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Autore: AmaleenLavellan    16/06/2012    6 recensioni
Uno ghigna, l'altro sorride. Uno è pericolo, l'altro è sicurezza. Uno se n'è andato, l'altro c'è sempre stato.
Con uno era fiamme, ardore, lacrime e frustrazione. Con l'altro è dolcezza, delicatezza, sorrisi, sentirsi amata. Ed ora che si trova su un filo sospeso nel vuoto, Elizaveta deve decidere se tuffarsi nel buio o tornare a rifugiarsi al sicuro, in una teca che la protegge da qualsiasi passione...
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Austria/Roderich Edelstein, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Io-
No, non dico niente. Non ho giustificazioni.
Vi lascio al capitolo, sempre che abbiate ancora voglia di leggerlo.


4
Caos e bellezza.

 

Grido.
Mi tiro a sedere di scatto, spalancando gli occhi.
Ansimo, cercando di riprendere il fiato che sembra essermi stato strappato dai polmoni.
 
Un incubo.
 
Dannazione, speravo di riuscire a evitarli, speravo di essere più forte.
E invece il mio inconscio sembra volermi ricordare tutto ciò che ho rischiato, tutto ciò che sarebbe potuto succedere.
È la terza notte, che li sogno. Così debole, lasciarsi sopraffare dalla paura…
Rabbrividisco, sfregandomi rapidamente la porzione di gambe lasciate scoperte dalla camicia da notte. Mi sembra di sentire ancora il tocco ruvido della mano di quell’uomo che mi accarezza, incurante delle mie lacrime, mentre i suoi compagni ridono di ciò che si prospetta per me, e per loro.
“Ora che ho fatto fuori il tuo amichetto convinto di fare l’eroe possiamo finalmente divertirci, puttanella”, dice con un ghigno. Sangue mi cola da un labbro, la ferita pulsa…
Scuoto la testa velocemente, passandomi i capelli tra le dita.
Non è vero. Non è successo. È solo un incubo.
Mi alzo dal letto, trattenendo una smorfia al contatto dei piedi nudi con il marmo freddo del pavimento. I pensieri vorticano, mentre vado a prendermi da bere. Quegli uomini, il mio incubo, l’abbraccio di Gilbert e l’amore di Roderich, i loro occhi, le loro mani; le immagini si sovrappongono e si dissolvono prima che riesca ad afferrarle e stringerle a me.
Prendo respiri profondi, con le labbra appoggiate al bordo del bicchiere, contandoli per schiarire i miei pensieri.

Uno.
Due.
Tre-

Il suono del campanello interrompe il filo dei miei pensieri. Improvvisamente il mio cuore comincia a battere più forte, mentre spalanco gli occhi. Un’occhiata all’orologio appeso al muro mi basta per accertarmi che sia notte fonda. Chi potrebbe essere, a quest’ora?
Sono loro, venuti per vendetta?
Sono qui per completare ciò che hanno cominciato due giorni fa?
Piano, Liz.La porta e le finestre sono chiuse, non possono entrare.
 
Esco dalla cucina, avvicinandomi alla telecamera collegata al citofono, un pugno chiuso debolmente, l’altro che si stringe sul petto.
Un lungo giubbotto scuro gli avvolge il corpo, una parte del viso è coperta da una grande sciarpa di lana. Occhi dallo sguardo preoccupato saettano a destra e a sinistra, una mano passa velocemente tra i capelli chiarissimi, prima di tornare a rifugiarsi in una tasca dei jeans scuri.
 
Il sollievo è così forte che sono tentata di lasciarmi scivolare contro la parete. Apro la porta con un sospiro liberatorio, cercando inutilmente di calmare i battiti impazziti del mio cuore, e Gilbert si fionda all’interno, sfregando le mani più pallide del solito tra di loro, rabbrividendo.
 
“Gilbert, cosa ci fai qui?”
 
“Dannazione, si gela lì fuori”, commenta lui in risposta, ignorando palesemente la mia domanda, liberandosi lentamente della sciarpa e del cappotto e lanciandoli sul divano. Ha gli occhi lucidi e delle occhiaie violacee, Gilbert.
 
“Gilbert, cosa ci fai tu qui?” ripeto ancora, con un sospiro. Non riesco a essere dura con lui, non adesso: certo, il rancore è ancora lì, pulsa nel mio cuore, e non sono disposta a perdonarlo; ma quest’uomo mi ha salvato la vita, e senza di lui non sarei qui ma sul lettino di un ospedale, o peggio. Gli sono debitrice, e trattarlo come un essere umano è il minimo che possa fare, per ora.
Certo, finché non mi sarò sdebitata.
 
Gilbert si accascia sul divano, alitando sulle mani in un tentativo di scaldarle. “Ho visto la luce accesa, mi sono preoccupato, e ho bussato”.
Non mi guarda, mentre risponde. Riconosco il modo in cui si muovono impercettibilmente quelle labbra incredibilmente secche, il modo in cui quegli occhi non osano sollevarsi: Gilbert è imbarazzato. La cosa mi sconvolge così tanto che ci metto qualche secondo a realizzare cosa implichi quella semplice frase.
“Hai passato la notte qui davanti?!” domando, il tono di voce che diventa più acuto. Di scatto, alza lo sguardo: gli occhi, coperti da un velo lucido, sembrano bruciare.
“Te l’avevo detto che sarei tornato tutti i giorni. Dopo ho pensato che starci anche di notte non mi avrebbe cambiato la vita”, dichiara, secco. So cosa intende con quel ‘dopo’, e al solo pensiero rabbrividisco. Non ho bisogno di protezione, vorrei sbottare; le parole mi premono in gola, ma non permetto loro di uscire.
Perché ho bisogno di protezione. E l’ho scoperto a mie spese.
“Ieri e l’altro ieri ho pensato che avresti avuto un infarto, a sentire bussare a quest’ora della notte, per questo non sono entrato. Forse avrei dovuto, invece”, commenta, come se stesse parlando con se stesso.
“No, hai fatto bene”, rispondo quasi senza pensare, “ma non c’è bisogno di passare la notte davanti casa mia. Sono solo incubi, nulla di cui preoccuparsi. Non possono farmi del male, dopotutto, e prima o poi passeranno”, affermo con una sicurezza che non provo affatto.
Il sussurro che esce dalle sue labbra dischiuse, mentre si prende la testa tra le mani, è quasi impercettibile. “Gli incubi no-“
 
Si blocca.
‘Gli incubi no, ma loro sì’; questo vorrebbe dire Gilbert. Ma non lo fa. Non vuole spaventarmi ancora, e poi contrasterebbe con ciò che mi ha detto su quella panchina tre giorni fa. Sospiro, perché non trovo nulla con cui ribattere, e Gilbert chiude gli occhi, rilassandosi sulla poltrona.
Cosa fare adesso? Dovrei forse cacciarlo? No, non ce la faccio. Dopotutto ha passato le ultime tre notti davanti a casa mia, sveglio, a quanto sembra dal suo viso, solo per proteggermi; non posso certo buttarlo fuori, è pur sempre una persona.
Ma lui non è una persona qualsiasi, lui è Gilbert, sussurra una voce dentro di me, non farti ingannare. La voce ha ragione: ho permesso che si avvicinasse troppo a me, in questi pochi giorni, e non posso lasciare che si insinui di nuovo nel mio cuore.
“Vai a casa, Gilbert”, affermo, incrociando le braccia come per proteggermi dalle mie stesse parole. Lui alza lo sguardo verso di me; è uno sguardo provato, stanco, ma dentro quegli specchi brillanti fiammeggia ancora la determinazione.
“Hai ancora paura, Liz”. Non è una domanda, è un’affermazione. Lui sa, e sa che ne sono cosciente, per questo non è disposto a lasciar perdere.
Cerco di cambiare discorso. “Sei stanco, non ti reggi in piedi. Vai a casa e fatti una dormita, Gilbert, tanto per me non puoi fare nulla”.
“Bugiarda”.
 
Bugiarda.
Bugiarda, ripeto a me stessa. Ha ragione, sono una bugiarda. Non è vero che Gilbert per me non può fare nulla: mi può concedere quella sicurezza che nemmeno le mura di casa mia riescono a darmi, e me ne accorgo solo ora che l’evidenza mi si presenta davanti agli occhi: con lui qui sono calma, più tranquilla di quanto non sia mai stata in questi due giorni.
Sarebbe così facile, dirgli di sì…
“Chi ti credi di essere, Gilbert? Sei in casa mia, adesso, e non detti regole, quindi ora ti alzi da quella poltrona, per Dio, e mi fai il sacrosanto piacere di sparire”.
Sento il sangue affluire alle guance e la rabbia montare in petto, mentre sputo fuori quelle parole con una violenza che, ancora una volta, ero convinta di aver eliminato dalla mia vita. Gilbert, ancora una volta, sta facendo tornare tutto: l’impeto delle emozioni crude e soprattutto la voglia di lottare per qualcosa, che con Roderich non avevo avuto il bisogno o non mi era stato consentito di provare.
Si alza di scatto e mi si avvicina, lentamente. “Sai anche tu di non volerlo davvero, piccola”.
I suoi occhi sembrano trapassarmi da parte a parte mentre si incatenano ai miei, ed il bisogno di abbassare lo sguardo, di proteggere le profondità della mia anima da lui è impossibile da sopportare.
Resisto, però. Resisto, e ricambio quello sguardo con una ferocia che mi si arrampica in gola, mi punge le labbra, sembra quasi solidificarsi a contatto con l’aria, mentre libero quelle parole che mai avrei pensato di dire.
 
“Stai giocando con il fuoco, Gilbert”.
 
Immagino di averlo sorpreso e colpito con quelle poche parole, ma mi accorgo che nei suoi occhi brilla la soddisfazione, concretizzata in quelle labbra chiare piegate in un ghigno.
“Fuoco, eh? Il supremo Me lo sapeva, che non sei diventata una principessina”, commenta.
Spalanco gli occhi, rendendomi conto che mi ha portato esattamente dove vuole lui: ad ammettere che, in fondo, non sono cambiata affatto, e sono ancora la stessa ragazzina incosciente che era innamorata di lui.
Ma io sono cambiata. So di esserlo.
“Sono cambiata, e tu non mi conosci. Non più, almeno”, affermo, stringendo i pugni, concentrandomi sulle scanalature tra le mattonelle del pavimento per calmare la rabbia.
Prima che possa bloccarlo le sue dita sono sotto il mio mento, alzandomi la testa a forza, costringendomi a guardarlo negli occhi. Il suo tocco mi infiamma il volto, lascia una traccia bruciante sulla mia pelle. “Chi stai cercando di convincere, Liz? Me, o te stessa?”
Gli afferro il polso con forza mentre penso a una risposta, per spingere via la sua mano, ma nel momento in cui tocco la sua pelle mi accorgo che non è il mio viso a bruciare: sono le sue dita.
“Gilbert, tu scotti!” esclamo, spalancando gli occhi, mentre appoggio il palmo sulla sua fronte: è bollente. Questo spiega gli occhi lucidi, le labbra secche, il fatto che sia più pallido del solito.
Lui resta in silenzio, e gira il viso dall’altra parte: ammettere la sua debolezza non è di sicuro parte del suo carattere.
Pensare che si sia ammalato a causa mia, per tenere sott’occhio me, è una piccola fitta al cuore; inoltre sono sicura che se anche lo mandassi via non tornerebbe certo a casa, ma resterebbe nel mio giardino, a prendere altro freddo, a peggiorare le sue condizioni di salute.
 
“Se ti mandassi via adesso, torneresti a casa a riposarti?” gli domando, abbassando la mano, nonostante sia perfettamente cosciente di quale sarà la sua risposta.
“Non ho bisogno di riposarmi”, sbotta, incrociando le braccia.
“Sì, invece, tu stai male e hai bisogno di riguardarti”, sospiro, scuotendo la testa.
“E tu hai ancora paura di restare in classe da sola. Come la mettiamo?” mi sfida, alzando lo sguardo verso di me. Non ho una risposta a tale domanda e rimango in silenzio,  mordicchiandomi il labbro.
All’improvviso mi afferra una mano, e piega le labbra in un sorriso entusiasta. “Fammi stare qui! Solo di notte, e solo finché non torna quello lì. Non hai che da guadagnare ad avere in casa la mia Magnificenza. Na, Liz?”
 
Il cuore comincia a battermi più forte, mentre rifletto sulle sue parole. Ha ragione, permettendogli di dormire qui ci guadagneremmo entrambi: io sarei tranquilla, e lui non dovrebbe passare le notti al freddo. Comincio a torturarmi le dita, soppesando gli aspetti positivi e negativi.
Cosa c’è di male, dopotutto?
Quando lascio andare un lungo sospiro, leggo negli occhi di Gilbert che sa di aver vinto.
“Va bene”, dichiaro, voltandomi verso le scale, “ma i nostri rapporti cominciano e finiscono qui”.
Mentre mi dirigo in camera, fingo di non aver sentito il ‘per ora’ che esclama rivolto nella mia direzione.
 
Mi adagio sotto le coperte, e solo allora mi permetto di riflettere sulla conversazione appena avuta.
 
Chi stai cercando di convincere, Liz? Me, o te stessa?
 
Quelle parole mi trafiggono il petto e la mente in maniera quasi dolorosa, infiammandomi le guance immerse nel buio. Io sono cambiata, so di esserlo.
Ma è davvero così?
Gilbert sembra essere arrivato qui solo per far crollare tutte le mie convinzioni, farmi dubitare persino di me stessa, dimostrarmi che tutta la fatica con cui ho spento il fuoco che ribolliva nel mio cuore non è servita a niente, perché le fiamme stanno  ancora ballando sotto un leggero strato di cenere.
Chi si crede di essere, per piombare di nuovo qui in questo modo? Per creare il caos nella mia mente e nella mia vita con tutta la spacconeria che l’ha sempre caratterizzato?
Mi rifiuto di lasciarmi torcere e riplasmare a suo piacimento.
Se non fossero cose vere, non ti colpirebbero così in profondità, sussurra la solita vocina che sembra provenire dai meandri del mio cervello e che ancora non ho capito da che parte stia.
La metto a zittire, schiacciando il viso contro il cuscino.
“Che tu sia dannato, Gilbert!” grido, soffocando la mia maledizione tra le fibre della stoffa.
 
 
 
 
La mattina successiva, non sono sveglia da molto quando sento il telefono squillare. Afferro la cornetta con una certa lentezza, avvicinandola all’orecchio.
Buongiorno, amore”, mi saluta Roderich dall’altra parte della cornetta.
“Buongiorno”, rispondo con un sorriso ancora mezzo addormentato.
Dormito bene, stanotte?”
“Sì, certo”, mento. Non voglio che sappia di ciò che mi è successo, dei miei incubi: non farei che farlo preoccupare, e non può certo mollare il lavoro per venire a cullarmi quando non riesco a dormire. “Tu?”
Dormo sempre male, quando non ci sei tu accanto a me”, lo sento sussurrare, e non riesco a bloccare una risatina imbarazzata.
“Esagerato”.
Dico sul serio, lo sai. Ed è per questo che rientrerò domani mattina”.
“Ma- Ma Roderich! Come hai fatto?” esclamo: il suo capo non è esattamente il tipo da concedere cose del genere.
Mi sono fatto spostare tutti gli appuntamenti a oggi, così da avere domani e dopodomani liberi. Il mercoledì e il giovedì tu non hai lezione, giusto?” lo sento affermare, la soddisfazione evidente nella sua voce. È contento di sé, di ciò che ha fatto per me, e anche io lo sono; qualcosa mi pizzica a livello dello stomaco, al pensiero che si ucciderà di fatica oggi, solo per stare con me.
 “Grazie”, dico, chiudendo gli occhi e sedendomi sul letto con un sospiro beato. Eccolo, il rimescolio al cuore ogni volta che Rod mi fa sentire amata.
“Non c’è di che. Ma un po’ lo faccio anche per me stesso, in fondo. Ho bisogno di riposarmi e di stare con te”, afferma, deciso.
Sto in silenzio, perché non trovo nulla con cui ribattere, e mi racconta di ciò che dovrà fare oggi. Mentre lo sento elencare tutte le attività che lo aspettano, e lo terranno sveglio fino a orari impossibili, soffoco quella voce che interviene sempre nei momenti peggiori, e che insinua che Rod mi stia dicendo queste cose solo per farmi sentire grata, o forse in colpa, di tutto il lavoro che ha accumulato oggi per me. Non posso pensare male di Roderich, non dilui, che mi ha salvata dall’abisso nel quale stavo scivolando senza Gilbert.
Lo stesso Gilbert che in questo momento sta dormendo sul divano in soggiorno.
 
La consapevolezza mi colpisce all’improvviso, e il bisogno di andare a controllarlo mi stringe di colpo il petto in una morsa.
Come se avessi bisogno della certezza che sia ancora lì.
Come se avessi bisogno della certezza che non mi abbia abbandonato ancora.
Spingo via questo pensiero – per abbandonarmi, avrebbe dovutoavermi prima, e so che il caso non è questo. Non sono disposta a dargli nulla di me; nulla, se non la mia gratitudine per ciò che ha fatto sabato e il mio disprezzo per la sua intera esistenza.
Ora vado, amore. Mi aspetta una giornata pesante”, mi informa Roderich. Mi sembra quasi di vederlo, nella sua camera d’albergo, mentre tra l’orecchio e la spalla regge il telefono, aggiustandosi la cravatta davanti allo specchio.
Annuisco nonostante non possa vedermi. “Sì, hai ragione. Ci sentiamo più tardi, se hai una pausa tra un appuntamento e l’altro”.
Non credo, ma ci proverò. Ciao, Eliza”.
“A dopo”.
 
Appoggio il telefono sul comodino ed esco dalla stanza in punta di piedi, facendo meno rumore possibile, spia nella mia stessa casa. Dalle scale vedo che lui è ancora lì, steso sul divano, con quell’aria angelica che acquistava solo nel sonno. Sorrido intenerita a ripensare alle mattine in cui mi svegliavo presto solo per guardarlo, per osservarlo, per memorizzare ogni singolo dettaglio di lui, del suo viso, del modo in cui le ciglia sfioravano le guance bianche e il petto si alzava e abbassava impercettibilmente. Ha ancora la stessa espressione rilassata, la stessa aria di bambino innocente che aveva allora. Anche il modo in cui dorme, con il braccio piegato sopra la testa e una gamba con il ginocchio che sporge, è lo stesso di anni fa.
Mi siedo sul primo scalino, stringendomi le ginocchia al petto e appoggiandovi la testa.
 
Perché mi hai lasciato, Gilbert?
Cosa ti ha spinto a buttare via tutto ciò che avevamo?
Cosa ti ha spinto a fuggire?
 
Sono tutte domande a cui, sono certa, non troverò risposta se non da lui.
Voglio davvero sapere, però? Sono pronta ad accettare la realtà? Non ne sono davvero sicura. E anche se così fosse, perché mi importa, perché mi preme così tanto? Anche se la sapessi, la verità ormai non conta più nulla. Ora ho Roderich, ho il mio angolo di felicità, calma, sicurezza; Gilbert è solo un ricordo, nonostante sia vivido e faccia ancora male, e il fatto che sia ripiombato nella mia vita aspettandosi chissà cosa non cambia la questione.
 
Scuoto la testa, e improvvisamente abbattuta da una pesantezza che non riesco a spiegarmi mi alzo, tornando in camera per prepararmi ad andare a lavoro. Non sveglio Gilbert, prima di uscire: ho la netta sensazione che quando tornerò, a ora di pranzo, starà ancora dormendo.
 
 
 
 
 
“Sono a casa!”
“Bentornato!” esclamo, volando giù dalle scale e lanciandomi tra le braccia di Roderich, come una bambina che accoglie il padre dopo una giornata di lavoro. Rod mi lascia un bacio a fior di labbra, con una piccola risata, appoggiando le valigie per terra per stringermi i fianchi, mentre io gli allaccio le braccia attorno al collo.
“Avremo per davvero due giorni solo per noi?” mormoro, affondando il viso nell’incavo della sua spalla e ispirando forte il profumo leggero che emana la sua pelle.
“Solo per noi, è una promessa. Non risponderò nemmeno a una chiamata di lavoro per quarantotto ore, te lo giuro”, sorride, accarezzandomi la schiena. I miei muscoli si rilassano sotto il suo tocco, mentre vengo cullata da quell’ondata di pace che mi scivola sottopelle ogni volta che mi stringe a sé. 
“Ti sei sentita sola, in questi quattro giorni?” mi domanda, sciogliendosi dall’abbraccio e riprendendo in mano le valigie per portarle in camera.
“Oh, no”, rispondo, evasiva, mordicchiandomi il labbro. Gilbert aveva passato le ultime due notti da me, dormendo su quel divano, scomparendo mentre ero in casa, riapparendo al mio fianco ogni volta che mettevo piede nel mondo esterno. La febbre gli era passata quasi subito, straordinariamente, ma del resto il suo fisico era sempre stato estremamente resistente e rapido a riprendersi.
Aveva preso la notizia del ritorno anticipato di Roderich senza scomporsi troppo, come se se lo aspettasse, commentando con un semplice ‘allora ce l’ha, un cervello, sua Signoria’. La cosa incredibile era che Gilbert non conosceva Roderich, non l’aveva mai incontrato se non quella sera in cui era tornato; eppure mi aveva rivelato che quando aveva sentito che ‘il celeberrimo pianista Roderich Edelstein’ aveva ‘finalmente trovato l’amore in Elizaveta Hédérvary, una donna composta ed elegante che preferiva rimanere nell’ombra’, si era incuriosito e aveva fatto qualche ricerca.
La notizia che Gilbert si fosse interessato al corso della mia vita anche dopo essersene andato mi aveva scombussolata parecchio, l’altra sera, ma avevo immediatamente ingoiato il pensiero che, forse, non aveva mai smesso di tenere a me.
Non mi interessa, ormai. Non è più un problema mio.
“No?” mi domanda Roderich, ricomparendo davanti a me, con uno sguardo interrogativo e… ferito?
“Qualche amico è venuto a farmi visita”, spiego, sperando che non mi faccia altre domande. Quando vedo che annuisce, comprensivo, e si dirige in cucina senza un’altra parola, non posso fare altro che ringraziare il cielo.
 
 
Passiamo la giornata immersi in una bolla di placida pigrizia, abbracciati l’uno all’altra, beandoci delle carezze leggere e dei respiri intrecciati tra le labbra socchiuse. Roderich fa scorrere via la tensione del mio animo un bacio dopo l’altro, e mi sembra di sprofondare in un’atmosfera trascendente, irreale, di sogno, che inizia e finisce tra le sue braccia. Mi sento vuota e piena insieme, piena di una felicità impalpabile, trasparente, cristallina.
Quella notte, quando facciamo l’amore e Roderich mi bacia la mano, l’improvvisa paura di poter frantumare questo sogno che sto vivendo mi assale. È troppo bello, per non essere fragile.
 
 
La mattina seguente stiamo facendo colazione, quando il suono del campanello interrompe il nostro silenzio. È Roderich che va ad aprire, con aria leggermente confusa, mentre io mi alzo per mettere tutto a lavare, tendendo l’orecchio per sentire chi sia.
 
“Stavo cercando Elizaveta, è in casa, vero?”
 
Le posate cadono sul pavimento con un suono metallico, che riecheggia nella cucina silenziosa.
 
Gilbert.
Che diamine ci fa, Gilbert, qui mentre c’è Roderich?!
Il cuore comincia a battermi all’impazzata, mentre l’ansia mi cresce in petto. Chiaramente è qui per uno scopo. Cosa vuole fare, mettermi contro il mio fidanzato? Cercare di farci lasciare dicendogli dove ha passato le ultime due notti?
 
“Certo, è qui, entra pure”, sento Roderich dire.
È con estrema lentezza che li vedo comparire entrambi oltre la porta, con un sorriso incuriosito uno, e preoccupato l’altro.
Gilbert fa qualche passo avanti verso di me, e con una mano si appoggia al tavolo.
 
“Volevo sapere se hai avuto incubi anche stanotte, o se sei riuscita a dormire”, mi domanda. L’interesse nella sua voce è così sincero, così genuino, che non riesco a rispondergli in maniera secca.
“No, grazie. Ho fatto sonni tranquilli”.
È per questo che è venuto, quindi. Non ha qualche piano malvagio in mente, è semplicemente preoccupato per me. La consapevolezza mi solletica il petto, e non posso fare a meno di sorridere.
 
“Incubi? Non mi avevi detto niente di incubi, Eliza”.
 
Mi giro verso Roderich, spalancando gli occhi. Dannazione, mi ero completamente dimenticata di avergli nascosto tutto. Mi mordo il labbro, sentendomi leggermente in colpa: so di averlo fatto in fin di bene, ma gli ho mentito in ogni caso.
Lo guardo negli occhi. Sono invasi dalla preoccupazione, e anche da un’irritazione che non mi stupisce affatto. Detesta non avere il controllo su tutto, Roderich, e sapere che gli è sfuggito qualcosa, anche una cosa così semplice come un mio incubo, deve mandarlo su tutte le furie.
Ciò che mi stupisce, invece, è la reazione di Gilbert. “Non gliel’hai detto?! Non è per questo che è tornato prima, allora?!” esclama, completamente sconvolto, facendo saettare lo sguardo tra Roderich e me, gli occhi spalancati in maniera quasi comica.
 
Sento lo sguardo di Roderich pesare con forza su di me, tanto freddo da bruciare, mentre mi osserva pronto a giudicarmi.
 
“Cos’è successo, Elizaveta?”
 
Il suo tono di voce inquisitorio cala come una scure sulla mia anima, mandando in frantumi la piccola bolla di cristallo che circondava me e la mia felicità.





Ed eccomi qui! 
Non più Moon, ma Ivy. Mi sono evoluta, sìsì. 
No, non sto prontamente evitando l'argomento "ho aggiornato dopo DIECI MESI e sono imperdonabile, mi manderei al rogo da sola se potessi". 
Ok, parlando seriamente... No, non ho scusanti. Non so perché abbia posticipato così tanto questo capitolo, vi giuro che non ne ho la minima idea. Io ero davvero convinta di aver aggiornato non moltissimo tempo fa, e quando ho scoperto che l'ultimo update risaliva al 23/08/11 ho seriamente avuto un infarto. Mi sono detta "ma stiamo scherzando?!" e mi sono fiondata a scrivere, ed ecco che è arrivato questo capitolo che, dopo tutto il tempo che avete dovuto aspettare, spero vi sia almeno piaciuto. 
Che poi, se non l'aveste letto e mi aveste mandato a quel paese io vi avrei capito benissimo. Eppure siete qui, a leggere, anche queste note dementi che sanno un po' da una giustificazione che non mi merito.
Vi ringrazio, se esistete. Vi ringrazio e vi adoro.
Non so cos'altro dire, se non che sono imperdonabile e voi siete perfetti e tutto ciò che di bello c'è al mondo.  
Ora penso che andrò, perchè davvero non ho nulla da dire. Prima di lasciarvi non giurerò che la prossima volta aggionerò più in fretta (anche se ritengo impossibile ritardare più di quanto abbia fatto questa volta, sinceramente) , perché so che non possono esserne sicura. Vi dico solo che è estate, e nonostante per il prossimo mese non ci sia di sicuro perché sono via, ho tutto agosto e parte di settembre per farmi perdonare con aggiornamenti più frequenti - sempre che ci sia ancora qualcuno disposto a leggere. Insomma, non vi giuro di farlo, ma vi giuro che ci proverò, questo sì.  E direi che è il minimo. 
Lo ripeto: vi adoro tutti, dal profondo del mio cuore. 
Un bacio, e al prossimo aggiornamento, 
Ivy

P.S.: nota totalmente inutile: non so se avete notato, ma ho cominciato a mettere i dialoghi tra virgolette, perché ho decretato che è molto più comodo e sensato.
P.P.S.: seguitemi su Tumblr! :D http://ivythemoonblossom.tumblr.com :D Ok. Finita la postilla idiota.
   
 
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