Ciao fandomino bello!
Non ho assolutamente
intenzione di abbandonare la storia a capitoli iniziata in precedenza
(approfitto per dirvi un GRAZIE enorme) ma ho buttato giù
questa durante la
‘raccolta idee’
per l’altra
fanfiction… e ho pensato di pubblicarla!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!
S.
*
La carta da parati decorata non era più uniforme, stesa e
solida come un tempo.
Adesso era martoriata
da
infiniti graffi e strappi, procurati da una svariatissima gamma di
oggetti non propriamente raccomandabili
(certamente abbastanza da riempire un arsenale),
disseminata da una quantità ormai incalcolabile di fori di
proiettile, sfogo
preferito di Sherlock durante i frequenti momenti di noia, e imbrattata
da
disegni astratti, diagrammi, indefiniti colpi di pennello, pennarelli e
vernice
spray risalenti a memorabili
episodi
durante i quali Sherlock aveva trovato l’utilizzo dei fogli
di carta del suo
taccuino troppo banale per i suoi
appunti.
Il divano di pelle chiara
aveva ceduto, dopo anni e anni di onorato servizio, al continuo
utilizzo di
esso come sostituto di un letto da parte di Sherlock, e adesso era
cosparso di
abrasioni e tagli abbastanza profondi da lasciare scoperta la soffice
imbottitura bianca. E ad un’attenta osservazione si sarebbero
potuti notare anche
dei complicati e involontariamente artistici sghiribizzi sulla pelle
dei
cuscini della spalliera, indelebile souvenir
di quella volta in cui Sherlock era stato preso di mira da una raffica
di shuriken da un manipolo di
ninja
improvvisati.
Il teschio, il glorioso e adorato cranio sul caminetto non aveva
più l’aria
felice dei primi tempi in Baker Street. Faceva ancora la sua figura,
con il suo
ghigno sempreverde rivolto verso la porta d’ingresso, ma una
parte del cranio
era andata inevitabilmente perduta dopo una delle sfuriate di John,
anni ed
anni prima.
Il medico era tornato a casa, lievemente preoccupato di non aver
trovato
Sherlock nel salotto come al solito a quell’ora, e salendo
nella stanza di
Sherlock per poter controllare la situazione, aveva trovato i muri, il
letto,
addirittura i vetri delle finestre della camera del detective
imbrattati di
sangue ancora fresco e gocciolante. Dopo aver quasi rischiato un
infarto, dopo
essere quasi caduto rovinosamente giù per le scale nella
folle corsa di stanza
in stanza alla ricerca di Sherlock, aveva trovato il coinquilino
comodamente
accoccolato nella vasca da bagno colma d’acqua calda, dove
gli aveva
illustrato, con tutta la tranquillità del mondo, il suo
esperimento
perfettamente riuscito sull’analisi delle tracce ematiche
sulle scene del
crimine.
John era sceso in salotto, indeciso se sbattere la testa contro il muro
o
afferrare il matterello terribilmente invitante abbandonato sul mobile
della
cucina, ma alla fine aveva optato per la cosa a lui più
vicina. Aveva preso Nigel
tra le mani (‘Nigel? Sei ubriaco,
John?’
era stata la reazione di Sherlock quando John aveva deciso che quello
sarebbe
stato il nome del teschio, ma John lo trovava assolutamente perfetto,
senza
avere la minima idea del perché) e arrivato sulla soglia del
bagno, lo aveva lanciato
verso la vasca. Non voleva fare del male al detective (o forse solo un
pochino)
ma era seriamente intenzionato a fargli passare completamente la voglia
di
continuare certi esperimenti. Ovviamente Sherlock non aveva fatto una
piega ma
anzi, in un ingiusto capovolgimento di parti, si era infuriato con John
per
aver procurato un serio trauma cranico
al povero teschio, che dopo il lancio era rimasto con un antiestetico
buco di
tre centimetri in testa e una brutta crepa che lo attraversava da parte
a
parte.
Sherlock non gli aveva
parlato per una settimana.
Il cuscino sulla poltrona
di Sherlock, quello con sopra la bandiera del Regno Unito, aveva
completamente
perso ogni parvenza di un cuscino, ma poco importava ai due proprietari.
Adesso era vagamente appiattito, sfilacciato, con la cerniera laterale
quasi
staccata dal resto della stoffa ma né Sherlock né
John avevano avuto cuore e
coraggio di gettarlo via o di farlo anche solo rammendare. Avrebbe
perso ogni
significato, ogni ricordo, ogni rimando a gloriosi momenti passati in
sua
compagnia.
Avrebbe perso le tracce di quella volta in cui Sherlock aveva
seriamente
rischiato di beccarsi un fermacarte in fronte, se quel cuscino non si
fosse
miracolosamente posto a portata di mano per essere afferrato e usato
come scudo
di fortuna. Ma soprattutto se l’avessero gettato via non
avrebbero avuto più
nulla di materiale per poter
riportare alla mente il loro lento, esitante, imbarazzante ma desiderato primo bacio.
Era successo proprio lì, su quella poltrona, dopo due giorni
passati a
Doncaster sulle tracce di un uxoricida latitante. Non c’erano
stati grandi
discorsi, geniali scambi di battute, ammiccanti giochi di sguardi e
romanticherie varie. Sherlock si era semplicemente seduto sulla
poltrona, aveva
appoggiato la testa contro il cuscino e aveva chiuso gli occhi, in
totale
abbandono. John lo aveva guardato per minuti lunghi quanto ore, incerto
sul da
farsi, con mille domande in mente e zero risposte per ognuna di loro. E
dopo
aver completamente spento la mente, abbandonato ogni raziocinio,
lasciato alle
spalle ogni ‘se’,
si era seduto sul
bracciolo della poltrona accanto al detective e lo aveva stretto a
sé con
dolcezza, trovando un’iniziale reticenza da parte di Sherlock
che però non lo
aveva scoraggiato. Dopo qualche secondo aveva sentito il detective
sciogliersi,
muoversi nel suo abbraccio, allacciare le sue braccia ai suoi fianchi
portandolo più vicino, desiderando un contatto
più intimo che John non gli
avrebbe negato per nulla al mondo.
E si erano baciati, in quel momento, semplicemente, senza che nessuno
dei due
l’avesse premeditato. Le loro labbra si erano mosse
all’unisono, incontrandosi
in un calore intenso, spossante, assolutamente inaspettato che li aveva
lasciati senza fiato, affaticati ma soddisfatti come mai nella loro
vita. E a
quel bacio ne erano susseguiti mille e mille altri cui quel cuscino
aveva fatto
da testimone silenzioso.
Baker Street aveva perduto
la sua allegra Signora Hudson, dopo una vita lunga, piena di
felicità e colma
di soddisfazioni. Sherlock e John le erano rimasti vicini durante la
sua lunga
malattia, e lei aveva mantenuto il suo sorriso confortante, la sua
voglia di vivere,
la sua allegria dirompente fino all’ultimo istante della sua
vita. Se n’era
andata con un sorriso, la dolce Signora Hudson, tenendo la mano ai due
uomini
che da tempo aveva smesso di considerare come semplici inquilini ma
come veri e
propri figli cui voleva un bene immenso. Al suo funerale era accorsa una
vera e propria folla, e Sherlock aveva abbattuto ogni muro possibile di
freddezza e riserbo e aveva parlato davanti a quella gente, aveva
parlato di
quella donna come se fosse davvero un figlio addolorato per sua madre
con
parole forti, amorevoli, piene di affetto. John si era commosso,
l’aveva
stretto a sé con dolcezza e lo aveva sentito piangere, con
lacrime calde ad
inzuppargli il cappotto, e aveva confortato
Sherlock per la prima volta nella sua vita.
Ma in quell’involucro di ricordi, esperienze, momenti di vita
indelebili che era il 221B
però,
qualcos’altro era inevitabilmente mutato,
negli anni.
Sherlock e John.
In una mite notte
d’autunno, John guardava Sherlock immerso
nell’attenta e concentrata lettura di
un libro dal titolo incomprensibile. Gli occhi dell’ex
detective erano in
parvenza stanchi ma ugualmente concentrati, attenti, vispi. Il colore
azzurro e
cristallino della sua giovinezza era lentamente sfumato in un colore
meno
intenso, più opaco, ma
quello sguardo
attento e indagatore che Sherlock non avrebbe mai e poi mai perduto
riusciva
sempre ad essere pungente, penetrante, glaciale
a seconda delle situazioni, assolutamente da
Sherlock Holmes.
I riccioli scuri che John
amava accarezzare, annusare quando
Sherlock riposava sul suo grembo erano diventati morbide ciocche
bianche,
candide e lucide come fiocchi di neve appena caduti. La bocca a cuore,
quella
bocca che ormai John conosceva come le sue tasche, aveva rughe delicate
al suo
contorno, piccole pieghe sottili e poco profonde, linee
d’espressione agli
angoli delle labbra che John amava attribuire alle risate sonore, sincere, rare per il resto del mondo e
invece meraviglioso regalo quotidiano
nell’intimità della loro casa.
John accarezzò con lo sguardo quella mappa naturale
disegnata sul volto del suo
compagno, pensando a quanto lo trovasse splendido in giovinezza e di
quanto
ancora adesso lo amasse, di quanto ancora si ritrovasse a pensare a
quanto
meraviglioso, prezioso e sì, anche dieci
volte più bello lo trovasse adesso, nelle
cosiddette e soltanto presunte
imperfezioni della vecchiaia.
John lanciò uno sguardo
allo specchio sul caminetto, sorridendo bonariamente alla sua immagine
riflessa. Anche lui era cambiato, anche su di lui i giorni, i mesi, gli
anni,
avevano lasciato tracce, segni,
anche
se il vecchio John Watson era sempre lì, dentro di lui,
vivo, giovane.
Anche i suoi capelli non
avevano più traccia del colore biondo scuro di un tempo,
mutato in un grigio
chiaro tendente al bianco, e i suoi occhi adesso erano più
pesanti, segnati dal
tempo e dall’età ma ancora espressivi, buoni. John
possedeva ancora quello
sguardo dolce e rassicurante, quello che era capace di calmare un
bambino
spaventato durante una visita medica, quello stesso sguardo tenero ma
attraente
che aveva fatto letteralmente sciogliere decine di donne e uomini come
fossero
ghiaccioli al sole. E il suo sorriso, quel bellissimo sorriso era
ancora lo
stesso, anche se contornato anch’esso dai segni del tempo, da
quei solchi
profondi che raccontavano una storia, una vita, un viaggio. E John era
fiero di
quelle pagine di vita scritte sul suo volto.
Le mani tremavano
leggermente adesso, la ferita alla spalla aveva portato conseguenze in
età
avanzata, ed era stato costretto ad indossare gli occhiali dopo un
doloroso incontro ravvicinato con
la vetrina di
Speedy dove era stato costretto a far pace con l’idea di star
diventando
decisamente miope. Aveva borbottato
stizzito per un mese prima che Sherlock riuscisse finalmente a
convincerlo che
non stava affatto male, ma che anzi, con indosso gli occhiali aveva
acquisito
un fascino diverso e assolutamente attraente.
John aveva fatto finta di
non crederci, e si era goduto la lunga e approfondita opera di
persuasione di
Sherlock che lo aveva lasciato piacevolmente dolorante per due
settimane in
svariate aree del suo corpo e che aveva portato ad un irreparabile
danno al
tavolino da tè, che si era rivelato veramente troppo, troppo
fragile per
sorreggere il peso di due adulti. (‘Io
te
l’avevo detto, John! Era statisticamente
impossibile!’.)
Il volto nello specchio
sorrise a quel ricordo, prima di tornare ad osservare il suo compagno
che
adesso aveva chiuso il libro con un tonfo e si era voltato lentamente
verso
John incrociando il suo sguardo con un sorriso ironico.
“Ho una gran bella cera, vero?” chiese a John,
sistemandosi meglio sul divano e
poggiando i piedi sulle gambe dell’ex medico. John
ridacchiò, accarezzandogli
le gambe nodose coperte dal tessuto del pigiama. Sfiorò con
l’altra mano i suoi
avambracci ancora segnati dagli aghi, dai lacci emostatici e dal nastro
utilizzato per sostenerlo e poi passò ad accarezzargli il
volto, a delineare il
contorno della lieve irritazione sulla guancia dovuta alla maschera
d’ossigeno
e a toccare con il pollice le labbra screpolate. Il respiro affannoso
di
Sherlock gli solleticò la pelle della mano, facendolo
sorridere.
“Hai sempre una bella
cera per me,
Sherlock” disse John, sincero, mentre Sherlock metteva fine
alle carezze
stringendo la mano del medico nella sua.
“Bugiardo” lo schernì l’ex
detective cominciando a sfiorare il palmo della mano
di John come se stesse seguendo un percorso ben definito lungo le
pieghe della
pelle.
John si avvicinò di più a lui, fin quando i loro
volti furono a meno di un
palmo di distanza, così vicini che i loro respiri potessero
fondersi in uno
solo.
“Io non mento su di
te” gli assicurò,
godendosi il tocco lieve delle dita di Sherlock e facendo scivolare le
ciocche
bianche tra le dita. Sherlock tossì con un rumore secco,
rauco mentre l’orologio
scandiva la mezzanotte.
Anche quel vecchio orologio era cambiato nel tempo, il vecchio legno
della
struttura ormai consunto, ma al contrario di tutto il resto,
quell’oggetto
aveva per lui e Sherlock un ricordo tutt’altro che piacevole,
risalente a
solamente una settimana prima.
John non avrebbe mai
dimenticato quel giorno, quella mattina che avrebbe sempre ricordato
come una
delle più orribili di tutta la sua esistenza.
Non avrebbe mai rimosso dalla memoria quei rintocchi
d’orologio, dieci per
l’esattezza, che avevano accompagnato l’accasciarsi
improvviso di Sherlock sul
pavimento della cucina con una mano sul petto, rigido.
Per fortuna Lestrade era passato
a trovarli pochi minuti prima, e John aveva potuto contare su un aiuto
tempestivo
che da solo non sarebbe riuscito a fornirgli abbastanza in fretta e non
passava
giorno che non ringraziasse Dio per Gregory. L’ex Ispettore
aveva chiamato il
999 immediatamente, con John accanto totalmente sconvolto e chino sul
suo
compagno, intento a prestargli soccorso.
Aveva messo Sherlock seduto, guardandolo negli occhi e rassicurandolo
mentre
chiedeva a Greg di portargli delle aspirine e un bicchiere
d’acqua. Aveva
guardato Sherlock ingoiare le due pillole a fatica visibilmente
stremato, e
aveva temuto per un attimo di cedere, di accasciarsi anche lui, di non
riuscire
a mantenere il sangue freddo necessario per affrontare quella
situazione. Aveva
resistito, doveva resistere per lui,
ed era salito nell’ambulanza con Sherlock, tenendogli la mano
e parlandogli mentre
i paramedici effettuavano le prime misure di soccorso, dirigendosi
spediti
verso l’Ospedale più vicino.
La diagnosi era stata
quella che John aveva immediatamente pensato, infarto
del miocardio. Tre parole che nella mente di John, seduto in
sala d’attesa con la testa tra le mani, si erano
inevitabilmente tramutate in
mille timori, ipotesi, immagini decisamente poco ottimiste riguardo
alla
situazione.
Sherlock però aveva completamente distrutto ogni suo minimo
dubbio. Sherlock
aveva reagito. Sherlock aveva
lottato
e aveva vinto.
“Non avevo nessuna voglia di andarmene, John” aveva
detto, quando colmo di
gioia John aveva ricevuto il permesso di vederlo, dopo ore ed ore.
“Ho idea che
qualunque cosa ci sia dopo la morte, sia qualcosa di assolutamente troppo noioso per i miei gusti”.
John aveva riso, sollevato
e felice.
John scosse la testa divertito, scoppiando a ridere e cercando
un’angolazione
ideale per poter scivolare accanto a Sherlock in quella scomoda
posizione.
“Io sono solo previdente. Non voglio che succeda di
nuovo” disse il medico,
accorato, ancora accarezzandogli i capelli. Sherlock sbuffò,
lasciando la mano
di John e passando anche lui ad accarezzargli la nuca dolcemente.
“Non c’è pericolo. Il mio caro dottore
segue alla lettera quel papiro di
indicazioni che mi hanno dato
in ospedale. Ed io non ho modo di oppormi”.
John storse il naso, come infastidito che Sherlock reputasse la sua
preoccupazione qualcosa di eccessivo.
“Io lo faccio per te, Sherlock. Perché ci tengo,
perché ti amo” disse, con
tutta la semplicità del mondo. Ricordò le prime
volte che aveva detto quelle
due paroline a Sherlock, quelli che sembravano non anni ma secoli
prima.
Sherlock aveva sempre più che gradito le esternazioni
affettuose di John, ma
l’inesperienza lo aveva spinto a rispondere, le prime volte,
con un semplice ‘grazie’
o un poco opportuno ‘sei davvero
molto gentile, John’ che
avevano divertito immensamente il medico (conosceva abbastanza la
reticenza di
Sherlock su certe cose per potersela prendere) e imbarazzato
furiosamente il
detective. Dopo un rodaggio abbastanza intenso però,
Sherlock aveva imparato a
sciogliersi e la prima volta che quel flebile ma sentito ‘ti amo’ era uscito dalle labbra
di Sherlock, John si era sentito
l’uomo più felice del mondo.
“Te l’ho già detto John.
Morire è un’avventura, e io non ho intenzione di
intraprenderne nessuna senza
accanto il mio…blogger” lo
prese in giro Sherlock, ricevendo solo un’occhiata grave da
parte del medico. “Indi
per cui, pensò che cercherò in tutti i modi di
posticiparla il più possibile
per il bene di entrambi” asserì, scostando una
ciocca grigia dalla fronte di
John che adesso sorrideva dolcemente al suo compagno, visibilmente
addolcito.
“E ti amo anch’io”
aggiunse infine mordendosi la punta della lingua, come per punirsi per
non
averlo detto prima. John non riuscì nemmeno quella volta,
dopo tanto tempo
credeva di esserci ormai abituato, a non provare una piacevole e
confortante
sensazione di calore nel petto. Gli sorrise, amorevole.
Non parlarono più, per quella
sera, ma rimasero semplicemente sdraiati l’uno accanto
all’altro sul quel
divano, a guardarsi semplicemente negli occhi, a vagare con lo sguardo
sui loro
volti che ormai conoscevano a memoria ma che non si stancavano mai di
osservare, di studiare, di contemplare con meraviglia.
C’era così tanto
nei loro occhi, come se quelle loro diverse ma
meravigliose sfumature d’azzurro fossero pagine di un libro
colmo di storie,
stralci di vita, di momenti belli e brutti ma sempre significativi. Ed
era
loro, solamente loro.
Rimasero in silenzio ad
ascoltare le lancette dell’orologio ticchettare soffusamente,
a godere del suono
lento e monotono delle auto in strada, dei rumori di portiere di taxi
sbattute
violentemente da gente frettolosa, di grida di bambini in strada e voci
acute
di madri che raccomandavano loro di non attraversare senza fare
attenzione alle
auto.
Erano sempre più frequenti le serate passate in quel modo,
senza necessità di
parole, senza televisione o altro svago se non quello di stare
semplicemente lì
seduti, a guardarsi, a sorridersi e ad ascoltare i suoni della vita in
quella
polifonica orchestra di milioni di
elementi che era la loro Londra. E a Sherlock e John bastava quello per
sentirsi pienamente appagati, come se dopo una vita al limite avessero
bisogno
di qualche momento di normalità, di tranquillità.
Sherlock si mosse appena, sbadigliò e intrecciò
una mano con quella del medico
ancora una volta, come se volesse una conferma che sarebbe rimasto
lì accanto a
lui. John la strinse a sua volta, poggiando la fronte su quella di
Sherlock. Non
lo avrebbe mai lasciato, mai.
Sherlock si abbandonò al
sonno, visibilmente sfiancato dalla giornata, ma John resistette
più a lungo,
stringendo quella mano nella sua con vigore, come a dirgli ancora,
silenziosamente ‘sono qui,
sarò sempre
qui’.
John si avvicinò ancora di
più, per quanto le dimensioni del divano potessero
permetterlo, e si lasciò
accarezzare dal respiro del suo compagno, guardando le sue palpebre
muoversi
quasi impercettibilmente e le labbra piegarsi in un sorriso
involontario,
spontaneo, che John trovò semplicemente adorabile.
All’improvviso, una fitta alla spalla lo costrinse a
distogliere l’attenzione
dal viso di Sherlock, ma John, nella dolcezza del momento, non
riuscì a
intravedere in quel dolore improvviso, purtroppo sempre più
frequente, una
sfumatura negativa. La versione che più amava ripetersi ogni
volta che era
costretto ad afferrare la sua spalla in preda ad un dolore acuto e
lancinante,
era che solo grazie a quel proiettile aveva avuto la
possibilità di conoscere
Sherlock. Se non fosse stato ferito, se fosse rimasto in Afghanistan
senza così
tornare a Londra, magari non avrebbe mai incontrato Mike Stamford, lui
non
l’avrebbe mai presentato a Sherlock e la sua esistenza
sarebbe potuta essere
immensamente noiosa, infelice e insoddisfacente, se proprio si voleva
escludere
l’ipotesi che la sua vita sarebbe potuta addirittura finire in quella missione.
Così John aveva fatto pace
con il profondo sfregio sulla spalla, stabilendo con esso una tregua
senza
termine, arrivando a riconoscere che farsi sparare era stata
sicuramente una
delle imprudenze migliori di tutta la sua intera vita.
Nulla era stato semplice
nella convivenza con Sherlock ma John non l’avrebbe cambiata
con nessun’altra.
Non riusciva a pensare a quello che sognava prima di conoscere
Sherlock, non
tollerava più di aver contemplato anche solamente
l’idea di una vita comune,
normale (noiosa! Avrebbe commentato
Sherlock) quando lui era tutto, fuorché un uomo come tutti
gli altri. Era nato
in previsione di quell’incontro, aveva vissuto
nell’attesa di Sherlock. Ogni
sua azione, e di questo John era assolutamente convinto, era stata
compiuta per
portare a quel legame così forte, indissolubile.
Le loro esistenze erano
state plasmate per incrociarsi, per fondersi in una sola, per creare
quel
rapporto che non si sarebbe mai sciolto, per sempre.
John guardò un raggio di luce attraversare il vetro della
finestra del salotto,
inondando la stanza di una luce blu intensa, probabilmente proveniente
da una
volante della polizia.
Sorrise quando tornò a guardare Sherlock, adesso
profondamente addormentato con
le labbra socchiuse, al pensiero di come tempo prima si sarebbe
precipitato
alla porta alla sola vista di quell’auto di passaggio (lavoro, lavoro, lavoro, John!) e di come
invece adesso giaceva
rilassato, sereno, accanto a lui. Non che Sherlock non apprezzasse
più un sano,
ingarbugliato omicidio, anzi era ancora fin troppo (insensibilmente)
entusiasta
davanti a scene del crimine particolarmente truculente, ma si era
decisamente
dato una calmata nel corso degli anni. E John adorava ritenersi il
motivo
principale di quel cambiamento, anche se magari essere ragione di
felicità per
Sherlock quando i suoi motivi di contentezza usuali avevano a che fare
con
moncherini sanguinolenti, crimini ed esperimenti disgustosi, poteva non
essere
esattamente un motivo di orgoglio.
Sherlock mugolò nel sonno, dolcemente, come se il suo
inconscio avesse
riconosciuto il gesto del medico.
“John”
sussurrò nel pieno del sonno
contro le labbra dell’altro, con una voce leggera, quasi
più giovane, senza
quella lieve nota
arrochita che si portava dietro dalla degenza ospedaliera.
Il medico sorrise, il cuore che batteva forte, felice.
John ringiovanì.
“Sherlock” disse
anche lui, a voce
appena udibile.
Sbadigliò anche lui, sistemandosi meglio, incurante che la
mattina dopo si
sarebbe certamente svegliato dolorante e intorpidito a causa della
scomoda
posizione che la vicinanza di Sherlock lo aveva costretto ad assumere,
ma non
poteva importargli di meno al momento. Avrebbe sopportato un
po’ di
indolenzimento mattutino se fosse stato il prezzo da pagare per non
svegliare
Sherlock e non rompere quell’atmosfera perfetta, surreale.
Il sonno lo sedusse pian
piano, dolcemente, cullandolo in un torpore piacevole, reso ancora
migliore
dalla presenza del volto di Sherlock a pochi centimetri dal suo. John
aprì e
chiuse gli occhi più volte prendendo la vecchia patchwork
abbandonata sulla
poltrona e coprendo entrambi fino alle spalle, accoccolandosi il
più possibile
nel poco spazio a disposizione.
Diede un’ultima stretta alla mano di Sherlock e la
portò al cuore lentamente,
avvicinando il petto anch’egli così che le loro
mani intrecciate potessero
percepire i battiti dei loro cuori. John sorrise, pensando a quando
esattamente
fosse diventato tanto spudoratamente romantico,
cullato da quel suono rassicurante e dal vento che fischiava attraverso
gli
stipiti delle finestre.
Era vero, pensò, mentre la vista cominciava a diventare
offuscata e gli occhi
faticavano a rimanere aperti e vigili, quello che Sherlock gli aveva
detto,
tempo prima.
Sherlock era quello che attirava i guai, quello che
s’impelagava in situazioni
assurde e avventure dalle sempre dubbie probabilità di
sopravvivenza, e John
era la sua parte razionale, saggia, oltre che il suo braccio armato
utile per
ogni evenienza. Erano le due metà perfette, l’uno
l'ideale completamento
dell’altro e all’improvviso realizzò
quanta verità ci fosse nelle parole di
Sherlock.
Non c’era avventura che
avrebbero potuto affrontare separati.
Sherlock non l’avrebbe
abbandonato, non adesso e nemmeno in un prossimo futuro. Sherlock non
lo
avrebbe mai lasciato solo per nulla al mondo, semplicemente
perché l’uno non
sarebbe potuto esistere senza l’altro. John sorrise ormai
sulla soglia del
dormiveglia, mentre rifletteva sull’effettiva
possibilità che quando avrebbero
lasciato quel mondo, il più tardi possibile si sperava,
sarebbe stato nello
stesso identico momento, insieme anche in quell’ultima grande
avventura.
Perché solamente il pensiero del proprio nome scandito,
scritto o stampato
senza quello di Sherlock accanto, o viceversa, sembrava qualcosa di
così
strano, assurdo e improbabile da
risultare semplicemente impossibile.
Sarebbero stati per sempre Sherlock e John, John e Sherlock e quella
realtà non
sarebbe mai cambiata.
Con un ultimo bacio sulle labbra di Sherlock, si addormentò.
*