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Autore: SAranel    14/06/2012    6 recensioni
Nel corso degli anni, tante cose sono cambiate al 221b di Baker Street e inevitabilmente, anche i suoi due inquilini.
"Il teschio, il glorioso e adorato cranio sul caminetto non aveva più l’aria felice dei primi tempi in Baker Street. Faceva ancora la sua figura, con il suo ghigno sempreverde rivolto verso la porta d’ingresso, ma una parte del cranio era andata inevitabilmente perduta dopo una delle sfuriate di John, anni ed anni prima.
Il medico era tornato a casa, lievemente preoccupato di non aver trovato Sherlock nel salotto come al solito a quell’ora, e salendo nella stanza di Sherlock per poter controllare la situazione, aveva trovato i muri, il letto, addirittura i vetri delle finestre della camera del detective imbrattati di sangue ancora fresco e gocciolante. Dopo aver quasi rischiato un infarto, dopo essere quasi caduto rovinosamente giù per le scale nella folle corsa di stanza in stanza alla ricerca di Sherlock, aveva trovato il coinquilino comodamente accoccolato nella vasca da bagno colma d’acqua calda, dove gli aveva illustrato, con tutta la tranquillità del mondo, il suo esperimento perfettamente riuscito sull’analisi delle tracce ematiche sulle scene del crimine."[...]
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ciao fandomino bello!

Non ho assolutamente intenzione di abbandonare la storia a capitoli iniziata in precedenza (approfitto per dirvi un GRAZIE enorme) ma ho buttato giù questa durante la ‘raccolta idee’ per l’altra fanfiction… e ho pensato di pubblicarla!
Sperando in bene, vi auguro buona lettura!

S.



Indissolubile

*



Quasi ogni cosa al 221b di Baker Street, era cambiata.
La carta da parati decorata non era più uniforme, stesa e solida come un tempo.

Adesso era martoriata da infiniti graffi e strappi, procurati da una svariatissima gamma di oggetti non propriamente raccomandabili (certamente abbastanza da riempire un arsenale), disseminata da una quantità ormai incalcolabile di fori di proiettile, sfogo preferito di Sherlock durante i frequenti momenti di noia, e imbrattata da disegni astratti, diagrammi, indefiniti colpi di pennello, pennarelli e vernice spray risalenti a memorabili episodi durante i quali Sherlock aveva trovato l’utilizzo dei fogli di carta del suo taccuino troppo banale per i suoi appunti.
Il divano di pelle chiara aveva ceduto, dopo anni e anni di onorato servizio, al continuo utilizzo di esso come sostituto di un letto da parte di Sherlock, e adesso era cosparso di abrasioni e tagli abbastanza profondi da lasciare scoperta la soffice imbottitura bianca. E ad un’attenta osservazione si sarebbero potuti notare anche dei complicati e involontariamente artistici sghiribizzi sulla pelle dei cuscini della spalliera, indelebile souvenir di quella volta in cui Sherlock era stato preso di mira da una raffica di shuriken da un manipolo di ninja improvvisati.


Il teschio, il glorioso e adorato cranio sul caminetto non aveva più l’aria felice dei primi tempi in Baker Street. Faceva ancora la sua figura, con il suo ghigno sempreverde rivolto verso la porta d’ingresso, ma una parte del cranio era andata inevitabilmente perduta dopo una delle sfuriate di John, anni ed anni prima.
Il medico era tornato a casa, lievemente preoccupato di non aver trovato Sherlock nel salotto come al solito a quell’ora, e salendo nella stanza di Sherlock per poter controllare la situazione, aveva trovato i muri, il letto, addirittura i vetri delle finestre della camera del detective imbrattati di sangue ancora fresco e gocciolante. Dopo aver quasi rischiato un infarto, dopo essere quasi caduto rovinosamente giù per le scale nella folle corsa di stanza in stanza alla ricerca di Sherlock, aveva trovato il coinquilino comodamente accoccolato nella vasca da bagno colma d’acqua calda, dove gli aveva illustrato, con tutta la tranquillità del mondo, il suo esperimento perfettamente riuscito sull’analisi delle tracce ematiche sulle scene del crimine.
John era sceso in salotto, indeciso se sbattere la testa contro il muro o afferrare il matterello terribilmente invitante abbandonato sul mobile della cucina, ma alla fine aveva optato per la cosa a lui più vicina. Aveva preso Nigel tra le mani (‘Nigel? Sei ubriaco, John?’ era stata la reazione di Sherlock quando John aveva deciso che quello sarebbe stato il nome del teschio, ma John lo trovava assolutamente perfetto, senza avere la minima idea del perché) e arrivato sulla soglia del bagno, lo aveva lanciato verso la vasca. Non voleva fare del male al detective (o forse solo un pochino) ma era seriamente intenzionato a fargli passare completamente la voglia di continuare certi esperimenti. Ovviamente Sherlock non aveva fatto una piega ma anzi, in un ingiusto capovolgimento di parti, si era infuriato con John per aver procurato un serio trauma cranico al povero teschio, che dopo il lancio era rimasto con un antiestetico buco di tre centimetri in testa e una brutta crepa che lo attraversava da parte a parte.
Sherlock non gli aveva parlato per una settimana.

 
Il cuscino sulla poltrona di Sherlock, quello con sopra la bandiera del Regno Unito, aveva completamente perso ogni parvenza di un cuscino, ma poco importava ai due proprietari.
Adesso era vagamente appiattito, sfilacciato, con la cerniera laterale quasi staccata dal resto della stoffa ma né Sherlock né John avevano avuto cuore e coraggio di gettarlo via o di farlo anche solo rammendare. Avrebbe perso ogni significato, ogni ricordo, ogni rimando a gloriosi momenti passati in sua compagnia.
Avrebbe perso le tracce di quella volta in cui Sherlock aveva seriamente rischiato di beccarsi un fermacarte in fronte, se quel cuscino non si fosse miracolosamente posto a portata di mano per essere afferrato e usato come scudo di fortuna. Ma soprattutto se l’avessero gettato via non avrebbero avuto più nulla di materiale per poter riportare alla mente il loro lento, esitante, imbarazzante ma desiderato primo bacio.
Era successo proprio lì, su quella poltrona, dopo due giorni passati a Doncaster sulle tracce di un uxoricida latitante. Non c’erano stati grandi discorsi, geniali scambi di battute, ammiccanti giochi di sguardi e romanticherie varie. Sherlock si era semplicemente seduto sulla poltrona, aveva appoggiato la testa contro il cuscino e aveva chiuso gli occhi, in totale abbandono. John lo aveva guardato per minuti lunghi quanto ore, incerto sul da farsi, con mille domande in mente e zero risposte per ognuna di loro. E dopo aver completamente spento la mente, abbandonato ogni raziocinio, lasciato alle spalle ogni ‘se’, si era seduto sul bracciolo della poltrona accanto al detective e lo aveva stretto a sé con dolcezza, trovando un’iniziale reticenza da parte di Sherlock che però non lo aveva scoraggiato. Dopo qualche secondo aveva sentito il detective sciogliersi, muoversi nel suo abbraccio, allacciare le sue braccia ai suoi fianchi portandolo più vicino, desiderando un contatto più intimo che John non gli avrebbe negato per nulla al mondo.
E si erano baciati, in quel momento, semplicemente, senza che nessuno dei due l’avesse premeditato. Le loro labbra si erano mosse all’unisono, incontrandosi in un calore intenso, spossante, assolutamente inaspettato che li aveva lasciati senza fiato, affaticati ma soddisfatti come mai nella loro vita. E a quel bacio ne erano susseguiti mille e mille altri cui quel cuscino aveva fatto da testimone silenzioso.

 
Baker Street aveva perduto la sua allegra Signora Hudson, dopo una vita lunga, piena di felicità e colma di soddisfazioni. Sherlock e John le erano rimasti vicini durante la sua lunga malattia, e lei aveva mantenuto il suo sorriso confortante, la sua voglia di vivere, la sua allegria dirompente fino all’ultimo istante della sua vita. Se n’era andata con un sorriso, la dolce Signora Hudson, tenendo la mano ai due uomini che da tempo aveva smesso di considerare come semplici inquilini ma come veri e propri figli cui voleva un bene immenso. Al suo funerale era accorsa una vera e propria folla, e Sherlock aveva abbattuto ogni muro possibile di freddezza e riserbo e aveva parlato davanti a quella gente, aveva parlato di quella donna come se fosse davvero un figlio addolorato per sua madre con parole forti, amorevoli, piene di affetto. John si era commosso, l’aveva stretto a sé con dolcezza e lo aveva sentito piangere, con lacrime calde ad inzuppargli il cappotto, e aveva confortato Sherlock per la prima volta nella sua vita.
Ma in quell’involucro di ricordi, esperienze, momenti di vita indelebili che era il 221B però, qualcos’altro era inevitabilmente mutato, negli anni.

Sherlock e John.

 

In una mite notte d’autunno, John guardava Sherlock immerso nell’attenta e concentrata lettura di un libro dal titolo incomprensibile. Gli occhi dell’ex detective erano in parvenza stanchi ma ugualmente concentrati, attenti, vispi. Il colore azzurro e cristallino della sua giovinezza era lentamente sfumato in un colore meno intenso, più opaco, ma quello sguardo attento e indagatore che Sherlock non avrebbe mai e poi mai perduto riusciva sempre ad essere pungente, penetrante, glaciale a seconda delle situazioni, assolutamente da Sherlock Holmes.
I riccioli scuri che John amava accarezzare, annusare quando Sherlock riposava sul suo grembo erano diventati morbide ciocche bianche, candide e lucide come fiocchi di neve appena caduti. La bocca a cuore, quella bocca che ormai John conosceva come le sue tasche, aveva rughe delicate al suo contorno, piccole pieghe sottili e poco profonde, linee d’espressione agli angoli delle labbra che John amava attribuire alle risate sonore, sincere, rare per il resto del mondo e invece meraviglioso regalo quotidiano nell’intimità della loro casa.
John accarezzò con lo sguardo quella mappa naturale disegnata sul volto del suo compagno, pensando a quanto lo trovasse splendido in giovinezza e di quanto ancora adesso lo amasse, di quanto ancora si ritrovasse a pensare a quanto meraviglioso, prezioso e sì, anche dieci volte più bello lo trovasse adesso, nelle cosiddette e soltanto presunte imperfezioni della vecchiaia.
John lanciò uno sguardo allo specchio sul caminetto, sorridendo bonariamente alla sua immagine riflessa. Anche lui era cambiato, anche su di lui i giorni, i mesi, gli anni, avevano lasciato tracce, segni, anche se il vecchio John Watson era sempre lì, dentro di lui, vivo, giovane.
Anche i suoi capelli non avevano più traccia del colore biondo scuro di un tempo, mutato in un grigio chiaro tendente al bianco, e i suoi occhi adesso erano più pesanti, segnati dal tempo e dall’età ma ancora espressivi, buoni. John possedeva ancora quello sguardo dolce e rassicurante, quello che era capace di calmare un bambino spaventato durante una visita medica, quello stesso sguardo tenero ma attraente che aveva fatto letteralmente sciogliere decine di donne e uomini come fossero ghiaccioli al sole. E il suo sorriso, quel bellissimo sorriso era ancora lo stesso, anche se contornato anch’esso dai segni del tempo, da quei solchi profondi che raccontavano una storia, una vita, un viaggio. E John era fiero di quelle pagine di vita scritte sul suo volto.
Le mani tremavano leggermente adesso, la ferita alla spalla aveva portato conseguenze in età avanzata, ed era stato costretto ad indossare gli occhiali dopo un doloroso incontro ravvicinato con la vetrina di Speedy dove era stato costretto a far pace con l’idea di star diventando decisamente miope. Aveva borbottato stizzito per un mese prima che Sherlock riuscisse finalmente a convincerlo che non stava affatto male, ma che anzi, con indosso gli occhiali aveva acquisito un fascino diverso e assolutamente attraente.
John aveva fatto finta di non crederci, e si era goduto la lunga e approfondita opera di persuasione di Sherlock che lo aveva lasciato piacevolmente dolorante per due settimane in svariate aree del suo corpo e che aveva portato ad un irreparabile danno al tavolino da tè, che si era rivelato veramente troppo, troppo fragile per sorreggere il peso di due adulti. (‘Io te l’avevo detto, John! Era statisticamente impossibile!’.)
Il volto nello specchio sorrise a quel ricordo, prima di tornare ad osservare il suo compagno che adesso aveva chiuso il libro con un tonfo e si era voltato lentamente verso John incrociando il suo sguardo con un sorriso ironico.
“Ho una gran bella cera, vero?” chiese a John, sistemandosi meglio sul divano e poggiando i piedi sulle gambe dell’ex medico. John ridacchiò, accarezzandogli le gambe nodose coperte dal tessuto del pigiama. Sfiorò con l’altra mano i suoi avambracci ancora segnati dagli aghi, dai lacci emostatici e dal nastro utilizzato per sostenerlo e poi passò ad accarezzargli il volto, a delineare il contorno della lieve irritazione sulla guancia dovuta alla maschera d’ossigeno e a toccare con il pollice le labbra screpolate. Il respiro affannoso di Sherlock gli solleticò la pelle della mano, facendolo sorridere.
“Hai sempre una bella cera per me, Sherlock” disse John, sincero, mentre Sherlock metteva fine alle carezze stringendo la mano del medico nella sua.
“Bugiardo” lo schernì l’ex detective cominciando a sfiorare il palmo della mano di John come se stesse seguendo un percorso ben definito lungo le pieghe della pelle.
John si avvicinò di più a lui, fin quando i loro volti furono a meno di un palmo di distanza, così vicini che i loro respiri potessero fondersi in uno solo.
“Io non mento su di te” gli assicurò, godendosi il tocco lieve delle dita di Sherlock e facendo scivolare le ciocche bianche tra le dita. Sherlock tossì con un rumore secco, rauco mentre l’orologio scandiva la mezzanotte.
Anche quel vecchio orologio era cambiato nel tempo, il vecchio legno della struttura ormai consunto, ma al contrario di tutto il resto, quell’oggetto aveva per lui e Sherlock un ricordo tutt’altro che piacevole, risalente a solamente una settimana prima.
John non avrebbe mai dimenticato quel giorno, quella mattina che avrebbe sempre ricordato come una delle più orribili di tutta la sua esistenza.
Non avrebbe mai rimosso dalla memoria quei rintocchi d’orologio, dieci per l’esattezza, che avevano accompagnato l’accasciarsi improvviso di Sherlock sul pavimento della cucina con una mano sul petto, rigido.
Per fortuna Lestrade era passato a trovarli pochi minuti prima, e John aveva potuto contare su un aiuto tempestivo che da solo non sarebbe riuscito a fornirgli abbastanza in fretta e non passava giorno che non ringraziasse Dio per Gregory. L’ex Ispettore aveva chiamato il 999 immediatamente, con John accanto totalmente sconvolto e chino sul suo compagno, intento a prestargli soccorso.
Aveva messo Sherlock seduto, guardandolo negli occhi e rassicurandolo mentre chiedeva a Greg di portargli delle aspirine e un bicchiere d’acqua. Aveva guardato Sherlock ingoiare le due pillole a fatica visibilmente stremato, e aveva temuto per un attimo di cedere, di accasciarsi anche lui, di non riuscire a mantenere il sangue freddo necessario per affrontare quella situazione. Aveva resistito, doveva resistere per lui, ed era salito nell’ambulanza con Sherlock, tenendogli la mano e parlandogli mentre i paramedici effettuavano le prime misure di soccorso, dirigendosi spediti verso l’Ospedale più vicino.
La diagnosi era stata quella che John aveva immediatamente pensato, infarto del miocardio. Tre parole che nella mente di John, seduto in sala d’attesa con la testa tra le mani, si erano inevitabilmente tramutate in mille timori, ipotesi, immagini decisamente poco ottimiste riguardo alla situazione.
Sherlock però aveva completamente distrutto ogni suo minimo dubbio. Sherlock aveva reagito. Sherlock aveva lottato e aveva vinto.
“Non avevo nessuna voglia di andarmene, John” aveva detto, quando colmo di gioia John aveva ricevuto il permesso di vederlo, dopo ore ed ore. “Ho idea che qualunque cosa ci sia dopo la morte, sia qualcosa di assolutamente troppo noioso per i miei gusti”.
John aveva riso, sollevato e felice.

 
“Ci stai pensando ancora, John, vero? Non sarai tu a portarmi sfortuna? Per quanto non creda a certe superstizioni…” si morse il labbro, punzecchiando il compagno. John lo colpì con il vecchio cuscino, sorridendo. Sherlock fece finta di essere stato ferito mortalmente e con un gesto abbastanza plateale si accasciò sul bracciolo del divano, con una mano sulla fronte con aria da primadonna.
John scosse la testa divertito, scoppiando a ridere e cercando un’angolazione ideale per poter scivolare accanto a Sherlock in quella scomoda posizione.
“Io sono solo previdente. Non voglio che succeda di nuovo” disse il medico, accorato, ancora accarezzandogli i capelli. Sherlock sbuffò, lasciando la mano di John e passando anche lui ad accarezzargli la nuca dolcemente.
“Non c’è pericolo. Il mio caro dottore segue alla lettera quel papiro di indicazioni che mi hanno dato in ospedale. Ed io non ho modo di oppormi”.
John storse il naso, come infastidito che Sherlock reputasse la sua preoccupazione qualcosa di eccessivo.
“Io lo faccio per te, Sherlock. Perché ci tengo, perché ti amo” disse, con tutta la semplicità del mondo. Ricordò le prime volte che aveva detto quelle due paroline a Sherlock, quelli che sembravano non anni ma secoli prima. Sherlock aveva sempre più che gradito le esternazioni affettuose di John, ma l’inesperienza lo aveva spinto a rispondere, le prime volte, con un semplice ‘grazie’ o un poco opportuno ‘sei davvero molto gentile, John’ che avevano divertito immensamente il medico (conosceva abbastanza la reticenza di Sherlock su certe cose per potersela prendere) e imbarazzato furiosamente il detective. Dopo un rodaggio abbastanza intenso però, Sherlock aveva imparato a sciogliersi e la prima volta che quel flebile ma sentito ‘ti amo’ era uscito dalle labbra di Sherlock, John si era sentito l’uomo più felice del mondo.
“Te l’ho già detto John. Morire è un’avventura, e io non ho intenzione di intraprenderne nessuna senza accanto il mio…blogger” lo prese in giro Sherlock, ricevendo solo un’occhiata grave da parte del medico. “Indi per cui, pensò che cercherò in tutti i modi di posticiparla il più possibile per il bene di entrambi” asserì, scostando una ciocca grigia dalla fronte di John che adesso sorrideva dolcemente al suo compagno, visibilmente addolcito.
“E ti amo anch’io” aggiunse infine mordendosi la punta della lingua, come per punirsi per non averlo detto prima. John non riuscì nemmeno quella volta, dopo tanto tempo credeva di esserci ormai abituato, a non provare una piacevole e confortante sensazione di calore nel petto. Gli sorrise, amorevole.
Non parlarono più, per quella sera, ma rimasero semplicemente sdraiati l’uno accanto all’altro sul quel divano, a guardarsi semplicemente negli occhi, a vagare con lo sguardo sui loro volti che ormai conoscevano a memoria ma che non si stancavano mai di osservare, di studiare, di contemplare con meraviglia.
C’era così tanto nei loro occhi, come se quelle loro diverse ma meravigliose sfumature d’azzurro fossero pagine di un libro colmo di storie, stralci di vita, di momenti belli e brutti ma sempre significativi. Ed era loro, solamente loro.
Rimasero in silenzio ad ascoltare le lancette dell’orologio ticchettare soffusamente, a godere del suono lento e monotono delle auto in strada, dei rumori di portiere di taxi sbattute violentemente da gente frettolosa, di grida di bambini in strada e voci acute di madri che raccomandavano loro di non attraversare senza fare attenzione alle auto.
Erano sempre più frequenti le serate passate in quel modo, senza necessità di parole, senza televisione o altro svago se non quello di stare semplicemente lì seduti, a guardarsi, a sorridersi e ad ascoltare i suoni della vita in quella polifonica orchestra di milioni di elementi che era la loro Londra. E a Sherlock e John bastava quello per sentirsi pienamente appagati, come se dopo una vita al limite avessero bisogno di qualche momento di normalità, di tranquillità.
Sherlock si mosse appena, sbadigliò e intrecciò una mano con quella del medico ancora una volta, come se volesse una conferma che sarebbe rimasto lì accanto a lui. John la strinse a sua volta, poggiando la fronte su quella di Sherlock. Non lo avrebbe mai lasciato, mai.
Sherlock si abbandonò al sonno, visibilmente sfiancato dalla giornata, ma John resistette più a lungo, stringendo quella mano nella sua con vigore, come a dirgli ancora, silenziosamente ‘sono qui, sarò sempre qui’.
John si avvicinò ancora di più, per quanto le dimensioni del divano potessero permetterlo, e si lasciò accarezzare dal respiro del suo compagno, guardando le sue palpebre muoversi quasi impercettibilmente e le labbra piegarsi in un sorriso involontario, spontaneo, che John trovò semplicemente adorabile.
All’improvviso, una fitta alla spalla lo costrinse a distogliere l’attenzione dal viso di Sherlock, ma John, nella dolcezza del momento, non riuscì a intravedere in quel dolore improvviso, purtroppo sempre più frequente, una sfumatura negativa. La versione che più amava ripetersi ogni volta che era costretto ad afferrare la sua spalla in preda ad un dolore acuto e lancinante, era che solo grazie a quel proiettile aveva avuto la possibilità di conoscere Sherlock. Se non fosse stato ferito, se fosse rimasto in Afghanistan senza così tornare a Londra, magari non avrebbe mai incontrato Mike Stamford, lui non l’avrebbe mai presentato a Sherlock e la sua esistenza sarebbe potuta essere immensamente noiosa, infelice e insoddisfacente, se proprio si voleva escludere l’ipotesi che la sua vita sarebbe potuta addirittura finire in quella missione.
Così John aveva fatto pace con il profondo sfregio sulla spalla, stabilendo con esso una tregua senza termine, arrivando a riconoscere che farsi sparare era stata sicuramente una delle imprudenze migliori di tutta la sua intera vita.
Nulla era stato semplice nella convivenza con Sherlock ma John non l’avrebbe cambiata con nessun’altra. Non riusciva a pensare a quello che sognava prima di conoscere Sherlock, non tollerava più di aver contemplato anche solamente l’idea di una vita comune, normale (noiosa! Avrebbe commentato Sherlock) quando lui era tutto, fuorché un uomo come tutti gli altri. Era nato in previsione di quell’incontro, aveva vissuto nell’attesa di Sherlock. Ogni sua azione, e di questo John era assolutamente convinto, era stata compiuta per portare a quel legame così forte, indissolubile.
Le loro esistenze erano state plasmate per incrociarsi, per fondersi in una sola, per creare quel rapporto che non si sarebbe mai sciolto, per sempre.
John guardò un raggio di luce attraversare il vetro della finestra del salotto, inondando la stanza di una luce blu intensa, probabilmente proveniente da una volante della polizia.
Sorrise quando tornò a guardare Sherlock, adesso profondamente addormentato con le labbra socchiuse, al pensiero di come tempo prima si sarebbe precipitato alla porta alla sola vista di quell’auto di passaggio (lavoro, lavoro, lavoro, John!) e di come invece adesso giaceva rilassato, sereno, accanto a lui. Non che Sherlock non apprezzasse più un sano, ingarbugliato omicidio, anzi era ancora fin troppo (insensibilmente) entusiasta davanti a scene del crimine particolarmente truculente, ma si era decisamente dato una calmata nel corso degli anni. E John adorava ritenersi il motivo principale di quel cambiamento, anche se magari essere ragione di felicità per Sherlock quando i suoi motivi di contentezza usuali avevano a che fare con moncherini sanguinolenti, crimini ed esperimenti disgustosi, poteva non essere esattamente un motivo di orgoglio.
Con sguardo divertito al ricordo, allungò il collo per posare un bacio affettuoso sulle labbra schiuse del detective, in quel muto augurio di una serena notte, che non poteva essere altro che buona fin quando sarebbero rimasti l’uno accanto all’altro.
Sherlock mugolò nel sonno, dolcemente, come se il suo inconscio avesse riconosciuto il gesto del medico.
John” sussurrò nel pieno del sonno contro le labbra dell’altro, con una voce leggera, quasi più giovane, senza quella lieve nota arrochita che si portava dietro dalla degenza ospedaliera. 
Il medico sorrise, il cuore che batteva forte, felice. John ringiovanì.
Sherlock” disse anche lui, a voce appena udibile.
Sbadigliò anche lui, sistemandosi meglio, incurante che la mattina dopo si sarebbe certamente svegliato dolorante e intorpidito a causa della scomoda posizione che la vicinanza di Sherlock lo aveva costretto ad assumere, ma non poteva importargli di meno al momento. Avrebbe sopportato un po’ di indolenzimento mattutino se fosse stato il prezzo da pagare per non svegliare Sherlock e non rompere quell’atmosfera perfetta, surreale.
Il sonno lo sedusse pian piano, dolcemente, cullandolo in un torpore piacevole, reso ancora migliore dalla presenza del volto di Sherlock a pochi centimetri dal suo. John aprì e chiuse gli occhi più volte prendendo la vecchia patchwork abbandonata sulla poltrona e coprendo entrambi fino alle spalle, accoccolandosi il più possibile nel poco spazio a disposizione.
Diede un’ultima stretta alla mano di Sherlock e la portò al cuore lentamente, avvicinando il petto anch’egli così che le loro mani intrecciate potessero percepire i battiti dei loro cuori. John sorrise, pensando a quando esattamente fosse diventato tanto spudoratamente romantico, cullato da quel suono rassicurante e dal vento che fischiava attraverso gli stipiti delle finestre.
Era vero, pensò, mentre la vista cominciava a diventare offuscata e gli occhi faticavano a rimanere aperti e vigili, quello che Sherlock gli aveva detto, tempo prima.
Sherlock era quello che attirava i guai, quello che s’impelagava in situazioni assurde e avventure dalle sempre dubbie probabilità di sopravvivenza, e John era la sua parte razionale, saggia, oltre che il suo braccio armato utile per ogni evenienza. Erano le due metà perfette, l’uno l'ideale completamento dell’altro e all’improvviso realizzò quanta verità ci fosse nelle parole di Sherlock.
Non c’era avventura che avrebbero potuto affrontare separati.
Sherlock non l’avrebbe abbandonato, non adesso e nemmeno in un prossimo futuro. Sherlock non lo avrebbe mai lasciato solo per nulla al mondo, semplicemente perché l’uno non sarebbe potuto esistere senza l’altro. John sorrise ormai sulla soglia del dormiveglia, mentre rifletteva sull’effettiva possibilità che quando avrebbero lasciato quel mondo, il più tardi possibile si sperava, sarebbe stato nello stesso identico momento, insieme anche in quell’ultima grande avventura.
Perché solamente il pensiero del proprio nome scandito, scritto o stampato senza quello di Sherlock accanto, o viceversa, sembrava qualcosa di così strano, assurdo e improbabile da risultare semplicemente impossibile. Sarebbero stati per sempre Sherlock e John, John e Sherlock e quella realtà non sarebbe mai cambiata.
Con un ultimo bacio sulle labbra di Sherlock, si addormentò.



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