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Autore: taemotional    12/06/2012    1 recensioni
[Autore: Koko] [Akame]
"..."Cosa fai scappi?" mi chiese la ragazza, il cui nome mi era sconosciuto.
Merda, speravo di potermi risparmiare gli imbarazzanti saluti della cosiddetta mattina dopo, invece probabilmente avevo fatto troppo rumore.
"Devo andare a scuola" le risposi senza enfasi, intanto che mi rivestivo.
"Ah è vero che frequenti ancora il liceo, mi sembravi molto più grande"
"Questo solo perché ieri sera la tua vista era ingannata dall' alcool. Ora vado ci si vede"
Presi la mia cartella e mi fiondai fuori dalla porta mentre lei mi stava ancora dicendo qualcosa, del tipo 'non ho nemmeno il tuo numero di cellulare'. Ma non mi importava, era stata solo un passa tempo."
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Jin, Kazuya
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Prefazione: Salve lettori! Questa volta ho deciso di pubblicare non una mia storia (io l'ho solo betata xD) ma quella di una mia amica, Koko. E' la sua prima fanfic ma secondo me merita davvero quindi vi chiedo di leggerla! Non so in quante parti la dividerò (forse 3) ma vi prego di leggerla fino alla fine e, se vorrete, di commentare ^^ Buona lettura!! 

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"Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia.
Senza crisi non c'è merito.

E' nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze."

(Albert Einstein)



Mi alzai svogliatamente e uscii rapido dal letto di quella ragazza che avevo conosciuto appena la sera precedente. Le tende ben tirate non lasciavano entrare nemmeno un po’ di luce. Ero immerso nel buio.
"Cosa fai scappi?" mi chiese la ragazza, il cui nome mi era sconosciuto.
Merda, speravo di potermi risparmiare gli imbarazzanti saluti della cosiddetta mattina dopo, invece probabilmente avevo fatto troppo rumore.
"Devo andare a scuola" le risposi senza enfasi, intanto che mi rivestivo.
"Ah è vero che frequenti ancora il liceo, mi sembravi molto più grande"
"Questo solo perché ieri sera la tua vista era ingannata dall' alcool. Ora vado ci si vede"
Presi la mia cartella e mi fiondai fuori dalla porta mentre lei mi stava ancora dicendo qualcosa, del tipo 'non ho nemmeno il tuo numero di cellulare'. Ma non mi importava, era stata solo un passa tempo.

Camminavo spedito verso la fermata dell'autobus più vicina con la musica nelle orecchie. Salii sull'autobus. Sarei voluto scappare ed invece come meccanicamente ero sceso alla fermata della mia scuola. Non salutai nemmeno i miei compagni, ero troppo assonnato e immerso nel suono della musica. Entrato in classe mi gettai sul banco e chiusi gli occhi.
"Sveglia!" Mi gridò nelle orecchie il mio compagno di banco dopo avermi tolto un auricolare. Il suono della campanella seguì la sua voce.
"Taguchi quante volte te lo devo dire di non urlarmi nelle orecchie, soprattutto di prima mattina?"
"Scusa, però oggi arriva il nuovo insegnante! Non vorrai farti subito riconoscere."
"Cosa vuoi che me ne importi della scuola e tanto meno dei professori?"
Taguchi fece spallucce e si volse a parlare con altre persone; io riappoggiai la testa sul banco e mi misi a dormire.
Taguchi era l’unico mio compagno di scuola con il quale non mi riusciva troppo difficile parlare. A volte era un po’ troppo esuberante per i miei gusti, ma non mi infastidiva così tanto. Non era il solito ragazzino superficiale del liceo. Era possibile averci delle conversazioni mediamente stimolanti.
 
"...sarebbe?" sentii solo questo e poi una botta in testa. Mi alzai di scatto, chi diavolo si era permesso di tirarmi un libro sulla nuca?
"Che diavol.." sbottai in preda alla rabbia ma mi fermai. Non avevo mai visto quel viso, doveva essere il nuovo insegnante.
"Ben alzato, io sono il nuovo professore d'inglese. E, per la terza volta, lei sarebbe..?"
"Kamenashi. Kamenashi Kazuya."
"Bene, ora rimettiti a sedere e stai a sentire la lezione."
Non appena ha saputo il mio nome ha iniziato a darmi del tu, ma come si permette? E soprattutto è il suo primo giorno ed ha già intenzione di spiegare?
Iniziai ad ascoltare la lezione, parlava molto bene l'inglese. Non come tutti i suoi predecessori che di inglese ne capivano meno di me. I capelli castano scuro gli contornavano il viso, e non essendo troppo lunghi erano parecchio mossi. Il suo tratto somatico che più attirò la mia attenzione erano quei suoi due occhi castani, sembravano quasi magnetici. Non sembrava molto più grande di me, nonostante facesse il professore.
‘Ha anche una bella voce. Ma che cosa sto pensando, una bella voce?! Doveva avermi colpito proprio forte con il libro per farmi pensare tali idiozie’.
Suonò la campanella e i miei compagni si precipitarono tutti fuori. Io invece mi alzai con molta più calma. Il professore era ancora in classe, stavo giusto per uscire quando mi chiamò: "Kamenashi."
"Mi dica" gli risposi arrestandomi sulla porta.
"Non sei così maleducato allora?" domandò sorridendo. Aveva un sorriso strano, non ne capivo bene l'origine.
"Mi ha chiamato per capire quale sia la mia vera indole?"
"No” Sentenziò inarcando un sopracciglio. “Il precedente insegnante mi ha informato sulla tua situazione scolastica. A quanto pare l'unica materia che ti interessa è proprio l'inglese."
"Diciamo di sì."
"Prendendo il suo posto, sono anche diventato coordinatore di questa classe, quindi vorrei sollecitarti a prendere più seriamente i tuoi studi."
"Non si preoccupi" tentai di andarmene quando mi posò una mano sulla spalla.
"E' normale che io mi preoccupi, invece" Ci guardammo fisso negli occhi per qualche secondo, dopo di che presi la sua mano e la tolsi dalla mia spalla, inchinai lievemente il capo e uscii dalla classe.
Che diavolo voleva dire, pareva una frase normalissima detta da un professore ma c'era qualcosa nel suo tono che non mi convinceva. Stai a vedere che mi sono beccato il professore gay! Ho sempre pensato che quelli che decidono di fare i professori devono avere qualcosa che non va.
 
Finita la giornata, stavo uscendo quando vidi il nuovo professore che stava per lasciare anch’egli la scuola. Lo raggiunsi, non mi aveva nemmeno detto il suo nome.
"Professore!"
Si girò verso di me e mi sorrise, ancora quello strano sorriso.
"Non mi ha detto come si chiama."
"Akanishi Jin."
"Senta Akanishi, mi piacerebbe se lei mi potesse aiutare nello studio dell'inglese, come ha già intuito è l'unica materia che mi interessa."
"Come mai ti interessa così tanto?"
"E perché lei ha deciso di insegnare proprio inglese?”
Stette zitto per qualche secondo. "Ho capito, ad ogni cosa il suo tempo" disse sospirando, "Certo, per me va bene darti qualche lezione in più. Dopo tutto non sono realmente il tuo insegnante."
“In che senso lei non è realmente il mio insegnate?” Domandai senza troppa curiosità.
“Sono il tirocinante del tuo professore. Rimarrò qui in cattedra al posto suo per solo pochi mesi.”
"Capisco. Comunque, grazie per le future lezioni extra.”
"Domani dopo le lezioni vieni a casa mia, chiedi il mio indirizzo al rappresentante di classe. Ora devo andare, a domani." Sembrava quasi che volesse fuggire da me.
Salì su una moto, e sfrecciò via. ‘Non è così male come professore’ pensai. ‘E' la prima volta che vado a casa di un professore, chi sa come sarà casa sua’. Feci tutta la strada del ritorno verso casa pensando a quello strano ed improvviso invito.
Arrivato davanti al portone di casa feci un respiro profondo ed aprii la porta. Mio padre era, come ogni giorno, steso sul divano con una bottiglia di vodka in mano. Ormai era consuetudine. Salii le scale e mi chiusi in camera mia. Accesi lo stereo e iniziai a ballare e cantare in inglese lasciando tutto il mondo all’esterno di quella stanza, di quelle note, dimenticai persino lo strano invito di Akanishi. Non mi ero nemmeno accorto che mio padre aveva spalancato la porta, e ora mi si parava davanti. “Piantala con tutto questo inutile casino.”
Andai a spegnere lo stereo senza proferire parola.
“Cos’è questa aria di sufficienza, eh?!” sentii il suo puzzo di alcool addosso e poi, improvvisamente, mi colpì sul viso, mi gettò sul letto e uscì dalla stanza. Rimasi qualche secondo immobile senza pensare, poi sentii solo un’ unica lacrima solcarmi il viso. Dal piano inferiore provenivano delle grida, mia madre doveva essere tornata dal turno in ospedale. Non sarei sceso a salutarla e non sarei nemmeno uscito quella sera. Non avevo voglia nemmeno di respirare, sentivo solo il bruciore sotto l’occhio destro. Dopo essermi ormai abituato al bruciore, mi addormentai.
 
La giornata scolastica era trascorsa più lentamente del solito e ora dovevo recarmi dal professore anche se non avevo molta voglia di incontrare gente. Avevo già fatto molta fatica a chiedere il suo indirizzo al rappresentante di classe. Uscii dalla scuola, pioveva. ‘Bene arriverò da lui fradicio, bel modo di presentarsi a casa della gente’.
Ero sotto il suo palazzo e come avevo previsto ero completamente bagnato. Vedevo il mio riflesso sul citofono argentato, non credo riuscirò a sopportare ancora degli sguardi di compassione provocati da quella macchia violacea sotto il mio occhio. Cercai di coprirla un po’ con i miei capelli ramati, che essendo bagnati aderivano perfettamente al mio viso. Fu inutile. Io stesso ero un’intera ferita aperta.
Suonai senza troppa vitalità.
“Sì, chi è?”
“Kamenashi.”
Non rispose e sentii solo la porta aprirsi. Ero davanti alla sua porta al quinto piano, parecchio in alto per me che vivevo in una modesta casa a due piani. Aprì la porta, “Prego entr…. Che diavolo hai fatto all’occhio?" gridò sgranando gli occhi, proprio quello che volevo evitare. “Non ti sarai picchiato con qualcuno a scuola?” Pensai che sarebbe stato meglio così.
Scossi solo la testa. “Non avevo l’ombrello. Ho i vestiti completamente inzuppati e non vorrei sporcare in giro.”
“Non ti preoccupare” mi fece entrare, “Spogliati, ti vado a prendere dei vestiti di ricambio.”
Fermo sulla porta, ero rimasto in mutante e la scena mi fece sorridere.
“Che fai? Ti piace così tanto sfoggiare il tuo fisico che te la stai ridendo?”
“Non proprio.” Presi i vestiti che mi stava porgendo e li indossai.
“Allora cosa ti è successo all’occhio?”
“Niente di grave.”
Mi fissò con aria interrogativa, “Capisco. Non parli molto eh?”
“Il necessario. Anche lei non è da meno, è bravo a fare domande ma non appena gliene vengono fatte cambia discorso.”
Scoppiò a ridere, poi si avvicinò al mio viso. “E’ parecchio scuro, ci hai messo del ghiaccio?” chiese tenendomi il viso tra le dita.
“No, mi sono addormentato.”
“Come ti sei addormentato!? Quindi è successo a casa tua.”
Un brivido mi percorse tutta la schiena, era già arrivato alla conclusione corretta? Mi ritrassi da lui e non risposi. Sembrava aver capito la situazione.
Si alzò, “Vado a prendere del ghiaccio.”
Aspettai in silenzio, osservando il suo piccolo appartamento. In un angolo della sala era appoggiata a terra una valigia non ancora disfatta del tutto.
“Ah quella?” chiese col ghiaccio in mano, probabilmente doveva aver notato che la stavo fissando. Non mi piaceva il suo essere così perspicace, non mi va che gli altri sappiano cosa penso, cosa mi incuriosisce e cosa mi fa male.
“E’ sua?” chiesi infine.
“Sì, sono appena arrivato in Giappone.”
“Come appena arrivato, dove ti trovavi prima?”
“In America, ma non c’era più niente che non mi facesse odiare la mia vecchia casa.”
Cosa? Io non vedevo l’ora di andarmene da qui e lui aveva deciso di trasferirsi proprio qui dall’America?
“Beh non hai di certo trovato un posto migliore qui.”
“Tu dici?” Mi rispose guardandomi con quel suo solito strano sorriso. Un brivido mi attraversò tutto il corpo. Che cosa mi prendeva? Forse era provocato dal ghiaccio che mi stava poggiando delicatamente sotto l’occhio. Faticavo a stare fermo, sentivo il bisogno di muovermi.
“Ti fa male?” mi chiese prendendomi alla sprovvista.
“Che?”
“La ferita.”
“Ah, no ci sono quasi abituato.”
“Non vuoi proprio dirmi che cosa è successo, vero?”
Sorrisi con un po’ di amarezza, “Meglio per te non saperlo, ti complicherebbe solo la vita.”
Da quando avevo iniziato a dargli del tu? E’ il mio professore!
Stava per rispondermi, quando lo bloccai: “Sei uno psicologo o il mio insegnante d’inglese? Mettiamoci al lavoro.” Quindi mi alzai e andai a prendere il libro d’inglese nella cartella. Ci sedemmo sul divano.
“Bene, visto che sei così interessato all’inglese faremo prima degli esercizi di pronuncia.”
“Va bene,” accordai sorridendo, quasi con aria di sfida, ed ecco che mi sorrideva di nuovo. Quel sorriso mi calmava come quando ascoltavo parole in inglese, e forse era proprio perché lui insegnava quella lingua. Iniziò a parlarmi in inglese e così la nostra lezione ebbe inizio.
Erano già le otto di sera, avevamo continuato a fare esercizi di inglese per più di tre ore, ma non sentivo affatto la fatica.
“Ormai è ora di cena, dovrei tornare a casa.”
“Perché non resti qui per cena?”
Sorrisi. “E’ meglio di no.” Dovevo controllare che quell’alcolizzato di mio padre non prendesse a pugni anche mia madre.
“Va bene.”
Come al solito sembrava avesse capito ogni mio singolo pensiero. Mi alzai e mi diressi verso la porta.
“Perché proprio l’inglese?” mi chiese.
“Se te lo dico però anche tu devi dirmi perché hai deciso di insegnare inglese.” Anche se bene o male un’idea del perché me l’ero già fatta.
“D’accordo.”
“L’inglese, perché…” iniziai grattandomi la testa, “Perché va bene per qualsiasi luogo, se so l’inglese posso andarmene dove voglio senza paura di non farmi capire. E’ come se unisse tutto il mondo. Poi mi piace anche come suonano bene le parole inglesi all’interno delle canzoni, lo trovo quasi... rassicurante.”
Non parlò per qualche secondo ma mi guardò solo con faccia perplessa. ‘Che cosa stai pensando?’
“Sono delle buone motivazioni” disse dopo qualche istante, “Quindi vuoi proprio andartene da qui?”
“Sì” risposi senza nemmeno pensarci. “Ma ora devi dirmi perché hai scelto tu l’inglese.”
“Non l’ho proprio scelto, era l’unico modo per potermi guadagnare dei soldi in fretta qui in Giappone. Venendo dall’America so bene l’inglese e quindi ho pensato di poterlo insegnare. Tutto qui.”
“Perché sei venuto qui in Giappone?”
“Perché te ne vuoi andare?”
“Che fai, continui ad evitare le domande?” chiesi sorridendo.
“Se ben ricordo anche tu l’hai fatto con me” e si mise, anche lui, a ridere.
“Bene ora potresti ridarmi i vestiti che mi hai preso in ostaggio?”
“Non so, i miei ti stanno così bene...” mi rispose con un tono che aveva un non so che di malizioso.
“Piantala” e lo colpii leggermente sul braccio. Scoppiò a ridere e mi andò a prendere i vestiti. Non erano ancora del tutto asciutti quindi li infilai nella borsa. Stavo per uscire quando qualcosa mi bloccò, un odore.
"Kamenashi che succede?" Akanishi doveva aver notato il mio disorientamento.
"Questo odore..." sibilai soltanto. Non sapevo dire con esattezza dove l'avessi già sentito, ma mi era famigliare. Proveniva dai vestiti che il professore mi aveva lavato. Presi la camicia tra le mani e ne respirai l'odore, quel profumo mi riportava alla mia infanzia.
Alzai il viso e vidi Akanishi sorridermi.
"Ti ricordi qualcosa?" mi chiese speranzoso. Stavo per rispondergli quando qualcosa mi bloccò, un ricordo forse. Guardai fisso nei suoi occhi per pochi attimi e potrei giurare di averci visto dentro tutto il mio passato, ma non riuscivo ad estrapolarne nulla. Quello che vedevo era tutto coperto dal tempo. Infilai di scatto la camicia nella borsa e con un cenno del capo lo salutai. Corsi via da quella situazione, da lui e da quello che lui mi provocava e mi faceva ricordare.
Fuori aveva smesso di piovere. Abitava vicino a casa mia quindi feci la strada tutta di corsa.
Arrivai a casa ed entrai con ancora il fiato corto. Subito delle grida giunsero alle mie orecchie. Credetti fosse il solito litigio serale. Ma mi sbagliavo. Vidi mia mamma schiacciata dal corpo di mio padre in un angolo della cucina, era minacciata dalla sua rabbia. Lui alzò il pugno, nel quale teneva stretta la sua amata bottiglia. Stava per colpire mia mamma con quella bottiglia vuota. Sentii ogni parte del mio corpo ribollire, l’odio mi pervadeva. Senza riflettere mi scagliai contro di lui, lo fermai con la forza e gettai via la bottiglia. Si udì il rumore del vetro che si infrangeva contro il suolo. Scaraventai mio padre lontano da mia madre, che inerme osservava l’evolversi della situazione. Si sentì un tonfo, quello batté la testa e svenne. Io guardai incredulo mia mamma che con le lacrime agli occhi si era avvicinata a lui per assisterlo. Dopo tutto quello che le aveva fatto, dopo tutti i segni della sua violenza che periodicamente marchiavano il mio corpo, lei si era ancora gettata al suo fianco. Si ferì persino le ginocchia con il vetro della bottiglia per stargli vicino.
“Kazuya hai esagerato!” mi urlò contro. Io rimasi a fissarla senza riuscire a mettere bene a fuoco la situazione che si era creata. Mi ridestai e uscii velocemente da quella casa.
Non sapevo minimante dove sarei potuto andare, mi sarebbe piaciuto tornare da Akanishi, ma proprio perché lo desideravo così ardentemente non lo feci. Mi diressi a casa di Koki.
Nel momento in cui mi aprirono la porta scoppiai a ridere: davanti a me c’era Yuichi.
“Non dirmi che voi due state ancora insieme?” farfugliai con le lacrime agli occhi per le risate.
“Sì” asserì secco tirandomi un lieve schiaffo sulla testa.
Yuichi era il proprietario della discoteca in cui avevo lavorato per qualche anno prima di iniziare la scuola superiore. Lì avevo conosciuto anche Koki che aveva svolto per qualche tempo la “professione” di barista al mio fianco. A volte si improvvisava anche ballerino. E’ proprio grazie a lui se ho scoperto la passione per il ballo e la musica. Ogni tanto ballavamo insieme, non riesco a ricordare momenti più felici di quelli in cui io e Koki danzavamo assieme.
“Yuichi, si può sapere chi è a quest’ora? Torna qui! non abbiamo ancora finito!” Queste parole di Koki, che provenivano dal piano di sopra, mi riportarono alla realtà. Yuichi immediatamente diventò rosso in viso e io trattenni a stento le risate. Diedi una pacca sulla spalla al mio ex datore di lavoro e entrai in casa urlando: “Rivestiti vecchio porco! Sono Kazuya!”
Qualche secondo dopo sentii un trambusto incredibile e mi ritrovai Koki davanti. Doveva essere furioso dal momento che l’avevo interrotto “sul più bello”.
“Kame, devi smetterla di farti picchiare come una femminuccia. Che hai fatto lì?” domandò indicando il mio occhio.
Io sorrisi “Nulla le solite cose.”
“Ancora problemi in famiglia?” chiese preoccupato Yuichi. Io scossi il capo su e giù per conferma. Ci eravamo seduti intorno al tavolo e loro mi guardavano, senza però intavolare nessun discorso. Leggevo il timore nei loro occhi. Si preoccupavano sempre troppo quei due, forse per questo ogni volta che succedeva qualcosa fuggivo da loro. Erano ormai diventati la mia famiglia. Mamma Yuichi e papà Koki! Al solo pensiero scoppiai in una risata fragorosa.
“Kame” mi apostrofò Koki, “cosa hai da ridere ora? Fai sempre un sacco di caos tu!”
Cercai di ricompormi. “Scusa, scusa. Il divano è sempre libero?” chiesi con un po’ di imbarazzo. Non volevo recare loro sempre tutto quel disturbo ma non sapevo dove andare. Avrei potuto seguirli in discoteca più tardi e passare la notte da qualche sconosciuta, come spesso facevo, ma non avevo voglia di uscire.
“Certo, ma ci devi pagare!” incalzò Koki scherzosamente.
“Ti pagherò in natura, pervertito!”
Alla mia risposta seguì una risata collettiva. Mi ero già accampato sul divano quando sentii quelli che mi salutavano dalla porta. “Allora noi andiamo! Sicuro di non voler venire con noi?” domandò Yuichi.
“Sicurissimo” dissi “Buona serata!”
“Buonanotte” così mi salutarono e si chiusero la porta alle spalle.
Ero ormai immerso nel buio più totale, un’immensità di pensieri invadeva la mia mente. Era come se avessi in testa un ronzio continuo. Sicuramente per qualche giorno non sarei potuto tornare a casa. Mio padre, se si può definire tale, mi avrebbe ammazzato. Odiavo il fatto di non essere capace a difendermi da lui, non riuscivo mai ad oppormi a lui senza fare casini. Non riuscivo mai a proteggere mia mamma come desideravo, mi sentivo così impotente. Inoltre non mi piaceva affatto cosa si stava creando con Akanishi, non riuscivo a decifrare i suoi pensieri, mentre lui pareva conoscere i miei ogni volta. Sembrava così maturo benché avesse solo pochi anni in più di me. Al diavolo quell’insegnante improvvisato, ora voglio solo dormire.

“Vieni, andiamo a giocare!” strillai di gioia e presi per mano il bambino che si trovava accanto a me. Corremmo lungo il viale che si affacciava sul nostro parco preferito, arrivammo nel parco giochi e iniziammo a saltellare, passando da un gioco all’altro senza mai smettere di ridere.
Si era ormai fatta sera ma noi non ci eravamo stufati di stare insieme, di giocare e di essere felici. Ad un certo punto vidi solo due figure adulte avvicinarcisi.
“Dobbiamo andare, saluta il tuo amico” Si stavano rivolgendo al bambino che si trovava accanto a me. Vidi gli occhi di quel bambino inumidirsi gradualmente. Si avvicinò a me e mi abbracciò.
“Addio Kazuya!” mi salutò tristemente. Io rimasi immobile e lo vidi allontanarsi. Dopo la brevità di qualche secondo iniziai a correre verso di lui ma non servì a nulla. Era già salito in macchina. Dal finestrino mi guardava tristemente. Le mie parole non potevano più raggiungerlo quindi mi misi a gridare…

Il mio urlo riecheggiò nella notte, doveva essere stato un sogno, un incubo. Le sensazioni provate durante il sogno vivevano ancora dentro di me e si agitavano rendendomi impossibile elaborare una qualche spiegazione plausibile. Perché avevo sognato una cosa del genere? Tutto il sogno era avvolto nell’odore che avevo sentito prima a casa di Akanishi. Mi gettai fuori dalle coperte, afferrai la mia borsa e ne tirai fuori i vestiti. Nuovamente li premetti contro il mio viso. Sì, non c’erano dubbi, questo era l’odore che pervadeva il mio incubo. Chi era quel bambino? E soprattutto quello era stato solo un incubo o un ricordo?
Le mie domande furono interrotte dalla chiave che girava con suono metallico nella serratura. Diedi un occhiata al cellulare, le 4.00. Koki e Yuichi stavano sicuramente rientrando. Mi riadagiai sul divano e finsi di dormire. Loro andarono al piano di sopra cercando di fare poco rumore. Tentativo completamente inutile, sentivo chiaramente Koki che sussurrava nell’orecchio di Yuichi frasi
tutt’altro che caste e pure. ‘Sempre il solito’ pensai.
Mi ero un po’ calmato, il fiato era ritornato normale e così anche il battito del mio cuore. Continuavo a fissare il soffitto e non facevo altro che ripercorrere con la mente il sogno di poco prima. Poi, un attimo prima di cadere nel sonno, rividi gli occhi di Akanishi e mi ricordai della sensazione di smarrimento che avevo provato nell’osservarli. Mi era sembrato di caderci dentro. Quasi la stessa sensazione che ebbi quando mi svegliai dall’incubo.
Chiusi gli occhi e con essi si chiusero anche gli occhi di Jin.

Mi svegliai di prima mattina, la casa era avvolta nel silenzio. Yuichi e Koki dovevano essere ancora a letto. Mi alzai e mi diressi
verso il frigo. La sera precedente, dopo tutto quello che si era verificato, mi ero dimenticato di cenare. Non ne avevo nemmeno
sentito il bisogno, altri pensieri avevano popolato la mia mente. Appeso al frigorifero vi era un volantino di una palestra.
Koki doveva recarcisi ancora, di tanto in tanto. Figuriamoci! narcisista com’è, non avrebbe mai potuto trascurare il suo fisico! Presi
tra le dita quel pezzo di carta. All’inizio gli diedi poca importanza, ma poi lessi qualcosa che catturò la mia attenzione: ‘Corsi di
boxe’.
Non so bene cosa si scatenò in me. Sentivo che quello era uno dei fili che mi mancavano per ricreare l’intero velo della mia esistenza.
La soluzione che stavo cercando. Uscii, tenendo il foglio stretto in mano, senza il minimo indugio.
Non sarei andato a scuola oggi.
Ero arrivato davanti alla palestra seguendo le indicazioni riportate sul volantino. Diedi un’occhiata all’orologio. Erano sono le 8.00
del mattino.
Che cretino! Sono uscito di casa senza preoccuparmi dell’ora e per giunta mi ero di nuovo scordato di mangiare.
Mi sedetti davanti all’entrata di quel edificio. Era un po’ spoglio come palazzo, tutto grigio. Sembrava che qualcuno si fosse
dimenticato di finirlo. Mi ricordava la mia vita. Sorrisi amaramente.
Verso le 9.00 vidi un ragazzo camminare verso di me, o meglio, verso la palestra.
Aveva un cappellino che gli copriva quasi interamente gli occhi, ma riuscii a vederne le iridi castane. I capelli, anch’essi, castani di
media lunghezza spuntavano da sotto il berretto. Faceva parecchio caldo quella mattina. Infatti lui indossava una maglietta a mezze
maniche che lasciava i muscoli delle braccia scoperti. Erano ben allenati. Dopotutto lavorava in una palestra.
Mi guardò stupito. Non credo si ritrovasse tutti i giorni dei randagi davanti al luogo in cui lavorava.
Tirò su la serranda, girò la chiave nell’apposita serratura, che si trovava accanto alla porta di vetro, e questa si aprì. Mi fece cenno di entrare.
All’interno la palestra non era affatto come l’esterno del palazzo, grigio e cupo, senza anima. L’interno infatti era davvero luminoso, come se non si fossero preoccupati dell’esterno solo per rendere più vitale quello che c’era dentro. Vi era un clima vivace e dinamico. Chissà se la mia vita sarebbe mai stata così.
I miei pensieri furono scossi via dal rumore che provocò quel ragazzo poggiando a terra il borsone che gli gravava sulla schiena.
Si girò verso di me: “Cosa ti serve?” iniziò appoggiandosi con i gomiti sul bancone posto accanto all’entrata.
“Vorrei informarmi sui corsi di boxe” affermai secco.
“Per quello?” domandò con un leggero movimento del capo ed indicò il mio occhio.
“Anche per questo” la mia risposta fu seguita da una mia profonda inspirazione.
“Bene! Che tipo di corso vorresti seguire?”
“Individuale!” risposi senza esitazioni, “E mi piacerebbe imparare in fretta.”
“Arrivi subito al punto, eh?”
“Già.”
“Ok. E in quali orari vorresti fissare le tue lezioni?”
“Anche tutto il giorno!”
“Cosa?” domandò sporgendosi verso di me con sorpresa, “Ma non lavori tu?”
“No, vado ancora a scuola.”
“E puoi saltarla così?” domandò dubbioso, tornando ad appoggiarsi sul bancone.
“Penso vada bene saltarla per una settimana.”
“Mah, se lo dici tu. Hai i soldi per pagare le lezioni?”
“Certo.” Avevo messo da parte qualche soldo per il mio viaggio futuro. Non sarebbe stato un grosso problema se ne avessi preso
qualcuno. Poi implorerò Yuichi di riassumermi per qualche serata in discoteca.
“Però ti pagherò solo alla fine della settimana” puntualizzai.
I soldi si trovavano a casa con quell’alcolizzato. Tornerò là solo quando sarò in grado di difendere me stesso e mia madre. Non ho
intenzione di farmi spaccare la faccia e tanto meno di combinare altri casini.
“Basta che mi paghi” chiarì lui “Visto che non sembri propenso ad andartene, ti concedo di rimanere qui per l’intera settimana. Ti
farò lezione quando avrò delle ore buche. La sera e la pausa pranzo saranno i momenti in cui lavoreremo di più. Qualche problema?”
“Mi farai lezione tu?” domandai esterrefatto. Con quel visino minuto non mi sembrava proprio il classico boxeur.
“Che ti credi? Che sia qui per lavare i pavimenti?” ribatté con aria scura.
“No, no” Affermai subito. Nonostante avesse un viso con i tratti delicati, questo tizio mi metteva un po’ in soggezione.
Evidentemente lo notò perché sorrise. “Comunque piacere. Sono Ueda Tatsuya.”
“Kamenashi Kazuya.”
Le nostre presentazioni furono interrotte da un leggero brusio, che proveniva dall’entrata. Iniziava ad arrivare della gente.
“Bene, Kame. Mettiti lì dietro il bancone e renditi utile. Ti verrò a chiamare quando avrò tempo.” Così dicendo se ne andò.
Ma stiamo scherzando? Questo è sfruttamento! Poi dovrei pure pagarlo questo opportunista? Non feci tempo ad urlargli dietro che
alcuni clienti iniziarono a sommergermi di domande. In che situazione mi ero cacciato?

Erano già parecchie ore che fingevo di sapere qualcosa di quella palestra, dispensando informazioni a caso ai frequentatori. Stavo per
scappare dalla finestra quando vidi Ueda che mi veniva incontro. ‘Finalmente!’
“Kame, andiamo,” mi chiamò strofinandosi i capelli sudati con un asciugamano.
Lo raggiunsi. Anche prima mi aveva chiamato “Kame”. Che tipo strano.
“Non hai altri vestiti?” mi chiese rapido.
Guardai i vestiti che avevo addosso. Portavo ancora quelli che mi aveva dato Akanishi. Subito mi venne in mente il suo volto e i suoi
occhi. Ebbi anche un flash dell’incubo di quella notte.
Ueda mi schioccò le dita davanti per richiamare la mia attenzione: “Allora?”
“Ah no. Ho solo questi e la divisa scolastica.”
Sbuffò: “Te li presto io.” Mi rassicurò volgendo gli occhi al cielo.
Si mise a cercare degli abiti adatti a me nella borsa e me li passò. Sembrava che ci avesse messo tutto il suo armadio in quella sacca!
Alla stregua di Mary Poppins. Presi gli indumenti che mi porgeva e mi diressi nello spogliatoio a cambiarmi.
Guardai gli abiti che avevo poggiato sulla panchina dello spogliatoio e scoppiai a ridere. Vado a risparmio in questi giorni! Non ho
indosso mai i miei vestiti!
Uscì dallo spogliatoio ancora sorridendo. Notai che non c’era nessuno in giro. Vidi Ueda, dietro il vetro della piccola palestra, che iniziava a scaldarsi.
All’inizio avevo pensato che avesse sacrificato la sua pausa pranzo per sdebitarsi, considerando che ero stato tutto il tempo a svolgere
il suo lavoro. Ma come lo vidi muoversi capii che era lì per se stesso. Per la sua passione.
Entrai e quello mi tirò in faccia il suo asciugamano. “Quanto ci hai messo? Dai muoviti vieni qui!”
Mi avvicinai e iniziò a darmi delle dritte su come posizionarmi. Poi cercò di colpirmi con un pugno. Lo schivai appena.
“I riflessi non sono male” affermò “Iniziamo.”
Cominciammo a scagliare colpi l’uno contro l’altro e a schivarli. Come facevo una mossa mi urlava i giusti movimenti che dovevo
eseguire. Continuammo così per tutta la pausa pranzo.
Alla fine della lezione ero accasciato a terra con il fiato corto.
“Vado a farmi una doccia, poi rimettiti al bancone. A dopo!” mi salutò Ueda.
Stetti un po’ immobile poi mi rialzai. Andai verso gli spogliatoi per lavarmi.
Ero come pietrificato sotto il getto di acqua calda, che bagnava tutto il mio corpo. Stavo ripensando a quante volte Ueda mi aveva
ripreso perché stavo sbagliando approccio. Ero davvero un disastro. Capivo perché non riuscivo mai a difendermi.
Uscii dalla doccia e vidi davanti a me i vestiti di Akanishi. Avevo voglia di rivedere il suo viso. Per questa settimana non ne avrò la
possibilità. Ci rincontreremo quando avrò tessuto almeno un pezzetto del velo della mia vita. Sarebbe stato più semplice per lui
starmi accanto.
Un attimo. Volevo che mi stesse accanto? E da quando? Se pensavo a lui, mi sembrava di pensare ad una persona che conoscevo da
una vita. ‘Che cosa strana’ pensai. Sorrisi. Mi rivestii e tornai nella hall della palestra.
Passò parecchio tempo prima che Ueda mi venisse a chiamare. Tuttavia, questa volta non mi sarei allenato con lui. Mi aveva indicato
come raggiungere una sala al piano inferiore, dove si trovava un ring e un sacco da boxe.
Entrai in quella stanza buia e accesi la luce. La lampadina illuminava ben poco, sembrava di stare sotto la luce della luna. Ueda mi
aveva mostrato anche come colpire e mi sollecitò a fare esercizio, fino a quando lui non sarebbe stato libero.
Mi avvicinai al sacco e lo guardai per un istante.
Subito mi prese una gran rabbia, nel ripensare al perché ero lì. Colpii quell’oggetto inanimato con tutta la mia forza.
Caddi a terra e mi misi a piangere. Non sapevo perché stessi piangendo. Le lacrime mi rigavano il viso e le mani mi tremarono.
‘Kazuya rimettiti in piedi’ ordinai a me stesso. Mi rialzai e, con ancora il pianto sul viso, mi misi a colpire ripetutamente il sacco da
boxe. Ad un certo punto, mi colse anche la frustrazione di non capire la provenienza di quel sogno particolare. Che cosa c’era in
quello? Cosa nascondeva la mia mente? Avevo forse dimenticato qualcosa di importante? Di troppo importante.
Mi fermai quando vidi quel sacco grigio sporco di rosso. Avevo le mani che sanguinavano. Non avevo messo i guantoni. Quanto
tempo era passato? Dalla finestra non penetrava nemmeno un filo di luce.
“Eri qui! Deficiente!” sbraitò una voce alle mie spalle. Mi girai e vidi Koki. “Potevi almeno dirci che non saresti tornato. Eravamo
davvero in ansia.”
“Scusa Koki, non mi ero accorto dell’ora” risposi triste. Non avevo nemmeno un po’ di vitalità. Come se se ne fosse andata insieme
alle mie lacrime.
Koki sospirò: “Non importa, andiamo a casa. C’è Yuichi che ci aspetta.”
“No, tu vai io resto qui. Devo ancora allenarmi con Ueda.”
“Per oggi hai finito. Guardati le mani” replicò un’altra voce. Era Ueda.
“Ma...” tentai di dire.
“Niente ma. Ci vediamo domani alle 9.00! E’ meglio rallentare ogni tanto.” Annuii.
Mi cambiai in fretta e mi fasciai la mano con una garza che mi era stata data in precedenza da Ueda. Dopo di che io e Koki tornammo a casa.
In macchina non parlammo per tutta la durata del tragitto. Quando arrivammo davanti a casa Koki arrestò l’auntomobile, ma non uscì
da questa. Si rivolse a me sospirando: “Cos’è successo questa volta?”
“Le solite cose. Il problema non è cosa succede intorno a me ma quello che mi capita dentro. Non riesco mai a portare a termine, in
modo decoroso, ciò che decido di fare. Mi sento sempre così inutile”
“Non sei inutile” replicò Koki con voce bassa.
“Riuscirò mai ad essere una persona normale?”
Koki ridendo rispose: “Normale? Che cosa è normale? E poi sai che noia starti vicino se tu fossi una persona ordinaria?”
Concludendo con questa frase uscì dall’auto. Avendo fatto il giro intorno alla vettura ora mi stava facendo segno con la mano
di uscire.
Nonostante quello che mi aveva detto Koki non mi sentivo per niente confortato.
Scesi dalla macchina e lo raggiunsi senza parlare.
Entrai in casa e mi sedetti subito sul divano. Non avevo nemmeno salutato il povero Yuichi. Loro sembravano aver capito la
situazione e non mi domandarono nulla.
Sentivo l’energia lasciare il mio corpo. Pensai che un po’ di energia me l’avrebbe potuta ridare solo Akanishi.
Mi sentivo così solo. Sapevo di non esserlo, avevo delle persone che mi volevano bene. Ne avevo due a pochi metri di distanza. Però
dentro di me sentivo solo questo. Non avevo mai condiviso pienamente i miei problemi con nessuno, ne sentivo l’intero peso. In
fondo su questa terra non c’era nessuno che mi conoscesse davvero. Questo mi faceva sentire realmente solo. La gente mi passava
accanto, mi parlava. Non potevo esserlo. Eppure, il momento in cui mi rendevo conto maggiormente della mia solitudine, era quando
mi trovavo in mezzo a mille persone e nemmeno una di queste sapeva chi ero realmente.
Appoggiai la testa sul cuscino e mi addormentai senza fatica.
   
 
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