabbiare…» sembra pentitissimo.
«Non sono arrabbiata, solo dispiaciuta. Volevo portarti in un posto carino…»
«Sono sicuro che è bellissimo! Io qui non ci sono mai stato!»
«Ma io volevo portarti in un posto speciale! Originale! E invece già lo conosci…»
«Non importa dove mi porti, se ci vengo con te! Davvero! Gin, scusa, scusami… ti giuro che il posto a New York è bruttissimo!»
E a quel punto scoppio a ridere. Non posso trattenermi di fronte alla sua espressione contrita. Ben non se lo aspettava e sgrana gli occhi. Poi mi stringe forte.
«Scusa» mi bisbiglia ancora.
«Ben, non sono arrabbiata, ci mancherebbe. Non è colpa tua se ti hanno già portato al Forest» gli accarezzo i capelli e lui sembra rilassarsi, ma non si stacca da me.
«Davvero?»
«Ma certo! Mi dispiace solo averti fatto pensare che ti avrei portato chissà dove, e invece per te non è niente di che»
Mi sento anche abbastanza stupida, a pensarci.
Insomma, lui ha girato il mondo. Probabilmente la sa idea di un posto speciale è…non so, la Tour Eiffel, una piramide in Egitto, l’Empire State Building?
Mmmm. Che idiota. Potevo pensarci prima, in effetti.
Sono assorta in questi pensieri quando Ben si stacca da me per guardarmi negli occhi. Mi mette una mano sulla guancia.
«Gin, dico davvero. Qualsiasi posto in cui vado con te per me è speciale. Anche il McDonald. Non importa dove andiamo, se ci sei tu. È sempre una serata speciale»
Sono cremisi.
Lo abbraccio forte.
«Davvero?» stavolta lo chiedo io.
«Ma certo, piccolina»
«Va bene, dimmi ancora che il locale di New York è bruttissimo»
Scoppia a ridere.
«Orrendo!»
«Mi sento così stupida…»
«Cosa? Perché?» Ben è di nuovo allarmato.
«Perché tu sei stato ovunque! Hai visto qualsiasi cosa! E io che pensavo di fare chissà che…»
«Gin, come devo dirtelo? Non è stato niente di che a New York! Insomma, una serata con i colleghi. Con te è diverso, adesso»
«Sì, ma…»
«Ma niente ma. Oh, quanto sono stupido! Non potevo stare zitto?»
«Per carità, mi sentirei anche più idiota. Ci pensi? Io tutta entusiasta e tu che già sai tutto…no no, meglio che tu me lo abbia detto»
Non sembra convinto. Ma in quel momento chiamano il mio nome.
Ci alziamo (io con enorme difficoltà, dati i tacchi…ma perché mi sono seduta per terra?) ed entriamo.
Dentro è minuscolo, molto intimo. Ci sediamo e Ben continua a tenermi la mano. E a fissarmi con un’aria da cucciolo pentito.
Mi sento anche una stronza.
Gli faccio un sorriso e lui tende anche l’altra mano sul tavolo. Gli porgo la mia e lui me le stringe entrambe.
Tenta di scusarsi ancora, ma io lo interrompo, lo rassicuro, ci scherzo sopra. Ma non so se l’ho convinto. È talmente sensibile e attento e premuroso che probabilmente ora davvero gli ho rovinato la serata.
Accidenti. Devo rimediare.
Mi alzo e vado a sedermi accanto a lui. Mi fa subito spazio, ma siamo praticamente incollati sulla minuscola panchetta di pelle. Gli passo un braccio dietro la schiena e mi allungo per baciarlo.
Dopo un po’ un cameriere posa due menù sul tavolo, ma noi li ignoriamo, troppo presi da quello che stiamo facendo. Solo che il cameriere ripassa due volte, schiarendosi garbatamente la voce. Probabilmente la fila fuori ha raggiunto proporzioni allarmanti.
Allunghiamo svogliatamente la mano su un menù, uno solo per entrambi. Ben posa la guancia sulla mia spalla mentre io sfoglio le pagine.
È un libro, più che un menù. Ti spiegano ogni singola proprietà degli ingredienti che usano. E  fanno cocktail con ingredienti assurdi, letteralmente: perle triturate, cianuro, afrodisiaci vari, ricostituenti per capelli (eh?), diamanti…diamanti?
«Questo cocktail costa 3500 Euro!!»
Ben aggrotta la fronte.
«Ah, è quello con il diamante?» dice e poi si morde un labbro.
Probabilmente si sta ancora maledicendo per la frase che gli è sfuggita prima. Ma non è colpa sua, è colpa mia. Chissà cosa credevo di fare.
Gli do un bacio sulla tempia.
«A quanto pare, il loro gioielliere si arricchisce molto» ribatto, indicandogli un trafiletto che invita a prendere appuntamento con il gioielliere del locale per decidere caratura, grandezza e taglio della pietra. Prima che ti venga infilata nel bicchiere.
«E se te lo bevi per sbaglio?»
Lui ride.
«Se lo bevi per sbaglio, il tuo ragazzo si incavola di brutto!»
«Ma secondo te chi farebbe un regalo del genere? O una proposta di matrimonio così?»
Lui arriccia il naso.
«Un pazzo?»
Io rido.
«Allora, cosa mi consigli di bere?»
Lui mi guarda smarrito.
«Gin…»
«Ben, non è una frecciata. È proprio una domanda. Non voglio rinfacciarti che sei già stato qui, per carità. Volevo solo un consiglio: c’è qualcosa di particolarmente buono? Che ne so, il cianuro, l’arsenico…»
Lui sorride, mogio.
«Allora, mi sa che un mio collega aveva preso proprio il cianuro…»
Comincia a raccontarmi di quella serata newyorkese. All’inizio è un po’ esitante, penso che abbia ancora paura di offendermi. Ma io mi accoccolo tra le sue braccia, gli accarezzo i capelli, le guance, il collo, lo stuzzico coprendolo di baci.
Lo sento che si rasserena. Mi stringe più forte. Mi bacia il collo e poi le labbra. Le sue mani, sotto il tavolo, sono posate sui miei fianchi. Io accavallo una gamba sopra le sue e lui inizia ad accarezzarmela.
Io sorrido e nascondo il viso nella sua spalla. Trattengo il fiato quando sento la sua mano accarezzare lentamente la mia pelle nuda, sulla spalla. Si china per darmi un bacio.
Il cameriere ripassa per la centesima volta, guardandoci male. In tutto, ci saranno dieci tavoli minuscoli, penso che ormai ci odi.
Io prendo il cocktail con le perle. Ben, invece, ordina un cocktail dal nome impronunciabile e il cameriere commenta, secco:
«Bene, signore. Una scelta particolare»
Io lo guardo perplessa, mentre Ben gli sorride serafico.
«Grazie»
E lo liquida sorridendo.
Poi mi indica il menu. Ha preso un afrodisiaco!
Io scoppio a ridere, mentre lui fa una smorfia buffa.
«Sei terribile, anche se sembri un angelo…»
«Se lo meritava! E comunque, quel cocktail promette meraviglie…»
Scoppia a ridere quando io tento di dargli uno scappellotto e mi afferra i polsi. Ridiamo e ci contorciamo sul divanetto finché un’altra coppia non ci guarda seccata.
«Basta, fai la brava» mi dice lui, scherzoso, cercando di non mettersi di nuovo a ridere.
«È colpa tua» bisbiglio io di rimando.
Mi stringe di nuovo tra le braccia e restiamo in silenzio, paghi della reciproca vicinanza. Gli chiedo di raccontarmi ancora di New York e resto stretta a lui, cullata dalla sua voce e dalle sue carezze.
Fino alla seconda secchiata d’acqua gelida della serata.
Il cellulare di Ben suona e lui lo estrae dalla tasca. Dà un’occhiata al display e mi chiede:
«Ti dispiace se saluto mio fratello?»
«Certo che no!»
È legatissimo alla sua famiglia, come io alla mia. Nei primi giorni insieme quasi non rispondevamo alle telefonate, ma poi siamo pian piano ridiscesi nel mondo normale, riammettendo almeno i contatti con parenti e amici stretti.
E siccome per entrambi chiamare a casa è una consuetudine, non abbiamo problemi a farlo l’uno di fronte all’altra.
Solo, lui rideva sempre quando mi sentiva dire a mio padre che ero stata tutto il giorno in giro a fare colloqui, mentre magari avevamo passato la giornata abbracciati sul divano.
Del resto, mi vendicavo quando lo sentivo raccontare a sua madre che aveva cucinato lui il pranzo.
Come no. Sono sicura che sua madre lo conosce come le sue tasche e sa che un evento del genere farebbe venire una glaciazione, come minimo.
«Hallo» dice Ben.
Penso sia l’unico inglese che ho sentito parlare che abbia una pronuncia comprensibile.
Lo sento che cerca di tagliare corto con suo fratello, ma gli faccio cenno di non preoccuparsi.
Intanto arriva il cameriere e io allungo la mano verso la borsa. Ben ha già preso il portafogli, ma io gli faccio cenno di no. Lui inarca un sopracciglio mentre continua a parlare, ma mi blocca la mano con la sua.
«Ben!» sibilo io.
Lui scuote la testa come a dire non pensarci nemmeno.
Ma io sorrido al cameriere e dico:
«Ci scusi un secondo»
E lui si ritira.
Poi mi allungo verso Ben e dico nel suo iPhone:
«Sorry, Jack: just a moment, please!»
E copro con la mano il microfono.
«Ti ho portato fuori io e stasera pago io. E non si discute»
«Non pensarci nemmeno» dice subito Ben.
Ah, lo sapevo. Ormai lo conosco come le mie tasche.
«Ben, è così e basta. Stasera comando io. Dai, parla con Jack»
«Gin…»
Lo zittisco con un bacio a fior di labbra.
«Serata di Ben: paga Gin. Serata di Gin, paga Ben. Domani, ok?»
Ci manca pure che lo faccio pagare, dopo tutto.
Lui sbuffa, ma ho vinto io.
Faccio cenno al cameriere e gli porgo i soldi. Lui lancia un’occhiata impassibile a Ben, che sembra incavolato. Gli faccio cenno di concentrarsi sul fratello, che gli sta parlando.
Ma Ben lo saluta dopo due secondi, dicendogli che è con me e che lo richiama domani.
Appoggia l’iPhone sul tavolo. E il brutto di quel meraviglioso telefono, è che quando ti arriva un sms, compare direttamente sullo schermo.
Quindi, quando dopo cinque secondi il cellulare vibra, giuro che io non vorrei leggere, ma lo schermo si illumina quel tanto da permettermi di vedere il messaggio di Jack.
So, Gin doesn’t know you at all. So cool. But you prefer a beer in a pub! With me! ;)
Gemo.
Ben butta un occhio al telefono e impreca in inglese. Lo afferra e mi guarda mortificato.
«Gin…»
Io faccio una faccina triste.
«Per la cronaca, lo so che ti piace la birra. E il pub. Volevo solo fare una cosa diversa…»
«Gin, mi dispiace! Davvero! Mio fratello è un cretino!»
«Ma no…»
«Sì invece…»
«Dai Ben, non è niente…»
Ma lui sembra angosciato.
«Gin, senti, è una serata bellissima e…»
Sì, due ore di fila, cocktail carestosi e un posto esclusivo, che lui già conosceva.
Brava, Gin. Che colpo di genio.
«Davvero, non c’è problema. Non è la fine del mondo. Vuoi ancora stare con me dopo stasera, spero…»
Cerco di buttarla sullo scherzo, ma lui sussulta come se gli avessi dato uno schiaffo.
«Ma cosa dici?»
«Stavo scherzando…»
«Ma ti sembrano cose da dire? Insomma, io…»
«Ben, scherzavo, scusa…»
«Se tu ascolti più mio fratello che me…»
«Non è vero, io…»
«Non so come dirtelo ancora, ma a me non importa dove andiamo e nemmeno se stiamo a casa…»
«Senti, scusa, non volevo, stavo solo cercando di sdrammatizzare…»
«E comunque un conto è stare a New York per lavoro e un altro è stare qui con te, adesso…»
«Ben, era una battuta! Cavolo, non ascolto Jack più di te, io nemmeno lo conosco Jack…»
«Va bene, sono stato stupido a dirti che c’ero stato, ma non mi sembra un dramma…»
«Io non sto facendo drammi…»
Mi accorgo con un sussulto che stiamo litigando. Qui. In questo cavolo di posto. Mannaggia a me e alle mie idee del cavolo. Come ci ho pensato?
Non abbiamo mai litigato (se si esclude la volta che mi ha lasciata, in Toscana, ma quella me la vorrei  dimenticare) e litighiamo ora, così, qui, per una cretinata?
Eh, no.
«Ben, basta!!» sbotto, a voce troppo alta, e lui sussulta.
E si gira praticamente tutto il locale.
Insomma, ma non hanno di meglio da fare?
Non che abbia tempo di preoccuparmene ora.
«Scusa» bisbiglio «Sono una scema. Ho montato un casino per niente»
Lui fa per parlare, ma io gli metto un dito sulle labbra e proseguo.
«Davvero, scusami. Volevo organizzare una serata speciale e il risultato è quantomeno comico….ma non importa. A me basta solo stare con te. Se tu sei felice, sono felice anche io. Anzi, io sono felice comunque, a priori, se ci sei tu con me»
Lui abbozza un sorriso e mi bacia la punta del dito.
«Io sto cercando di dirti la stessa cosa dall’inizio di questa serata»
«Lo so» sono mortificata «Ma lo sai che quando organizzo qualcosa sono perfezionista! E l’idea della serata l’ho lanciata io! E volevo che riuscisse bene! E al di là di tutto…»
Ben soffoca le mie crescenti proteste con un bacio.
«Al di là di tutto, non ricominciare»
«Va bene» gli sorrido, pentita.
«Puoi organizzare qualunque serata, portarmi dove vuoi, basta che non ti stressi e che non litighiamo, ok?»
«È una nuova legge?»
«Sì» dice, deciso «Non voglio litigare con te. Odio litigare con chiunque, figuriamoci con te. E non voglio che fai una tragedia per una serata in un locale»
Arrossisco, colpevole, come sempre quando lui tocca un nervo scoperto o scopre un mio difetto.
Ed è incredibile come sa spingermi a cambiare, a lavorare su me stessa, dicendo tre semplici parole.
Poi, come sempre, appena mi vede mortificata Ben si addolcisce. Infatti mi stringe forte e mi accarezza la schiena.
«D’accordo, piccola?»
Annuisco, mentre nascondo il viso nella sua spalla.
Con le mani stringo la sua camicia e lo sento sfiorarmi i capelli con un bacio.
«Brava, la mia piccolina» mi sussurra.
«Scusa, amore mio» bisbiglio io, pentitissima.
E poi lo sento irrigidirsi.
Cosa…?
Oh.
Oh, cazzo.
Cazzo, cazzo, cazzo.
Cos’ho detto?
Oh, merda.
Come, come mi è venuto in mente di dirlo?
Anche se lo so benissimo come mi è venuto in mente.
Mi è venuto in mente perché è vero. Perché io sono pazza di lui. E intendo proprio innamorata, fin nel profondo, di questo ragazzo meraviglioso.
Ma mi ero ripromessa di cucirmi la mia maledetta boccaccia.
Non sono cose che si dicono così, soffocate nella sua camicia, dopo quattro settimane, seppure meravigliose.
Quattro settimane e io me ne esco con un’affermazione del genere. A parte che avrei potuto dirglielo anche dopo una settimana, ma il punto non è questo.
Il punto è che io dovevo stare zitta, muta, e stop.
E adesso?
Non ha detto niente.
Tipo “ti amo anche io, Gin”.
No, non è proprio la stessa cosa.
Comunque, io ho sottinteso che.
Che lo amo.
E se per lui non è così? E se l’ho spaventato? E se si allontana?
Aiuto.
Dunque, pensa, Gin.
Potrei far finta di niente. Oppure potrei riderci su, tipo battuta. Oppure…oppure? Non mi viene in mente altro, a parte “sì, Ben, ti amo” e non mi sembra il caso, adesso, visto il suo silenzio.
Nessuna delle due opzioni mi convince molto, perché è palese che, dopo di lui, mi sono irrigidita anche io, ma tant’è. Opto per la seconda.
Tengo la fronte poggiata sulla sua spalla e gli faccio una carezza sulla schiena.
E per un attimo non succede niente e io mi sento gelare.
Poi, Ben posa una guancia sulla mia fronte.
Meno male. Meno male.
Mi rannicchio più vicina a lui, ma, per la prima volta, tra le sue braccia sento freddo.
E poi, per fortuna, arriva il cameriere a interrompere questo silenzio che pesa come un macigno. E pensare che dieci secondi fa stavamo ridendo…
«Vanno bene i cocktail, signore?» chiede a Ben.
Lui fa un cenno d’assenso, alza la testa e mormora qualcosa.
E a quel punto, devo staccarmi da lui.
Cerco di sorridere disinvolta, ma vedo Ben guardarmi con un’occhiata che non riesco a interpretare.
Allungo precipitosamente la mano a prendere il mio cocktail.
Entrambi ci concentriamo sui nostri bicchieri e non potremmo essere più distanti, anche se io, paradossalmente, gli sono seduta praticamente in braccio.
Tracanno dal mio bicchiere senza praticamente sentire il sapore di quello che bevo (probabilmente l’unica occasione nella mia vita in cui berrò perle triturate, o quello che sono, e la spreco così), ma non riesco a sopportare questo silenzio e il suo sguardo basso.
Ok Gin. Sii coraggiosa.
È il momento di valutare la portata del danno che hai fatto.
Allungo timidamente una mano e la poso sulla coscia di Ben.
Lui mi guarda e io tento di sorridere in modo convincente. Abbozza un sorriso anche lui e copre la mia mano con la sua, ma resta sempre zitto.
Oddio.
Cosa devo fare? Cosa posso fare?
Ho bisogno di raccogliere le idee.
Scolo il drink e mi alzo di scatto.
Troppo di scatto. Per un attimo mi ondeggia tutto davanti.
Barcollo e Ben allunga una mano per sostenermi.
«Gin?»
«Tutto bene! Vado in bagno…solo che…il tavolo si muove!»
Ben si alza.
«Siediti, è meglio»
«No…solo che…»
«Shhh, Gin»
Mi trascina a sedere e allunga una mano sul mio bicchiere per berne un sorso.
«Ma l’hai bevuto praticamente d’un sorso! Lo sai che ti ubriachi subito…»
«Era così forte? Non mi sono accorta…»
Pensa come sto.
Ben accenna un sorriso.
«Direi di sì, è forte. E tu non hai cenato, quindi…»
«Quindi?» gli poso la testa sulla spalla. In effetti sono un po’ stordita.
Peccato che io non possa dire che ho parlato avventatamente in fase di ubriachezza molesta.
Lui mi passa un braccio attorno alle spalle.
«Quindi, ti porto a mangiare qualcosa e poi andiamo a casa»
Esita un attimo.
«Cioè…se non ti dispiace andare via»
No, voglio restare. È stata una serata deliziosa, perché non dovrei voler restare?
Scuoto la testa e lui mi aiuta ad alzarmi.
Getto un’occhiata malinconica ai nostri bicchieri abbandonati sul tavolo faticosamente conquistato e poi Ben mi conduce fuori, all’aperto, sostenendomi.
Io mi appoggio a lui e sussurro:
«Scusa»
E non so se mi sto scusando per la serata orrenda, le mie parole avventate o la mia ubriachezza imprevista.
Ma lui mi stringe più forte.
«Tranquilla, tutto a posto»
Speriamo.
«Ben….mi porti a mangiare le patatine fritte?»
Lui ride piano.
«Sapevo che me lo avresti chiesto»
 
E così, la mia serata speciale e super-romantica si conclude al McDonald.
Prendiamo hamburger e patatine e io riesco a combinare un altro mezzo casino quando ordino una birra.
Ben mi guarda esasperato.
«Gin, non la voglio la birra, ok? Non volevo andare in un pub stasera e ora non voglio una birra, voglio la coca-cola»
Io lo guardo indignata.
«La birra è per me!»
Lui sospira.
«Ma se tu al McDonald prendi solo il milkshake…»
Ah. Ecco cosa succede quando anche il tuo lui inizia a conoscerti troppo bene.
«Stasera voglio la birra»
Per affogare le cose che dico nel boccale. Di plastica.
Ci sediamo e io sfilo le scarpe e raccolgo le ginocchia al petto.
Pilucco una patatina dal vassoio e guardo Ben, che fissa concentrato il suo hamburger.
Lo vedo portarselo alle labbra e dare un morso senza alzare gli occhi.
Sospiro.
Lui allunga la mano verso le patatine e io la copro con la mia.
«Ehi»
«Ehi» mi guarda.
Esito e poi mi faccio coraggio.
«A cosa pensi?»
«Niente di particolare» scuote la testa.
Ah. Niente di particolare. Cosa vuol dire?
Tutto ok sono rilassato e sto bene? Oppure: ti ho sentita benissimo pronunciare quelle parole e ora come ne veniamo fuori?
Vorrei cercare di non entrare in panico. Perché non l’ho insultato, non l’ho offeso e non ho fatto niente di sgradevole o volgare.
Forse, dico forse, mi sono lasciata scappare sue paroline di troppo. Che poi, per quel che mi riguarda, sono vere. E ne vado fiera.
Solo, non mi aspettavo che mi uscissero di bocca da sole. E, tantomeno, che lui reagisse così.
O forse non sta reagendo.
Il che, comunque, è una reazione.
E da qualsiasi parte la guardo, questa situazione mi convince poco.
Per darmi coraggio mi attacco alla birra.
Solo che è vero che sono una ragazza da milkshake.
Le patatine possono poco in questa circostanza.
Ben mi lancia un’occhiata e mi tende il suo hamburger. Io scuoto la testa e lui sospira. E avvicina la sedia alla mia.
«Dai, mangiane un po’. Altrimenti stai male sicuro»
«Sto già male»
E non ce l’ho con la birra.
«No, ora passa»
Mi mette un braccio attorno alle spalle e mi avvicina l’hamburger. Io gli do un morso svogliato e poi gli faccio cenno che non ne voglio più.
«Ne prendo un altro?»
Scuoto la testa.
«Mi nausea…»
Lui sospira e mi allontana il bicchiere.
«Perché hai voluto prendere la birra?»
«Per af…affogare il mio dispiacere» borbotto io.
Oddio, sono andata. Non controllo più quello che dico.
Ma Ben sorride e mi fa una carezza sui capelli.
«Esagerata. Il locale era carino»
Carino.
Io non volevo che fosse una serata carina, volevo che fosse una serata speciale. Magica. Di quelle che ti ricordi per sempre. E non che passi alla storia come la serata più penosa di sempre.
Taccio e mi avvicino a lui. Ho bisogno che mi stringa forte. Ma lo sento ritirarsi.
«Ben! Ma insomma! Cosa succede?» sbotto, decisamente allarmata.
Ma lui sgrana gli occhi e mi mostra il resto del panino.
«Non volevo sporcarti il vestito…»
Ah.
Lo posa sul tavolo e mi tende le braccia, esitante.
«Tutto ok, Gin? Cioè, a parte la sbronza»
Non lo so. Dimmelo tu.
Ma faccio sì con la testa.
Lui mi abbraccia e dopo un po’ mi viene sonno. Lotto per tenere gli occhi aperti mentre Ben raccoglie i vassoi, le nostre giacche e le mie scarpe.
«Quelle non le metto» gli dico, imbronciata.
Ma lui sorride.
«Invece sì, Cenerentola, così impari. Domani scarpe da tennis, come me»
«Domani?»
«Sì. Domani tocca a me, no?»
Ah, allora l’ipotesi domani è ancora in piedi. Meno male. Farò finta di svegliarmi e di essermi dimenticata tutto. Tipo amnesia temporanea.
Sorrido, più allegra, e Ben mi sorride a sua volta.
Mi alzo e scopro che le gambe mi reggono, ma che tutto attorno a me si muove da solo.
«Mmmm» mugugno.
«Dai, andiamo. Ci sono io» mi prende per la vita e, pazientemente, mi porta fino a casa, un passo dopo l’altro.
«Lo dirai a Jack?» gli chiedo.
«Della tua sbronza?» sorride lui.
«No, che sei un tipo da pub e non da cocktail con l’arsenico»
Lui ride.
«Jack lo sa. Ma sa anche che adoro tutto quello che faccio con te. Voleva prendermi in giro, non offenderti»
«Davvero?»
«Certo»
«No, davvero adori tutto quello che fai con me?»
Lui si ferma in mezzo al marciapiede deserto.
«C’è bisogno che io dica sì?»
«Sì!»
«Va bene. Sì. Tutto, Gin»
«Bene: la serata è stata un successo!»
Lui scoppia a ridere.
Amo questa sua risata, il modo in cui i suoi occhi si illuminano quando è divertito, le sue labbra morbide e  l’espressione disarmante del suo viso. Il suo candore, la sua bontà, la sua semplicità.
Amo tutto di lui.
Vorrei dirglielo, ma le parole mi restano in gola.
E per la prima volta da che lo conosco, quando mi bacia, io non mi sento completamente, perfettamente felice tra le sue braccia.

   
 
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