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Autore: screaming_underneath    13/06/2012    10 recensioni
[1a classificata al contest indetto da __Hilary__, "Raindrops"]
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Leah Clearwater.
Quella Sempre Incazzata.
L'unica donna-lupo del branco, il "vicolo cieco" genetico.
Leah che aveva un migliore amico fantastico che non se la cavava male nemmeno come fidanzato.
Leah che non era poi tanto diversa dal resto della massa degli adolescenti.
Tutti parlano di quanto sia acida, burbera, scontrosa, di come si lagni e sbatta in faccia il suo patimento al prossimo.
Ma è davvero solo questo?
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È come sbirciare nella vita di un'altra persona, nella vita della Leah – della Lee – di prima, quella felice.
È come respirare cenere. Ti toglie il fiato, ed è così spiacevole che lotti, lotti per sfuggire a quel fumo, anche se sai che tutto quello che puoi ottenere non è ossigeno puro, ma solo aria meno torbida.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Leah Clearweater, Sam Uley | Coppie: Leah/Sam
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga, Successivo alla saga
- Questa storia fa parte della serie 'Lupus in fabula'
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So, this is Christmas

 

«Per favore, Leah. Sorellona!»

La voce di Seth rimbomba dal piano inferiore fino alla porta della mia camera. Sono barricata dentro, le mani incrociate al seno. Sposto il peso da un piede all'altro, mordicchiandomi l'interno della guancia.

Davanti a me, lo specchio riflette una ragazza non più tanto ragazza, sulla ventina andante, con capelli corti e un vestito nero da sera dallo scollo profondo e provocante: se non fosse per gli occhi, quegli occhi scuri e dallo sguardo perennemente serio, non mi riconoscerei.

Mi aggrappo a quel particolare, come prova inconfutabile che mai e poi mai Leah Clearwater uscirà di casa con indosso qualcosa di elegante, tantomeno per andare ad una festa.

«No, Seth. Smettila. E non entrare!» lo rimprovero, quando sento i suoi passi da elefante sgraziato che rintronano per le scale. Sarà l'udito fine da mutaforma, ma odio i rumori troppo forti. Sopratutto se a produrli è quel pedante di mio fratello.

«Oh, andiamo. Non sarà così mal-» si interrompe. Ha aperto la porta del mio rifugio personale sfondandola con una spallata possente. Più di una volta mi sono chiesta come faccia casa nostra ad essere ancora in piedi, con due licantropi dalle maniere rozze che si appoggiano pesantemente alle pareti e vi tirano calci quando sono nervosi.

«Sei bellissima.» Il mio adorabile fratellino mi lancia un'occhiata a bocca aperta, apparentemente stupefatto. Ma sul serio crede che ci creda? Lo fulmino attraverso lo specchio, senza neppure voltarmi.

«Smettila, per favore. Ti ho già detto che non verrò a quella stupida festa. Puoi finirla coi complimenti, non attaccano, con me. Girati, grazie» gli intimo, tirando in malo modo la cerniera del vestito. Non riesco a respirare dentro quel fazzoletto di stoffa, non è roba adatta a Leah Clearwater.

«E' solo una serata tra amici. Sarai l'unica del branco a mancare... Sam se la prenderà a male, lo sai. È Natale, Leah. Sai? Lucine colorate, canzoncine allegre, dolci a volontà e risate con gli amici. Ci si diverte, per le feste. E dài...» con uno sbuffo, mio fratello mi da le spalle, senza uscire dalla stanza. Per me non è un problema, mi ha vista nuda più di una volta da quando siamo entrambi nel branco, ma ringrazio il fatto che non possa vedermi sussultare, dopo quella frase buttata lì a tradimento, forse senza neppure riflettere.

Non farmi questo, fratellino.”

Apro bocca per dirgli qualcosa, magari offensivo. Lo voglio fuori dalla mia camera, fuori di casa. Potrei esplodere, se nominasse di nuovo Sam.

Lo lascio però cuocere nel suo brodo, optando per un silenzio pesante, lui abbandonato con una spalla contro lo stipite della porta, io di nuovo presa a lottare con la chiusura lampo del vestito, senza protestare oltre per la sua presenza.

«Non sono fatti miei se Sam rimarrà offeso... Sai come la penso sul Natale. Non chiedermi questo, Seth» ringhio dopo un po', cercando di non suonare supplicante. Non posso, non per lui, non per una cosa come questa.

Rinchiudo a chiave la Leah debole che per un momento è sfuggita dal mio severo controllo sentendo quel nome, cancellandola con il rumore della zip che scende.

«Mmm-mmm. Una volta. Una volta sola. Solo due ore, non ti chiedo di più. Ci mangiamo una fetta del dolce di Emily e ritorniamo a casa. Promesso» adesso il tono di voce di mio fratello è arrivato ad essere quello lagnoso di un bimbo capriccioso e testardo. Lo vedo scalciare il pavimento con la punta di una scarpa, nel pieno della sua regressione ad infante. Con un rumore da brividi, il fondo in gomma della scarpa da ginnastica di mio fratello va a tracciare una linea nera sulle mattonelle verdi-azzurrine che se ne staranno lì da mezzo secolo, ormai sciupate e stinte.

Magari è la volta buona che mia madre lo uccide.

Mi ritrovo ad analizzare l'abbigliamento di Seth con occhio critico senza neanche rendermene conto, scrutando quel poco che riesco ad occhiare dalla mia posizione, girato di tre quarti verso l'esterno della camera com'è; è una cosa che mi porto dietro da un sacco di tempo ormai, da quando era piccolo e si abbottonava le camicie tutte storte da un lato e coi bottoni zoppi.

È strano vederlo vestito, vestito sul serio: viviamo perlopiù dentro vecchie magliette bucate e short strappati, noi di LaPush. Non patendo il freddo, possiamo goderci libertà che ai semplici umani non sono concesse, per non parlare della comodità di poter esplodere dentro la propria maglia senza paura di aver appena rovinato un capo da svariate decine di dollari.

Lo guardo, quindi, stupita. Per l'occasione, indossa un paio di jeans neri e una camicia, una camicia nuova. Ha addirittura i capelli in ordine, invece che sparsi qua e là come il solito. «Stai bene» dico, per sviare il discorso. Scrollata di spalle come risposta, segno che siamo passati alla fase tre, guarda-come-mi-rendi-triste-Leah-se-non-vieni.

«Seth. Non lo ripeterò un'altra volta, quindi ascoltami: Non. Verrò. A. Casa. Di. Sam. La Vigilia di Natale e mai. Tutto chiaro, fratellino?» rispondo, polemica, rabbrividendo al pensiero di dover sostenere lo sguardo di mia cugina per tutta una serata, un sorriso congelato sulle labbra di entrambe. Preferirei un tour operator negli Inferi, piuttosto.

Mi infilo una vecchia t-shirt stinta dai troppi lavaggi – un tempo forse arancione e adesso di un anonimo rosina – con un sospiro di sollievo, tornando ad essere la Leah Di Sempre, quella coi pantaloni della tuta bucati e i capelli in disordine, rigettando nel pozzo da cui era provenuta la Leah Prrrrovocante, col vestito da sera sexy e il tacco dodici.

«E va bene. Sta' qui e gioca a carte con mamma e Charlie, se è così che ti diverti la sera della Vigilia. 'Fanculo» borbotta Seth, picchiettando con le unghie sulla porta. Si gira, piantandomi un'occhiata micidiale, di quelle che di solito poi mi fanno pentire di essere stata sgarbata con mio fratello. Ma non è quello il caso, no.

«Esatto. Me ne starò qui, e mi divertirò un sacco. Va a riempirti di alcolici, su» lo sprono. Seth si illumina in volto, non se lo fa ripetere due volte. Lo sento trottare via, pestando forte i piedi sugli scalini di casa.

Si è già dimenticato del Problema Leah, proprio come avevo sperato.

Proprio come fanno tutti.

 

Mi lancio sul letto con un sospiro soddisfatto che credo sia più che altro una smorfia.

Ce l'ho fatta.

 

~

 

«Dovresti andare.»

La voce di mia madre mi fa sussultare. Sono rannicchiata tra le coperte, tutta presa a fissare il punto dove fino a qualche mese prima penzolava tranquillo un lampadario, prima che un mio scatto di rabbia lo riducesse in polvere. Dal piano di sotto, mi giungono le imprecazioni di mio fratello, occupato con le luci ad intermittenza gialle e rosse che mamma ha insistito ad appendere alla finestra della cucina all'ultimo minuto – come se i cinghiali potessero davvero apprezzare quel gesto. La finestra è infatti rivolta verso il bosco, invisibile ad eventuali passanti. In tutti quegli anni non ho mai capito perché si ostini a volerla addobbare.

«Non ti ci mettere anche tu, ti prego. Non voglio andare a casa di Sam e non voglio lasciarvi da soli, tu e Charlie. Mi spiacerebbe, e sono più che sicura che mi divertirò più con voi che con loro» argomento, rimbalzando a sedere sul letto. Mamma scuote la testa, piena di disapprovazione.

«Non è vero. E comunque il mio non è un suggerimento. Stasera, il capo Swan mi porta a cena fuori. Non ti permetto di passare la Vigilia da sola, Leah. Non ci provare. Va, e divertiti» mi anticipa, severa. Faccio un sorrisetto imbarazzato, mia madre è l'unica con cui non riesco ad avere una risposta pronta. Chino il capo, come quando da bambina mi sgridava per aver combinato qualche pasticcio.

«In alternativa, potresti metter su qualche decorazione in questa camera. È così spolta che pare una stanza d'ospedale, non trovi?» prova ad incastrarmi. Sa quanto odi gli addobbi e i nastri natalizi sparsi per tutta la casa e non le permetto di metter mano alla mia stanza da letto da almeno cinque anni. È l'unico rifugio che ho, l'unico posto dove posso salvarmi dall'alluvione di stelle, palle decorate e neve finta le ultime settimane di Dicembre di ogni anno.

«E va bene. Solo il tempo di un pezzo di dolce, come ha detto Seth» arrivo a patteggiare, per farla felice. L'idea di uno scatolone colorato pieno di addobbi mi fa rabbrividire.

E forse, se tengo la testa bassa e mi rannicchio in un angolo del salotto degli Uley, con un piatto di biscotti vicino... Una serata tra amici è una serata tra amici, in fin dei conti, cerco di convincermi.

Magari riesco pure a divertirmi.

Magari dopo una doppia o una tripla dose di eroina, sì.

Mi alzo dal letto svogliatamente, sotto il giudice inflessibile che è lo sguardo di Sue Clearwater. «Vado, vado» le dico, tanto per farla smuovere dalla mia camera. Con uno sforzo sovrumano, mi costringo ad infilare un paio di vecchi pantaloni marroni che hanno visto tempi decisamente migliori. Sono pronta, devo solo ricordarmi dove ho messo le mie scarpe di tela, quelle non del tutto maciullate.

Forse in salotto, ficcate sotto il divano.

Sospingo mia madre fuori dalla camera, socchiudendo gli occhi. Ho intercettato il suo sguardo, so cosa sta per dirmi, perciò mi affretto, spingendola verso le scale cariche di festoni con Rudolph la Renna.

Forse sono ancora in tempo per svincolare via...

 

«E non pensare di andare conciata a quel modo!»

 

Beccata.

 

~

 

Fuori nevica.

È un nevischio fine, di quelli che ti ghiacciano l'anima e la punta del naso, se non possiedi i quaranta caldi gradi corporei dei lupi.

Mi stringo nella vecchia giacca impermeabile, più che per il freddo per ripararmi. Ho indosso una maglietta carina, recuperata dopo secoli dal caos del mio armadio e non voglio bagnarla visto che è bianca, d'un bianco accecante e vagamente odioso, così come la maledetta neve che continua a cadere imperterrita, ostinata e placidamente pacifica.

Seth mi trotterella accanto, canticchiando canzoncine natalizie, tutto contento. Sembra ringiovanito di una decina d'anni, quando correva tra la neve lanciandomi globi di ghiaccio dietro il collo e ridendo come un matto mentre lo afferravo per la vita, trascinandolo a terra in una lotta corpo a corpo. Invariabilmente, per quanto piccolo e per quanto gracilino, finiva sempre con il sopraffarmi, inchiodandomi la testa al terreno gelato e facendomi implorare pietà, semisoffocata dal riso.

Un sorrisetto mi sfugge senza che riesca a controllarlo e la solita, vecchia sensazione di sempre torna a farmi visita. Quel senso di sdoppiamento, di una morsa all'imboccatura dello stomaco che associo a tutto quello successo nel Prima.

 

Seth e Leah che giocano tra la neve, ridendo come matti, felici. Hanno una famiglia perfetta, un padre vivo. Lei ha un migliore amico che forse potrà diventare anche qualcosa di più, lui adora passare pomeriggi interi a giocare con le macchinine.

Tutte cose di un passato che non è più il mio.

È come sbirciare nella vita di un'altra persona, nella vita della Leah – della Lee – di prima, quella felice.

È come respirare cenere. Ti toglie il fiato, ed è così spiacevole che lotti, lotti per sfuggire a quel fumo, anche se sai che tutto quello che puoi ottenere non è ossigeno puro, ma solo aria meno torbida.

 

È giorno inoltrato e siamo in ritardo, ma non me ne preoccupo.

Nessuno mi aspetta a destinazione, io stessa non mi aspetto di arrivare.

Cammino piano, con mio fratello che balza qui e là, nel pieno di quello spirito natalizio che non mi può appartenere. Cammino piano, cercando di sfuggire a ricordi, al senso di soffocamento, di cenere nei polmoni.

Forse barcollo, non me ne rendo conto.

Tutto è sfuocato, tutto è senza un vero e proprio contorno.

Sulla strada di casa di Sam, di Sam ed Emily, il giorno della Vigilia di Natale, una lacrime sfugge dai miei occhi, silenziosa e minuscola contro il cielo grigio.

 

~

 

«... So this is Christmas, and what have you done?...» La voce risuona alta nel cielo terso.

È Natale, un Natale di quelli che capitano una volta su mille a LaPush, stato di Washington. Il sole splende e ovunque c'è bianco, bianco latte, così candido che pare che tutto sia fatto di panna.

«Vorresti smetterla? Mi fai venire il mal di testa, Lee.»

Il ragazzino protesta, assestando una gomitata alla compagna. Sono distesi nella neve alta, accanto ad un fortino creato alla bell'e meglio con blocchi compatti di ghiaccio sporco recuperati dal vialetto e bandierine improvvisate coi tovagliolini natalizi di Sue Clearwater.

«Mai. È Natale, a Natale si canta, Sam!» risponde la bimba, allegra. Si alza in piedi, scuotendosi come un cagnolino dalla neve. L'ha ovunque, nei capelli e nel colletto del giaccone troppo grande per lei, persino appiccicata ad una delle guance rossissime per il freddo. Il bambino la guarda, incantato da come l'amica si spolvera il fondo dei calzoni, continuando a canticchiare a bocca chiusa.

«Forse dovremmo rientrare. Jake e gli altri si staranno preoccupando... magari anche mamma» butta lì Sam, poco convinto. È ancora disteso comodamente tra la neve, come uno di quei sultani arabi che ogni tanto si vedono in tv.

Lei scuote la testa. «Naaa. I grandi stanno ancora bevendo, non senti come cantano? Lasciali stare. E io mi diverto di più qui con te che con Jacob o Seth. Tu sei il mio migliore amico, lo sai?» chiede, tutta seria.

Sam non risponde, ma allunga le orecchie; da lontano, da dentro la grande casa dei Clearwater, è possibile distinguere le voci dei grandi che cantano e ridono, sguaiati.

Ne avranno ancora per qualche ora, almeno.

«Bene, sì, sì. Possiamo stare ancora qua, credo. Ti va di fare un pupaz...»

Non finisce la frase. Una grossa palla di ghiaccio e neve lo colpisce ad una tempia, facendogli vedere le stelle.

«Non mi ascolti mai, Sam Uley!» Lee lo fissa, invelenita, con le braccia strette ai fianchi e le dita bagnate.

È furibonda.

È Natale e lui non la ascolta. E pensare che aveva pure chiesto a Babbo Natale di regalargli un Sam più gentile, quell'anno. Gli si lancia addosso, crollandogli sopra, del tutto decisa a rifilargli almeno uno schiaffo.

È il segnale.

Con un ruggito di gioia, i due bambini iniziano a rotolare assieme, giù per il pendio nevoso di proprietà dei Clearwater, in una lotta di denti ed unghie. Un giubbotto, nella foga, si strappa in un gomito. Il cappello di lana di Sam, quel cappello che odia così tanto, regalo di una zia vecchissima e mezza cieca, si impiglia ad un cespuglio spinoso lì vicino, macchia di colore in quel mare argenteo.

«Smettila! Smettila, Lee!»

È lui, infine, che chiede la resa, con un graffio rosso sulla guancia e il fiato grosso, come se avesse scalato una montagna tutta di corsa. Leah si ritrova a cavalcioni sulle sue gambe, a ridere come una matta.

Sono scivolati di parecchi metri più in basso rispetto al cortile davanti alla casa, e le voci dei genitori non si sentono più. Solo un uccellino cinguetta, balzando da un ramo all'altro. “Deve avere freddo pure lui”, pensa Leah. Forse più tardi tornerà a portargli qualche briciola del dolce di sua madre come pranzo di Natale.

«Mi lasci andare?»

Sam prova a scalciare. Per quanto più grande, ha pur sempre una trentina di chili sulla pancia, visto che l'amica si è spostata in avanti, per seguire con occhi curiosi i movimenti del passerottino.

«No, se non mi prometti una cosa. Me la prometti?» Adesso l'attenzione di lei è di nuovo tutta su di Sam, che continua a divincolarsi sotto il suo peso. Sa che non può continuare a tenerlo fermo a lungo, così affretta le parole, mettendole in fila una dietro l'altra, veloce. Deve sentirselo dire, deve.

 

Per una bimbetta di sette anni, il migliore amico è tutto.

Deve sapere che anche lei ne ha uno, che anche lei si potrà vantare a scuola, con aria superiore. Per di più, Sam è uno dei grandi, uno di quinta.

«Promesso, certo. Ma cosa?»

«Prometti di più... prometti sullo slittino che ti ha regalato mia mamma» incalza lei. Deve essere certa che manterrà la promessa... e lo slittino è sacro, Sam non può rompere un giuramento fatto al suo slittino.

«Prometto. Su, dimmi, Lee!» la sprona lui, facendo leva con le braccia per spostarla.

«Prometti che sarai per sempre il mio migliore amico?»

 

Sam ride, nel cielo chiaro di Natale.

È la richiesta più strana che qualcuno gli abbia mai fatto, è ancora più strana di tutte le proposte assurde che lei gli abbia rifilato fin'ora. Ancora peggio che rubare di nascosto i biscotti che Sue Clearwater ha preparato per i grandi, quelli con lo zenzero e la cannella, con quel gusto un po' particolare che piace ad entrambi e che rimane sulle labbra per ore.

Come può promettere una cosa del genere?

È talmente ovvia... ma Leah è piccola, ha bisogno di essere rassicurata. Sam smette di divincolarsi, si poggia sui gomit, per guardare l'amica dritta negli occhi, quegli occhi neri che alle volte sembrano più adulti di molti dei Grandi.

«Certo, Lee-Lee. Sempre» dichiara, tutto serio. Poi sorride, quando vede l'amica illuminarsi, balzando in piedi.

Leah allunga le mani al cielo, battendo le mani.

«Esiste, esiste!» dichiara, tutta gioiosa. È buffa, un punto rosso sulla neve che rimbalza qui è la come una palla impazzita.

«Chi, Lee?»

«Babbo Natale. Gli ho chiesto te, sai? E tu hai detto di sì. Esiste! Esiste-esiste-esiste-esiste!» La ragazzina improvvisa un balletto, con le mani tese verso l'alto, gioiosa. Sam ride, ride di lei, con affetto.

Anche Babbo Natale è una cosa di quelle da piccoli di cui l'amica ha bisogno, e lui non ha nessuna voglia di rompere quella magica euforia. Si alza, quindi, alza le mani anche lui. «Esiste, esiste-esiste-esiste-esiste!» grida. E ci crede. Lo ha visto riflesso negli occhi di Leah, e non può non essere vero.

Forse non si chiama Babbo Natale, ma esiste.

«Staremo sempre insieme, sì» annunciano, entrambi nello stesso momento.

Si guardano, stupiti, con il fiato grosso, tenendosi la pancia per il troppo ridere. È così giusta, quella frase, che non la commentano, lasciando che il silenzio li avvolga, mentre si rannicchiano di nuovo a terra, sfiniti, vicini.

Amici.”

È il miglior Natale di sempre.
 

~

 

Il ricordo svanisce davanti alla porta della casa, la sua, con un ultimo riecheggio, una risata di bambini che mi mette i brividi. Alla fine, anche ribellandomi contro me stessa, anche imprecando contro mio fratello e mia madre, sono arrivata.

Seth bussa, tutto contento; è in uno stato di totale agitazione, come un cagnolino che fa pipì ovunque. Fastidioso. Cerco di non dargli importanza, spingendolo da parte, dietro di me.

Da quello che presumo sia salotto arrivano una ventina di voci diverse, tutte maschili. Riesco a riconoscerle tutte, una ad una, chi più chi meno. Dalle battutacce a sfondo sessuale in cui Embry si sta sperticando, presumo che l'alcool stia già girando da un po'.

Idioti.

Socchiudo gli occhi, cercando di respirare profondamente. Passi si avvicinano, posso contarli, uno in fila all'altro. Posso persino indovinare il momento preciso in cui la porta si aprirà, se mi concentro.

Come diavolo sono riusciti a convincermi? Devo essermi cotta il cervello.

Un nuovo moto di rabbia verso me stessa sopraggiunge, rabbia per non essere stata capace di sfuggire da quella situazione, da lui.

Poi, la porta si apre.

 

E Sam è lì, come una scudisciata al cuore, secca, netta.

Bello, bello come sempre. Ha una risata impressa nel volto, portata dal salotto, da una delle tante batuttacce che volano per la sala, là dove si divertono. Gli occhi scuri, profondi – quegli occhi che ho sempre ammirato, sin da piccola, sin dal nostro primo incontro – luccicano per quel sorriso, spontaneo e semplicemente meraviglioso.

Ed è un momento, un momento prima che ci riconosca sul serio.

Un momento prima che capisca che sono Leah, che Leah è lì, davanti a casa sua, in carne ed ossa, ospite scomodo e non invitato. So già che mi ignorerà per tutta la sera, come sempre; non è un problema. Ma quello sguardo, quell'ombra che passa e cela subito con un nuovo sorriso, adesso falso e per nulla rilassato, è tutto per me.

È una richiesta, rimasta in sospeso da troppo tempo, è ciò che ci ha diviso, ciò che non ci potrà mai più riunire. È sospesa tra i nostri occhi, tra le nostre bocche. Nessuno dei due la esprimerà mai a parole, ma è lì, pesante come un macigno.

E l'attimo passa.

Sam torna Sam, Leah torna Leah, e non più Lee. Se anche là sotto, dietro il macigno, ci siamo ancora noi, i soliti vecchi noi del Prima, non lo diamo a vedere. Non possiamo, o forse fa troppo male anche solo pensarci.

E lui ha Emily.

«Seth! Leah! Entrate, entrate! Jacob e Quil sono con le bambine, arriveranno tra poco... Venite, gli altri si sono fatti fuori tutto ma Emily sta già infornando la nuova teglia di dolcetti. Saranno pronti tra poco, se riuscirete a pazientare.» Si fa da parte, con quel falso brio da bravo padrone di casa. So che se potesse, mi chiuderebbe la porta in faccia. Lo farei anche io.

Ma mi deve sopportare. Sono del branco anche io, in fin dei conti, no? E per quanto mi costi fatica dirlo, Emily è pur sempre mia cugina.

Entriamo, Seth ululando un «Buon Natale, Sam!» degno di uno scaricatore di porto, io silenziosa, con lo sguardo fisso a terra, irrigidita come un tronco d'albero.

Mi sono calata nella mia parte, la solita parte della Leah stronza ed acida che non parla con nessuno, e distribuisce occhiate piene di malevolenza verso chiunque gli capiti a tiro.

Devo solo trovare una poltrona libera e sprofondarvi dentro per le prossime quattro ore, senza dover necessariamente interagire con il resto del gruppo, cosa del resto per nulla difficile. Nessuno mi sopporta, ed io non sopporto quasi nessuno o, almeno, faccio finta di non sopportare nessuno. La solitudine è meno dolorosa che fingere di essere una persona normale, l'ho capito a mie spese e adesso vi sguazzo dentro come un gabbiano in una macchia di petrolio.

«Sam, questo posto è una gran ficata! L'ha arredato Emily?» Mio fratello giocherella con una piccola giraffa in cristallo, posata su di un grazioso mobile in legno proprio all'ingresso. Forse non si rende conto come una pressione anche minima delle sue dita potrebbe far andare in frantumi la statuetta. Gli lancio un'occhiata di traverso, ammonendolo.

«Tutta opera di Emily... Lascialo, Clearwater, prima di combinarne una delle tue. Per di qua, per di qua. Alcol e pasticcini, moccioso!» ghigna Sam, facendoci strada.

 

La casa è bella sul serio.

Un tappeto spesso, di un rosso talmente acceso da sembrare fuoco vivo, mi accoglie. Lascio affondare i piedi dentro quella peluria, immobilizzandomi per osservare meglio: non sono mai stata dentro casa di Sam, non in questa casa, almeno, ma devo dire che è carina, mi piace. Rispecchia perfettamente i gusti di mia cugina, precisa ed accurata in ogni minimo dettaglio, persino per quanto riguarda il colore di mura e pavimenti.

Una musica risuona nell'aria, non capisco come non me ne sia resa conto prima. Le note di White Christmas avvolgono ogni cosa. Anche quelle, come la tappezzeria, sono perfette per l'ambiente in cui mi trovo, un lieve sottofondo alle risate dei ragazzi. Pare di essere in una sala di attesa di un aeroporto, o di un hotel da ricconi addobbato a festa.

Su un mobiletto alla mia destra sono posate diverse fotografie, incorniciate con fiori di Poinsettia, la Stella di Natale. I soggetti, per lo più due figure vicine, in primi piani o mezzobusti, mi frenano dal donare la mia attenzione a quelle cornici per poco più di qualche attimo.

Non voglio vederli, non ancora. Non insieme.

«Leah, hai dei fiori di vischio tra i capelli. Dài, vieni, non farti trascinare. Non sarà così male, te lo prometto. Vieni?» mio fratello mi passa una mano tra i capelli, gentile, scuotendo via fiorellini di un delicato giallo, e tirandomi con l'altra verso il corridoio dove Sam è sparito, facendoci segno di seguirlo. Mi divincolo, non ho bisogno di una guida, non sono piccola né tantomeno stupida, e so che queste gentilezze improvvise del mio fratellino non sono altro che un tentativo di farsi perdonare. Sa bene che sono venuta solo per farlo felice, sa bene quali siano i pensieri che mi passano per la testa. Per mio fratello non ho segreti, non posso averne. Sono un libro aperto.

Lo scaccio, brusca. «Va, adesso. Arrivo.»

«Sicura? Forse potremmo ritornare a casa, se proprio non vuoi» propone Seth, guardandomi a capo basso. È preoccupato, adesso. Vedo che prende tempo, diviso tra la festa, nell'altra stanza – tra i suoi amici – e me. Gli faccio un cenno col capo.

«Va', idiota. Prometto che non scappo, mi hai trascinata fin qui...» cerco di convincerlo, ma la frase mi esce patetica, sono patetica, in fin dei conti.

Seth annuisce, riconoscente, e sguscia via dalla mia vista prima che io possa cambiare idea, prima che si penta di avermi portato a casa di Sam, la sera della Vigilia, quando avrei solo voluto rannicchiarmi nel letto, persa in vecchi ricordi dolorosi, sola con me stessa.

«Leah.»

«Seth, arrivo!» ringhio. Probabilmente ha paura di lasciarmi da sola, casomai impazzissi e facessi a pezzi l'elegante casetta di nostra cugina. «Non pensare a me e divert...» Non finisco la frase. Alzo la testa dalle foto quel tanto che basta per capire che non è Seth a chiamarmi, non stavolta.

Alzo la testa e Sam è lì, che mi fissa, strano. «Auguri, Lee. Posso ancora augurarti un buon Natale, o mi impedirai anche questo, per l'ennesima volta?» domanda. Non capisco se lo dica per cortesia o perché ci tenga veramente. Alzo le spalle.

«Non mi piace il Natale, siamo tutti falsi, davanti a un tacchino grondante d'olio e pacchi e regali» scelgo di rimanere neutra, con un tono di voce incolore. È la Leah Acida a parlare, quella sulla difensiva, che è sussultata come sempre a quel nomignolo, al suo nomignolo.

Di nuovo silenzio, e i suoi occhi che mi scrutano, a fondo. Anche per Sam sono un libro aperto; mi tiene inchiodata, senza dire una parola, e mi legge dentro.

Perché mi fai questo?”

Un fiore di vischio mi volteggia sopra il capo, placido, adagiandosi infine sul tappeto di Emily, una macchiolina infinitesimale in quel mare porpora. Su quello che mi pare un altro pianeta, Jhon Lennon inizia a cantare, con voce bassa e profonda, come sottofondo di un gruppo di sciocchi licantropi che ridono la risata degli ubriachi in festa. È la stessa canzone che mi è tornata in mente poc'anzi, e mi vengono i brividi. Sembra che il mondo intero si stia coalizzando per farmi uscire fuori di testa, oggi.

Alzo lo sguardo, giusto per cambiare posizione del collo, e per eludere gli occhi di Sam, che mi strisciano dentro, indagatori. È accigliato. «Cosa ti passa per la mente, Leah?» mi chiede, e capisco che non si riferisce al presente, ma agli ultimi tre anni. Di nuovo, alzo le spalle. Sto diventando brava quasi quanto mio fratello.

Il rametto di vischio ondeggia, mistico, appeso proprio sopra di me. Sembra spronarmi a fare qualcosa, qualunque cosa che non sia star ferma nell'ingresso di casa Uley inquieta come un orso chiuso in una gabbia, evocando vecchie immagini, vecchie pagine già sfogliate troppe volte.

 

E il ricordo è lì, che preme per uscire, devastante. Cerco di ricacciarlo giù, assieme ad un groppo di saliva. Se ancora è rimasta un po' di dignità in me, non piangerò, ma sosterrò il suo sguardo, la sua casa, Emily, la Vigilia e persino quel vischio maledetto, che continua a sfiorirmi sulla testa senza che riesca a muovere un passo.

«Per quanto vuoi continuare a punirmi per una cosa che non ho deciso io?» La voce di Sam adesso è appena un mormorio, forse non si vuol far sentire dagli altri, forse in fondo continua a tenere a me, a noi.

Scuoto la testa.

Non voglio pensare a quella parola, imprinting. È così tanto il dolore che evoca che non sono sicura riuscirei a sopportarlo tutto. «E' sbagliato, terribilmente sbagliato. Tu non puoi... Eri il mio migliore amico, Sam. Eri il mio ragazzo, l'amore della mia vita. È poi ti sei trasformato, hai avuto l'imprinting. Tu. Tu sei andato avanti. Hai una moglie, una famiglia, una casa. Io sono sempre uguale. Stessa camera, stessa casa, stessa schifosissima vita di sempre. Sono qui, ferma, e aspetto che tutto torni come era prima, perché non riesco a pensare ad una vita diversa, non ci riesco... io sono ferma. Ferma. Nessuno mi vorrà mai, e allora aspetto che tutto torni come era prima. Eri il mio migliore amico, Sam. Ricordi? Insieme per sempre.»

Sputo fuori tutto, ed è strano, perché mi sono tenuta dentro quel peso così a lungo da essermi dimenticata che qualcosa mi impediva di respirare, all'altezza del petto. È una montagna intera, quella che viene giù, colando, colando. Per la prima volta in tre anni, sto parlando con lui, sul serio. Niente mezze misure, frasi secche, comandi, istruzioni cameratesche. Nessun filtro, nessun altro che possa distrarci.

La mia voce è dura, poi implorante, combattiva, arrendevole, infine appena un sussurro tremolante, mentre parlo. Non lo guardo in faccia, non ce la faccio, così tengo gli occhi piantati al soffitto dove il rametto penzola, legato con un nastro dorato, le lacrime ben salde agli angoli delle palpebre. Sono inerme. Se qualcuno mi prendesse a pugni, in questo momento, forse non reagirei neppure.

«Lee-Lee.» Pronuncia il mio nome con lentezza, quasi avesse paura di rompermi con le sue parole, come se non sapesse che lo ha già fatto, come se non sapesse che Lee-Lee è solo cristalli rotti tra le sue mani, vecchie fotografie strappate e rimpianto.

Scuoto la testa, non voglio sentire quel soprannome, e lui continua ad usarlo, ed usarlo, assalendo le rovine rimaste in piedi che sono.

Lo sento avvicinarsi, lentamente, posso riconoscere il suo profumo, lo stesso da una vita, il suo respiro caldo sul mio collo, ma non mi muovo. Tengo la testa alta, verso il vischio ballerino e la sua pioggia di fiori gialli.

Non voglio guardarlo, perché il ricordo è lì in agguato che aspetta, pronto a frantumarmi di nuovo e di nuovo.

«No.» Sussurro. È un'intimidazione, o forse solo un rimprovero a me stessa. Non so decidere, non riesco a capirlo. Sento il respiro di Sam sulla mia pelle, è sempre più vicino. Porta con sé anni e anni di abbracci, di baci, di capi chini, uno vicino all'altro, di lotte nella sabbia e di biscotti rubati... Non posso più evitarlo.

Abbasso il mento, riportando gli occhi davanti a me.

E lui è lì, serio, pieno di sofferenza. Per la prima volta, posso riconoscere nei suoi occhi scuri dispiacere, vero e proprio dolore. L'imprinting lo ha spazzato via, mi ha spazzato via, prepotente, e non voluto.

Mi amava. Forse, là sotto, m ama ancora.

«Sam. Finirà mai... questo?» chiedo, e tremo. Non voglio sentire la risposta, anche se i miei occhi adesso sono puntati sulle sue labbra, su quella vecchia voglia di mordicchiarle gentilmente, di sentirle scendere e salire sulla mia pelle. Le vedo muoversi senza che ne esca un suono, articolarsi per l'ennesima volta in quel nome, che mi appartiene e non mi appartiene più.

 

E le desidero, desidero, desidero.

 

E sono le mie labbra sulle sue, rabbiose, poi dolci, meravigliosamente calde.

Sono le mie mani sui suoi fianchi, il suo respiro sulla mia pelle.

Brividi, brividi ovunque. Mi stringe a sé, forte, possessivo, il suo profumo che mi inebria, facendomi girare la testa. Sembra che non mi voglia più lasciare andare.

Ci baciamo, mi bacia con una passione che non ho mai sperimentato prima, come se non lo avesse mai fatto. «Buon Natale, Sam» mormoro, senza fiato, strabiliata da quel momento, da quell'euforia. Mi appoggio al suo petto, con la guancia all'altezza del suo cuore, stretti in un'unica persona. Lui mi passa una mano sotto il mento, carezzevole, gentile. Alzo la testa, chiudendo gli occhi, pronta per le sue labbra, per quell'ultimo dolce contatto prima di raggiungere gli altri nel salotto e festeggiare.

«Lee-Lee. No, ti prego. Basta.»

 

La voce di Sam mi trafigge.

È dura, improvvisamente seria, per nulla adatta all'atmosfera natalizia intorno a noi, al bacio che ci siamo appena scambiati e che adesso, accostato alle sue parole, è diventato terribile, come qualcosa di dovuto. Non riesco a trovare una spiegazione a quelle parole, non le capisco.

Ti prego, basta.”

Alzo lo sguardo, incontrando i suoi occhi scuri.

Sono determinati, decisi. L'amore che ho pensato di leggervi poco fa, quando mi ha aperto la porta di casa con un sorriso, quando mi ha indicato il vischio, proprio sotto l'architrave, non c'è più.

Da come mi guarda, capisco che forse è già da un po' che recita, che forse quel bacio affannoso dato sotto una pioggia di fiorellini gialli è stato l'ultimo, l'ultimo vero, forse il primo da settimane. Da quando è tornato a casa dopo essere scomparso senza degnarsi di dire una parola a nessuno, diverso, totalmente diverso, rifiutandosi di parlarmi, di spiegarmi.

 

Lo guardo, aspetto.

Il cuore mi batte a mille, vorrei sbagliarmi, la mia mente continua a suggerirmi che è solo un errore, forse solo uno scherzo natalizio.

Intorno a noi, il resto della casa ride, gioioso. Mia madre, mio padre, mio fratello e mia cugina Emily, venuta in visita per le vacanze, sono di là che scherzano, abbuffandosi dei dolcetti alla cannella che io stessa ho preparato, canticchiando assieme al resto dei ragazzi della riserva.

Ovunque, Jhon Lennon risuona, le parole sparate dalle casse del grande stereo nero della sala, lo stesso che io e Sam, quando avevo sei anni, abbiamo rischiato di rompere durante una sessione di quei nostri folli giochi violenti.

Tutto mi appare troppo colorato, troppo felice, perfetto. I festoni che addobbano la casa mi urtano, non posso volgere lo sguardo altrove senza essere abbagliata, così rimango lì, immobile, senza respirare, persa negli occhi neri del ragazzo che amo.

Ti sbagli. Ti stai sbagliando, Leah. Adesso tuo fratello sbucherà fuori, urlando “Sorpresa!” e tu tornerai a ridere e a festeggiare assieme a Sam e alle vostre famiglie. Respira, Lee, respira.

Ma non lo faccio.

Non ci credo, perché quando vago in quel nero senza fondo, cercandovi una scintilla di gioia, uno sbeffeggio, non la trovo.

«B-basta? Perché?»

Lo mormoro appena, è faticoso parlare ad alta voce. Non voglio urlare, non voglio litigare. Voglio una spiegazione, un valido motivo che mi faccia capire perché da mesi ormai mi tocca appena, perché è scomparso, quella sera, perché continua a fare assenze immotivate, facendosi vivo solo dopo alcuni giorni, perché è alto, alto da parere una montagna.

Lui scuote la testa, socchiudendo gli occhi un secondo, come per trovare energie dentro di sé, per trovare le parole giuste. Tremo, tremo anche se non ho freddo. Sono ancora tra le sue braccia, anche se mi sono discostata per guardarlo meglio e il suo caldo mi avvolge.

Caldo. Un altra di quelle stranezze, un'altra di quelle cose senza senso che sembrano fare adesso parte della sua vita, ma non più della mia.

 

«Sam? Sam, Leah?»

La voce di Emily infrange quel silenzio pesante,proprio quando lui sta per aprire bocca. Mi volgo, devo avere un'aria confusa ed infelice ma cerco di sorridere lo stesso a mia cugina, per far finta che sia tutto ok.

«Arriviamo, Em, tranquilla» sputo fuori, cercando di far suonare la mia voce rilassata. Lei mi fissa attentamente, pizzicandosi con due dita una piega dei collant fuori posto: indossa un vestitino a quadri molto carino, che le fa risaltare i fianchi e il seno. È bella, mia cugina, non come me. Io sono sono una ragazza mingherlina e dal viso anonimo, di quelli che passano inosservati, e i capelli lisci e dritti come spaghetti.

«O-ok.» mormora, ma non mi guarda già più.

Ha alzato gli occhi, in alto, verso Sam... vi posso leggere dentro dispiacere e commiserazione, ed ecco un'altra cosa che non capisco, o che forse non voglio capire.

Non è in pena per lui. È in pena per me.

 

La consapevolezza arriva bloccandomi il respiro nella gola.

Mia cugina, la sorella che non ho mai avuto.

Mia cugina, la nostra infanzia.

Mia cugina, abbiamo fatto castelli da sabbia tutti e tre assieme sulle spiagge di LaPush.

Mia cugina.

Sam.

Alterno lo sguardo tra lei e lui, sempre più disorientata.

Com'è possibile? Lei è di un'altra riserva.

Non è possibile. No. No.

«Scherzate, vero?» cerco di ridacchiare, anche se quello che ottengo è solo un gracchio da corvo. Ho la bocca asciutta, la lingua incollata al palato.

Non può succedere a me.

Sam non risponde, e il suo silenzio è la conferma di tutto.

Siamo ancora vicini, ho ancora le mani sui suoi fianchi, ma adesso mi sposto, disgustata. Non posso pensare di toccarlo di nuovo.

Lui mi blocca, sento le sue mani che vanno a chiudersi intorno ai miei polsi, senza fare forza. È una stretta gentile, che mi chiede di rimanere.

Non posso ascoltarlo.

Non riesco a pensare di sentirlo parlare.

Devo fuggire da tutto questo, perché è Natale, e a Natale non si piange, non si è infelici, non si è lasciati dal ragazzo che ami da una vita, dal tuo migliore amico, dal tuo confidente.

A Natale non si viene mollati per la cugina, per quanto carina essa sia.

A Natale c'è il vischio, i baci sotto l'albero e i regali.

Natale è biscotti alla cannella e risate su fortini di neve, non quel groppo che sale lento, stringendomi la gola.

Jhon Lennon canta ancora, con la sua voce calda, augurando un buon Natale e un anno senza timori né paure. Spera in mondo felice, senza la guerra, se lo vuole, se lo vogliamo.

Se lo vuole. Se lo vogliamo.

 

Non riesco a smettere di pensarci, mentre il mio mondo va in pezzi, disastrato da una guerra civile dove il paese-Leah non può uscirne integro.

 

~

 

Fuggo via.

 

Fuori nevica.

Fiocchi pesanti mi si posano sulla testa, gelati, ma non me ne accorgo.

Mi sembra di sprofondare. Il cuore si dibatte, cercando di liberarsi, di lasciar cadere il peso che lo tiene stretto, come il morso di cane rabbioso.

Sorpresa, mi porto una mano agli occhi, dove sento pungere qualcosa. Una lacrima, cristallina, scintilla sul mio pollice, una piccola stella caduta dal cielo.

Vi vedo riflesso dentro Sam, e mia cugina, i loro sguardi, di languidi amanti.

Mi domando come sia possibile che non me ne sia resa conto prima, come non mi possa essere mai venuto il dubbio.

Tutto quel tempo, tutto quell'amore.

 

E rido.

Rido, una risata che cancella tutto, persino i suoni gioiosi che ancora provengono da dentro la casa, suoni di festa. Rido la risata amara di chi è stato beffato, preso in giro, straziato per tanto tempo, senza che se ne sia mai accorto.

Mi disgusto, mi disgustano.

 

Sotto la neve della sera della Vigilia, rido fino a non avere più fiato, fino alle lacrime.

 

Sono sola.

 

Buon Natale, Leah.

 

 


 

   
 
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