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Autore: taemotional    16/06/2012    0 recensioni
[Autore: Koko] [Akame]
"..."Cosa fai scappi?" mi chiese la ragazza, il cui nome mi era sconosciuto.
Merda, speravo di potermi risparmiare gli imbarazzanti saluti della cosiddetta mattina dopo, invece probabilmente avevo fatto troppo rumore.
"Devo andare a scuola" le risposi senza enfasi, intanto che mi rivestivo.
"Ah è vero che frequenti ancora il liceo, mi sembravi molto più grande"
"Questo solo perché ieri sera la tua vista era ingannata dall' alcool. Ora vado ci si vede"
Presi la mia cartella e mi fiondai fuori dalla porta mentre lei mi stava ancora dicendo qualcosa, del tipo 'non ho nemmeno il tuo numero di cellulare'. Ma non mi importava, era stata solo un passa tempo."
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Jin, Kazuya
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La settimana proseguì rapida.
Passavo tutte le mie giornate in palestra, ad allenarmi con Ueda. Di tanto in tanto, quest’ultimo tornava a casa con me e Koki e
cenavamo tutti insieme.
Avevo ormai finito le mie lezioni. Ero migliorato molto in poco tempo. Almeno, riuscivo a non farmi mettere a terra da Ueda ogni
cinque minuti!
Ora dovevo tornare a casa. Mi sarei finalmente riscattato. Dopo tutti gli anni di abusi subiti da me e mia mamma era giunta la fine.
Non conoscevo del tutto le mie intenzioni e anche se le avessi sapute, nulla sarebbe andato come desideravo. Volevo solo dare una
lezione a mio padre e rinchiuderlo in una qualche clinica per alcolizzati. Forse così io e mia madre avremmo potuto vivere in pace e lei non si sarebbe ammazzata di lavoro per mantenere l’intera famiglia.
Salutai Yuichi e Koki, dissi loro solo che stavo tornando a casa mia per prendere i soldi da dare a Ueda. Non li informai su quello che
avevo realmente programmato.
Giunsi davanti al portone di casa e mi fermai. Il vento scosse i miei capelli. Il vento sembrava quasi portare con se quel profumo
dolce e famigliare che sentivo ogni volta in cui pensavo ad Akanishi. Pensai che fosse un incoraggiamento.
Ero sul punto di aprire la porta quando una voce mi fermò: “Kazuya!” Kazuya? Nessuno mi chiamava così, tranne mia madre, ma
quella chiaramente non era una voce femminile.
Mi volsi e vidi Akanishi corrermi in contro. Per un attimo parve che volesse abbracciarmi, invece si fermo proprio davanti a me. Il
suo viso era segnato dalla stanchezza. Lo vedevo chiaramente.
“Non sai quanto ti ho cercato. Ero preoccupatissimo!” mormorò con poco fiato. Sembrava sollevato nel vedermi. Io non riuscivo a
interrompere il dialogo che stavano avendo i nostri occhi. I suoi, per me, erano dei buchi neri e inesorabilmente mi traevano a loro.
“Mi stavi cercando?” chiesi, senza interrompere il nostro contatto visivo.
“Sono venuto qui, a casa tua ogni giorno. Tu non c’eri mai” mi spiegò.
“Perché?” domandai stringendo gli occhi. Iniziavano a bruciarmi.
“Ti spiegherò tutto con calma. Entriamo in casa?”
Con quella domanda mi richiamò alla realtà. La realtà cruda e dura. Non quella che mi sembrava esistere quando stavo con lui.
“Aspettami qui. Io devo sistemare mio padre” Gli avevo appena detto che cosa avevo intenzione di fare. A lui? Lo stesso professore
che conoscevo da solo pochi giorni. Tremai e strinsi le mie mani in dei pugni.
“Non ora” mi fermò, poggiando le sue mani sulle mie spalle ed esercitando su quelle una leggera pressione. “Andiamo via!” Mi prese
la mano e mi strattonò lontano dalla porta di casa.
‘No. Non poteva andare così’ mi rimproverai. Tentai di fermalo, ma fu inutile.
“Devo risolvere questa cosa. Adesso!” mi opposi.
Eravamo davanti alla sua moto. Non diede peso alle mie parole e mi porse un casco. Aveva un’aria seria, che gli cambiava tutto il
viso. Non sembrava intenzionato a farmi andare via. Presi il caso con foga, quasi strappandoglielo via dalle mani. Salimmo sulla
moto e fuggimmo via. O almeno, a me sembrò una fuga. La sua schiena riparava il mio corpo dall’aria tagliente. Appoggiai il capo su
di essa. Mi aveva chiamato Kazuya. Mi era venuto a cercare ogni singolo giorno. Avevo voglia di urlare. Sentivo che mi ero perso
dei pezzi del nostro rapporto. Di nuovo la frustrazione che provai una settimana prima davanti a quel sacco da boxe. Non sapevo
niente, era tutto offuscato. Non riuscivo a vedere. Mi stavo muovendo a tentoni. Anche quello che avevo deciso di fare a mio padre,
per riportare la pace nel presente della mia famiglia, era un azzardo. Cosa diavolo mi era saltato in mente? Come potevo portare la
pace nel mio presente, quando non riuscivo a ricordare il mio passato e non avevo idea di cosa desiderassi per il mio futuro?
 La moto si fermò. Scendemmo tutti e due. Ero paralizzato. Non mossi un dito. Poi sentii sfilarmi il caso dalla testa dalle mani di
Akanishi.
Mi guardò e sorrise. A mia volta gli sorrisi.
“E’ la prima volta che mi sorridi davvero” affermò con un filo di felicità nella voce. Era vero. L’odore che avevo sentito, il suo odore,
lo avevo mal interpretato. Doveva fermarmi, non incoraggiarmi. Ora ero lì con Jin. Davanti al parco del mio incubo.
 
Ci eravamo seduti su una panchina piuttosto isolata. Il parco giochi era vuoto. Come la mia mente. In essa vi era solo quel profumo.
“Kazuya” mi chiamò “Credo sia giunto il momento di risvegliare i tuoi ricordi.” Che cosa voleva dire? Sentii mutare le mie emozioni.
Ne avevo percepito un cambiamento repentino dentro miei occhi. Prima vagavano spenti per tutto il parco, alla ricerca di qualcosa di
famigliare, di un pezzo del mio passato. Ora si erano accesi. L’avevano trovato quell’altro piccolo filo. Il mio sguardo si era posato su Jin.
“Eri tu il bambino del mio sogno..” sussurrai.
“Ti ricordi di quando venivamo qui a giocare?” Improvvisamente capii. Quello che avevo avuto non era stato un incubo. Era un
ricordo.
“Solo ora riesco a ricordare qualcosa. Il nostro addio. Perché non mi ricordo più nulla?” gli domandai. Sull’ultima frase riversai tutta
la mia frustrazione. Si era quasi trasformata in un urlo.
“Probabilmente eri in uno stato di oblio. La tua mente, aveva deciso di dimenticare certi momenti per proteggerti.”
“Ma come può proteggermi cancellando la mia memoria e rendendomi vuoto?”
“Erano vissuti troppo dolorosi per un bambino. Ora però puoi conoscerli” mi rassicurò, sorridendo.
“Perché te ne andasti?” gli chiesi, guardandolo dritto negli occhi. Come se sperassi di trovarci dentro la risposta.
“I miei genitori, per motivi di lavoro, decisero che era meglio per tutti trasferirsi in America. Non fu meglio proprio per tutti” mi
spiegò. Le sue parole celavano un punta di rancore e amarezza.
“Hai abitato là per tutta la tua vita. Cosa ti ha fatto tornare?”
“Non era vita quella” ribatté in fretta, poi iniziò a raccontarmi cosa gli successe: “Mio padre e mia madre si separarono. Io fui
affidato a mia madre e non vedetti più mio padre. Pochi mesi fa mia mamma decise di risposarsi con un ricco uomo. Ricco
materialmente, ma povero spiritualmente. Non c’era più nulla che mi teneva attaccato a quel luogo, a quella famiglia che non era più
la mia. Mi sentivo inadatto, deportato. Decisi così di condividere con mia mamma i miei turbamenti. Fu proprio lei a spingermi a
tornare in Giappone. Disse che non vedeva più nei miei occhi la gioia da tanto tempo. La persi quando salutai il Giappone. Quindi
riallacciò i contatti con il tuo vecchio professore d’inglese e decisero, di comune accordo, che sarei tornato qui per intraprendere la
carriera di insegnate. Non mi importava molto del futuro che avevano scelto per me. Tutto quello che volevo era tornare qui.”
Lo ascoltai in silenzio. Anche la sua vita non era stata affatto tranquilla. Aveva portato il peso del distacco con la sua patria per tutti
quegli anni. Forse avrebbe preferito l’oblio a quell’opprimente sensazione.
“All’inizio non sapevo se ti avrei rincontrato, tuttavia ci speravo. Vedere il tuo volto in quella classe fu un’enorme sorpresa! Non ti
ho mai dimenticato. Ecco perché ti sono venuto a cercare a casa quando hai iniziato a saltare la scuola. Tu, non sei solo un mio
studente per me. In più, eri scappato da casa mia quella sera. Ti eri per caso ricordato qualcosa?” concluse con quella domanda.
Ora mi spiegavo tutto. L’incubo, quel profumo, la famigliarità che mi trasmettevano gli occhi di Jin. Ora capivo perché mi veniva
così spontaneo chiamarlo per nome. Mi stava dicendo che io ero rimasto dentro di lui per tutti questi anni. Non ero una persona
qualunque. In cambio cosa gli avevo dato? La completa dimenticanza? Come al solito non mi ero dimostrato all’altezza della
situazione. Alla sua altezza. Dovevo farmi perdonare, soprattutto da lui.
D’un tratto non controllai il mio corpo. Lo abbracciai. Lo sentii irrigidirsi, ma non mollai la presa. Ora mi stava abbracciando anche
lui. Mi ritrassi un po’ per guardarlo in viso. Quegli occhi. Erano gli stessi del bambino con cui giocavo da piccolo. Ora riuscivo a
mettere a fuoco il mio sogno. Jin aveva soffiato via la polvere che lo ricopriva, mi aveva riportato indietro nel tempo. Chiusi gli
occhi. Con le palpebre abbassate riuscivo a vedere ancora più vividamente quello che era successo, quello che stava succedendo e
quello che volevo succedesse. Non mi spaventava più il buio. Lo baciai, senza riflettere. Subito lui ricambiò il mio bacio.
“Sì. Quella sera mi ero ricordato il tuo profumo” dissi soltanto.
Era stato il bacio più bello della mia vita, l’unico realmente voluto. Completamente immerso in quella dolce fragranza.
“Portami a casa” gli sussurrai quando il nostro bacio si interruppe.
“Vuoi già tornare a casa?” mi chiese stupito. La delusione nel suo tono di voce mi fece sorridere.
“Portami a casa tua” completai malizioso la richiesta.
Non rispose subito, quella richiesta doveva averlo sorpreso. “Sei sicuro?”
Che domanda idiota. “Certo che sono sicuro” affermai volgendo gli occhi al cielo. Poi mi alzai in piedi e gli porsi la mia mano. Lui
la afferrò ed andammo via da quel parco. Sentivo di essermi liberato di un peso. Avevo tessuto, o riesumato, una parte del velo del
mio passato. Ora volevo pensare solo al presente. A quello che stava accadendo in quel preciso istante, godermi ogni attimo.
Le parti sembravano essersi capovolte. Jin mi aveva risposto in modo impacciato. Per una volta ero io quello sicuro di me stesso.
Dopo tutto lui mi non mi aveva scordato, nonostante il tempo, come potevo non fidarmi di lui? Come potevo avere paura di
muovermi? Con lui non volevo avere nessun timore.

Arrivammo a casa e Jin sembrava aver riacquistato la sua sicurezza. Mi portò dritto in camera da letto. Era una bella stanza, molto
adulta. Non c’erano poster da ragazzino appesi al muro. Solo un quadro sopra al letto matrimoniale riempiva le pareti. Era un dipinto
astratto. L’utilizzo di quei colori gli conferivano il potere di ipnotizzare il mio sguardo. Ne ero attratto, come lo ero dagli occhi di Jin.
Ci sedemmo sul letto e lui iniziò a baciarmi. Sì, le esitazioni che lo avevano colto su quella panchina erano sparite. Forse aspettava
solo un riscontro da parte mia. ‘Anche tu avevi paura di muoverti?’ gli domandai, senza pronunciare quelle parole a voce alta. Ero
sicuro che però le avesse sentite, come se le nostre menti fossero connesse.
Iniziavo a provare caldo, forse stavo anche sudando. Ma non mi importava. Avevo già il fiato corto. Mai nessuno mi aveva causato
tali reazioni fisiche.
Quando le nostre labbra finirono di toccarsi mi allontanai un po’ dal corpo di Jin. Sentivo ogni parte del mio corpo andare a fuoco.
Mi tolsi la maglia.
Quando il mio campo visivo fu di nuovo libero mi accorsi che Jin aveva sgranato gli occhi.
“Ti spogli già? Sei proprio un pervertito!” affermò compiaciuto.
“Ma no! E’ che fa caldo” cercai di difendermi. Avevo agito senza pensare al contesto in cui ci trovavamo ed ora ero arrossito in viso.
La mia temperatura corporea aumentò maggiormente.
“Hai ragione. Fa parecchio caldo qui dentro. Mi aiuti a togliere la maglia?” mi domandò con malizia.
Esitai qualche secondo, poi cercai di dipingermi in volto un’espressione di assoluta naturalezza. Mi avvicinai a lui e gli tolsi la t-shirt.
I nostri corpi erano incredibilmente vicini, e così i nostri visi.
“Chi sarebbe il pervertito ora?” gli rinfacciai ridendo.
“Non ho mai negato di esserlo” e così concludendo mi afferrò saldamente per le spalle e, con una leggera pressione, mi distese sotto
di lui. I suoi capelli mi sfioravano delicatamente il viso. Si fermò tutto. Non so dire quanto tempo passò effettivamente ma a me
sembrò un’eternità. I nostri occhi non smettevano di cercarsi. Lui era lì, proprio davanti a me. Mi sembrava tutto così irreale. Non mi
ero mai reso conto di quanto lo desiderassi di quanto sentissi prima la sua mancanza nella mia vita. Ora che lui era al mio fianco mi
accorgevo di quanto fosse stata vuota la mia vita in precedenza. Non l’avrei più fatto andare via, non lo avrei mai più dimenticato.
Avevo paura che quel momento fosse solo frutto della mia immaginazione. Poiché nulla di fisico ci collegava allungai le mie braccia
fino a cingergli il collo. Lui abbassò il viso e mi baciò con impeto. Quasi non riuscivo a respirare.
Mi ero stufato di questi superficiali preliminari. Non che mi dispiacessero, però non riuscivo più a trattenermi. Dovevo avere di più.
Lo premetti contro il mio corpo come se gli stessi richiedendo di più. Lui, come di consueto, capì la mia richiesta e la soddisfò.

Dopo aver fatto l’amore con Jin mi sentivo diverso.
Jin giaceva dormiente al mio fianco. Era proprio bello. Quand’è che mi ero innamorato di lui? Non ero mai stato innamorato di
nessuno prima. Forse la mia mente sapeva che volevo lui. Dopo il distacco che avemmo durante la nostra infanzia, il mio subconscio
lo aveva sempre aspettato, senza permettermi di amare nessun’altro.
In pochi mesi la mia vita si era radicalmente trasformata. E’ quasi inconcepibile come fosse stata completamente statica per anni e
come fosse cambiata al suo arrivo. La sua presenza aveva fatto partire tutto. Come se avesse buttato giù la prima pedina della fila,
provocando così un inevitabile effetto domino. Sentivo che le pedine stavano ancora cadendo. Non era caduta l’ultima. Stavo
cambiando o volevo cambiare.
La mia situazione famigliare era ancora il mio più grande problema. Non potevo lasciare che mia mamma vivesse con quell’uomo.
Dopo aver perso il lavoro era caduto in una profonda depressione. Avevo, man mano, visto scomparire la mia figura di riferimento.
Da bambino volevo essere proprio come lui. Ora lui non c’era più. La sua anima era formata dalle gocce della sua amata vodka, ogni
suo singolo pensiero era condizionato da quel liquido infernale. Era arrivato a picchiare le persone che più amava al mondo. Io sono
sicuro che per lui io e mia madre fossimo il suo centro. Ora che amavo una persona potevo capirlo. Il bere gli aveva fatto dimenticare
l’effettiva importanza delle cose e quali avessero la priorità. Come potevo riavere mio padre? Dovevo assolutamente portarlo in
posto dove lo avrebbero aiutato a smettere di riversare i suoi problemi sull’alcool. Ci avevo provato più volte parecchi anni fa, ma
era stato inutile. Avevo la sensazione che anche lui volesse smettere, ma la dipendenza che doveva combattere era troppo forte. Non
poteva combattere questa guerra da solo. Aveva bisogno del mio aiuto. Nonostante tutto quello che mi aveva fatto passare non lo
odiavo, gli volevo bene. Non volevo che rimanesse ancora in quello stato. Saremmo potuti tornare ad essere una famiglia felice.
Dopo la tempesta splende sempre il sole. A volte però nel cielo si intravede anche un arcobaleno. Quell’insieme di colori rende il
ricordo della tempesta ancora più lontano. Tuttavia se non ci fosse stata quella non sarebbe potuto spuntare l’arcobaleno. A volte è
necessario rimanere sotto la pioggia per apprezzare fino in fondo il calore, anche se flebile, del sole.
Per me iniziava a spuntare il sole. Jin era lì con me. Ora volevo che il calore del sole si intensificasse, che sparisse ogni nube. Il cielo
sarebbe stato terso se fossi riuscito a sistemare le cose con la mia famiglia. Ma io volevo anche l’arcobaleno. Se avessi capito che
direzione doveva prendere la mia vita una striscia di colori mi avrebbe indicato la strada.
Provavo una profonda gratitudine nei confronti di Jin. Lui aveva fatto nascere in me il desiderio di cambiare. Prima vivevo solo
perché ero al mondo. Non avevo nessuno scopo. Odiavo me stesso, non trovano nulla che mi piacesse di me. Ma lui mi amava, era lì
per me, quindi del buono doveva esserci in me.
Mi girai nuovamente a guardarlo e mi stupì nel trovarlo con gli occhi aperti.
“A cosa stavi pensando?” Chi chiese con un filo di voce.
“Sarebbe troppo lungo da spiegare” gli spiegai sorridendo.
Lui non mi rispose. Inclinò un po’ il viso come per incoraggiarmi a raccontarglielo.
“Alla mia vita” gli risposi.
“Vorrei conoscerla” affermò sorridendomi. “Cosa volevi fare prima con tuo padre?” mi domandò spezzando improvvisamente il suo
sorriso.
“Non lo so. Tutto quello che volevo fare ora mi sembra così stupido” sospirai mettendomi una mano tra i capelli.
Lui non disse nulla. Era in attesa. Aspettava che io mi sbloccassi. Di nuovo lui mi aveva dato di più ed io ero ancora restio ad aprirmi
con lui, a pareggiare la nostra situazione. Preparai mentalmente un discorso. Avevo paura che come avessi aperto bocca il mio corpo
avrebbe rigettato fuori non solo le parole, ma anche le lacrime che troppo poco spesso riuscivo a far uscire.
Mi decisi a parlare: “Vedi, la mia situazione famigliare in questi anni è molto mutata. Mio padre ha perso il lavoro e si è lasciato
scivolare nella dipendenza dell’alcool.” Esitai, come se stessi cercando le parole, ma poi continuai: “Prima stavo cercando di
cambiare la situazione. Anche se non avevo ben deciso cosa fare. All’inizio volevo, volevo…” Mi fermai. Le mani mi caddero lungo
io corpo e strinsi i pugni, quasi fino a conficcarmi le unghie nei palmi di queste.
Jin mi tirò a se e mi sussurrò nell’orecchio: “Kazuya va tutto bene ora. Siamo solo io e te. Possiamo decidere insieme come risolvere
questa storia.” Le sue braccia mi cingevano. Mi sentivo così protetto, credevo a quello che mi stava dicendo. Ma qualcosa in me
scattò.
“No!” replicai, violentemente, interrompendo il nostro abbraccio, “Devo risolverla da solo. Lo devo a mia madre ed anche a mio
padre. Non sono mai riuscito a impormi ed ad ottenere ciò che volevo. Ora voglio che nella mia famiglia regni la felicità e devo
arrivare a questo da solo. Vorrei il tuo aiuto, davvero, ma non posso accettarlo. Tu sei l’unico che mi può tenere fuori da questa
situazione, almeno in parte. Non puoi essere dentro a tutto questo, od io rischio di annegarci.”
“Va bene” mi rassicurò “Cercherò di non agire con te, però devi darmi la possibilità di consigliarti. Devi raccontarmi tutto. Voglio
sapere tutto quello ti sta succedendo. Non riuscirei a sopportare di essere all’oscuro di certi lati della tua vita.”
“D’accordo. Chiedimi tutto quello che vuoi sapere” gli concessi.
“Dove sei stato per tutta la scorsa settimana?” mi chiese immediatamente.
“Ho passato la notte a casa di alcuni miei amici. Ogni giorno andavo in una palestra ad allenarmi. Mi allenavo nella boxe.”
“A boxe?” mi domandò stringendo gli occhi, “Da quando pratichi la boxe?”
“Da questa settimana. Ho iniziato perché mi sentivo debole, non riuscivo a difendermi. Volevo usarla per vendicarmi di mio padre.
Invece alla fine l’ho usata per scaricare ogni rancore e frustrazione. Mi ha fatto capire come sia importante focalizzare un obbiettivo
e andare spediti verso quello. Inoltre, se decidessi di portare mio padre in una clinica per alcolizzati, sono sicuro che dovrei agire con
la forza” conclusi con un profondo respiro.
Jin mi si avvicinò e prendendomi il viso tra le mani mi rassicurò: “Domani andremo a parlare con i tuoi!”
Stavo per ribattere ma mi bloccò vedendo la mia bocca che stava per emettere qualche suono: “Parlerai tu. Io però verrò con te per
sostenerti.”
“Non sei obbligato” affermai distogliendo lo sguardo.
“Lo so bene. Sono io che voglio farlo. E so anche che vorresti cavartela da solo e riuscire in questo contando solo sulle tue forze. Ma
non puoi, è un problema più grande di te. Hai bisogno di aiuto”.
“Okay” conclusi adagiando il mio capo sul cuscino. Chiusi gli occhi, ma ero certo che Jin mi stesse fissando. Pur non vedendolo
sentivo il pungere del suo sguardo magnetico sulla mia pelle. Mi interrogavo su come fosse riuscito a capire ciò che volevo. Lo
faceva sempre. Decifrava alla perfezione ogni mio singolo passo, ogni mia singola esitazione. Mi sarebbe piaciuto che la cosa fosse
stata reciproca. Invece io non riuscivo a cogliere il significato di certe sue parole e pause.
Non sentivo più pungere sulla mia pelle. Doveva aver chiuso gli occhi anche lui.
 
Dopo aver suonato ripetutamente il campanello entrai in casa mia, seguito da Jin, utilizzando le chiavi.
Non si sentivano respiri. La casa era vuota. Qualcosa di diverso colse la mia attenzione. Sul tavolo della cucina vi era poggiato un
biglietto.

-Siamo all’ospedale.
Tuo padre non è stato bene.-
 
Che cosa era successo? Accartocciai il foglio in una mano e lo gettai a terra. Corsi rapidamente fuori di casa.
Non importava cosa mi avesse fatto passare mio padre, ora era in ospedale. Stava male. Dovevo andare da lui. Probabilmente sarebbe
stato anche sobrio. Avrei potuto parlargli normalmente. Sarei potuto essere ascoltato e compreso finalmente dopo 5 anni.
Sentii sbattere il portone di casa. Jin si dirigeva verso di me con passo sostenuto. Doveva aver letto il biglietto. Si avvicinò alla moto
e velocemente mi porse il casco. Aveva capito quello che provavo in quell’istante? Probabile, pensai salendo sulla moto ed un sorriso
storto mi si dipinse sulle labbra.

Mi trovavo davanti alla stanza d’ospedale di mio padre. Ci trovavamo. Jin era con me. Non mi aveva lasciato solo un momento, era lì
a supportarmi. La cosa mi apportava uno strano senso di pace, di sicurezza. Avevo quasi la sensazione che le cose sarebbero andate per il verso giusto. Anche se non era da me essere ottimista. Il sole iniziava a scaldarmi.
Aprii la porta di scatto.
In camera c’era solo mio padre con la testa girata dalla parte opposta rispetto l’entrata. Stava osservando fuori dalla finestra, o così
poteva sembrare. Ero sicuro che stesse lottando, involontariamente, contro la sua dipendenza. Senza dubbio sarebbe voluto uscire e
comprare dell’alcool. Il riflesso del suo volto sul vetro freddo della finestra me lo rivelava.
Mi avvicinai al letto e prima di poggiare la mia mano sul bordo di questo, mi girai a guardare Jin. Era rimasto sull’uscio e non dava
segno di volersi muovere. Voleva che lo facessi da solo. O meglio sapeva ciò che volevo e mi stava aiutando a realizzarlo. Era
presente e nello stesso tempo assente. La sua figura sarebbe rimasta alle mie spalle per tutto il tempo e mi avrebbe inviato conforto,
tuttavia non si sarebbe intromesso e mi avrebbe lasciato parlare.
Gli diedi le spalle e mi rivolsi a mio padre: “Papà. Sono Kazuya. Cosa è successo?”
Mio padre girò lentamente il capo verso di me. Sembrava che ogni singolo movimento gli portasse via troppa energia. Il suo volto
era macchiato dall’astinenza. Le occhiaie gli cerchiavano pesantemente gli occhi. Avevo paura di sentirlo parlare. Credevo che la sua
voce si sarebbe spezzata non appena la sua bocca avesse fatto fuoriuscire la prima parola.
Invece riuscì a rispondermi, sebbene la sua voce fosse afona: “Ho avuto delle convulsioni”
Alle sue parole il mio corpo si paralizzò e gli occhi si ghiacciarono. Vedevo il suo volto ma non lo guardavo. Dopo qualche secondo
mi ripresi. “Le convulsioni? E cosa c’entrano con i tuoi problemi?”
“Il medico dice che può essere una conseguenza portata dall’alcolismo cronico.” Mi rispose sempre con voce roca. Sembrava non
provare nessuna emozione.
“Quindi? Cosa vogliono fare?”
“Dovrò subire un intervento di trapianto di fegato. Dopo di che mi dimetteranno e non potrò più toccare alcool” solo in quest’ultima
frase la sua voce tradì qualche emozione. Non gliene importava niente di morire, di essere sottoposto ad un intervento così
importante, di lasciare me e mia madre senza di lui. Si preoccupava solo di non poter più bere.
Strinsi le coperte del letto tra le mie mani e lasciandole di colpo scattai indietro e gli urlai addosso con tutto il risentimento che
provavo verso di lui: “Ti preoccupi di non potere più toccare alcool? E’ questo il tuo unico cruccio? Non ti preoccupi di essere in un
letto di ospedale per colpa della tua dipendenza. Non ti importa se lascerai me e la mamma da soli, perché non sei capace a
controllarti. Probabilmente usciti da qui ritornerai a bere e distruggerai nuovamente te stesso e il tuo fegato. Ma, ovviamente, tutto
ciò che conta è l’alcool. Pensi che sia la tua unica strada perché non hai mai tentato di trovarne un’altra. Non sempre la via più
semplice è quella giusta. Ora che sei sobrio cerca di capirlo e reagisci! Per me, per la mamma, ma soprattutto per te stesso” conclusi
la frase abbassando il tono di voce. Sentivo che le lacrime stavano per sgorgare dai miei occhi. Guardai mio padre, il quale a sua
volta mi fissava allibito, senza avere la forza di parlare. Mi girai e vidi Jin. Mi diressi verso di lui ma gli passai accanto e uscii dalla
porta. Stavo cercando un bagno dove rinchiudermi. Jin era venuto con me per aiutarmi e io mi ero lasciato prendere dai miei rancori
e l’unica cosa che avevo ottenuto erano solo delle grida con poco significato. Sentivo che mi chiamava ma non mi girai, continuai a
camminare. Mi vergognavo di me stesso. Ad un certo punto percepii la sua mano sul mio braccio. Mi aveva fermato.
Girandomi a testa bassa lo pregai: “Lasciami solo”
“No. Te l’ho detto, è l’unica cosa che non ho intenzione di fare” replicò serio.
“Tu mi hai dato fiducia e guarda come mi sono comportato. Scusami”
“E come ti saresti comportato?”
“Mi sono messo ad urlare senza controllarmi. Sembravo solo in preda ad una crisi isterica.”
“Kazuya dovresti piantarla di reprimere le tue emozioni. Se hai gridato così è perché tieni a tuo padre nonostante tutto. Sicuramente
anche tuo padre l’ha capito. Non ti devi scusare per questo” mi rassicurò e vedendo che continuavo a piangere aggiunse: “Dai ora
calmati. Andrà bene”
Lo abbracciai e poggiando la testa sulla sua spalle iniziai a piangere ed a singhiozzare. Non avevo mai pianto così. Era riuscito a
sbloccarmi. Non dovevo vergognarmi di ciò che avevo fatto. Probabilmente i decibel che avevo utilizzato erano superiori alla norma,
ma ero riuscito a dire ciò che provavo. Sarei andato a parlare poi con mio padre, non avevo intenzione di demordere. Dovevo
assicurarmi che prendesse la decisione giusta per se stesso.
Mi ritrassi dall’abbraccio per guardare Jin in viso. “Grazie” gli sussurrai solo. I singhiozzi erano terminati, ma le lacrime non
volevano fermarsi. Mi solcavano il viso. La mia espressione era tranquilla e pacata. Probabilmente il liquido che continuavano a far
fuoriuscire i miei occhi era solo il sintomo della liberazione che tutto il mio corpo percepiva.
Restammo abbracciati per molto tempo, anche se a me sembrarono pochi attimi. Sentivo l’ospedale muoversi intorno a noi.
 “Andiamo a casa” lo implorai interrompendo il nostro abbraccio.
Jin mi guardò perplesso, “Ma com..”
“Ho bisogno di calmarmi. Mi serve ancora un po’ di tempo, non ero preparato a tutto questo” lo interruppi.
“Sei sicuro?”
“Sì” asserii secco.
“Allora andiamo” mi chiamò a se, con un cenno della testa, sorridendo. Ero sicuro che quel suo sorriso celasse della preoccupazione.
Forse ero riuscito, finalmente, a capirlo un po’ meglio. Lo conoscevo, o forse mi ero ricordato com’era. Quei suoi sorrisi per me non
erano più delle grandi incognite, capivo cosa mi voleva nascondere.
Mi avvicinai a lui e gli sorrisi a mia volta.
   
 
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