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Autore: Eva7    18/06/2012    1 recensioni
Due cose hanno messo Sarah a dura prova: la vita e gli uomini. Alcuni significativi incontri ed eventi la trascineranno a forza fuori dal mondo dei bambini e dentro quello degli adulti; ma questo non le impedirà di inseguire con passione il proprio sogno.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Tematiche delicate
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"Ti senti male, ragazza?" mi domandò il tassista, un uomo sulla trentina che dovette aver notato il mio pallore, perchè sentivo i suoi occhi che rimbalzavano apprensivi dalla strada allo specchietto retrovisore per osservarmi.

Mio padre mi aspettava al bar di fronte all'ospedale; il suo sguardo assente mi congelò. Solo una volta entrati, lui, mi guardò negli occhi e cominciò a parlare:

"Lei... non ce l'ha fatta." mi fissò ancora in attesa di una reazione, ma non c'era una lacrima sulle mie guance, nè una smorfia sulle mie labbra, così proseguì:

"Mi ha fatto promettere che avrei accettato la promozione che il mio capo mi ha offerto e che quindi ci saremmo trasferiti, così sarebbe stato più semplice riuscire a dimenticarla. Che pretesa assurda la sua, eh?" disse con un sorriso amaro, e sorseggiò il suo caffè sempre in attesa, sempre all'erta; ma io guardavo fuori dalla vetrata la gente correre sotto i loro ombrelli colorati per ripararsi dalla pioggia.

"Sun? Ehi Sun!"

Sentivo tutti i suoni ovattati; lo guardai sopita così lui chiese semplicemente:

"Vuoi tornare a casa?"

Feci un cenno impercettibile.

Quando mi trovai da sola, distesa sul mio letto, le pareti sembravano crollarmi addosso in un'oscurità che non era mai stata così tetra.

Non riuscivo ancora a mettere in ordine le parole che mio padre aveva pronunciato; erano confuse, liquide, inconsistenti.

Provai e riprovai finchè non caddi in un sonno profondo. Sognai me e mia madre sedute mollemente sul dondolo della nostra vecchia casa in un caldissimo e troppo colorato giorno d'estate. Io avevo appena 11 anni ed ero appoggiata sulle sue gambe. Il cappello di paglia che indossava le faceva ombra sul viso. La sua voce era una piacevole eco:

"Lo sai perchè ti chiamiamo Sun?"

Scossi la testa, sorridente.

Accarezzandomi la tempia spiegò con la sua voce argentina:

"Perchè i tuoi capelli hanno il colore dei raggi del sole, e quando sorridi riscaldi anche il cuore più gelido". La sua dolce risata contagiò anche me fino a che non divenne sempre più lontana.

La me bambina chiuse gli occhi, e quando li riaprii, la penombra della stanza mi riportò alla dura realtà come una secchiata d' acqua congelata in pieno volto.

Mio padre decise che non c'era tempo da perdere e così la mattina seguente eravamo già in viaggio con le nostre valige e i nostri scatoloni diretti verso Manhattan.

L'unico mio rammarico era stato quello di non poter salutare i miei amici, ma dopotutto ero contenta di cambiare aria.

Lungo il tragitto ebbi modo di riflettere: divenni lentamente consapevole che mi stavo lasciando trascinare dal dolce oblio dell'indifferenza. Una bolla in cui io stessa mi ero inconsapevolmente rifugiata, creata per istinto di sopravvivenza.

Quando giungemmo a destinazione era tutto diverso: le strade trafficate, i rumori incessanti della città, l'aria pesante. La mia nuova scuola, poi, non aveva nulla a che fare con la vecchia, cadente scuola pubblica che frequentavo nella mia rassicurante cittadina; questa era privata e tra le più rispettabili e costose; ma mio padre diceva che con il nuovo lavoro poteva permettersi di farmi avere un'istruzione come si deve.

Sicuramente non ero una persona disinvolta, ma la mia goffaggine diventava palese quando venivo trascinata sotto i riflettori. Inoltre le mie capacità di relazionarmi con gli altri erano decisamente carenti: questo mi fu solo d'ostacolo il mio primo giorno di scuola. Quando entrai in classe sentivo tutti gli occhi dei miei compagni puntati su di me, e non era d'aiuto ad alleviare il mio disagio, il dover indossare una stupida divisa che consisteva in una gonna nera al ginocchio e una camicetta bianca con lo stemma dell'istituto cucito sul petto. Fortunatamente la signorina Brown fu molto sbrigativa con le presentazioni, permettendomi di sottrarmi in fretta a quegli sguardi incuriositi.

Per il resto della giornata desiderai di essere invisibile, anche se in effetti nessuno mi importunò.

La settimana successiva il pensiero di mia madre si affievolì nonostante mi bastasse guardarmi allo specchio per rivedere le sue labbra piene e accese ed i suoi occhi grandi e un pò a mandorla; ma ero troppo impegnata a gestire le novità che il trasferimento aveva apportato alla mia vita.

La mattina, a scuola, facevamo a giorni alterni un'ora di ginnastica. Da quando ci eravamo trasferiti mio padre non aveva più tempo per fare colazione, e così neanche io mangiavo; questo mi indebolì così tanto che un giorno, mentre facevamo la nostra corsa di riscaldamento, sentii uno strano ronzio nelle mie orecchie ed il mio campo visivo restringersi sempre di più, fin quando le mie gambe non cedettero facendomi schiantare al suolo incosciente.

Mentre ero ancora moribonda percepii di essere in movimento e fui investita dall'odore più piacevole e limpido che il mio olfatto avesse mai sperimentato, ma dopo un attimo persi di nuovo i sensi.

Le mie idee e la mia vista si ristabilizzarono dopo un momento di confusione; il profumo gradevole che annusai di nuovo, mi ricordò che ero svenuta, e solo in un secondo momento avvertii una presenza accanto a me. Voltai la testa cauta e vidi un ragazzo di una bellezza sconvolgente.

Sto sognando.

I suoi capelli scuri gli cadevano scomposti sulla fronte e sugli zigomi; il viso pallido ed i lineamenti ricordavano quelli di un bambino; lo sarebbe sembrato se non fosse stato che tutto in lui suggeriva virilità, a partire dalla sigaretta tra le labbra perfettamente disegnate e quella posizione stravaccata da duro. 

Tirò dalla sua sigaretta socchiudendo i suoi occhi grigi.

Quando si accorse che ero rinvenuta, assunse la posizione tipica di chi sta osservando un fenomeno curioso con interesse.

Socchiuse le labbra e fece uscire lentamente una nuvola di fumo; poi con la sigaretta tra indice e medio, poggiò il mento sul palmo.

Cominciavo a sentrimi molto a disagio, quando l'infermiera come presa da un raptus di collera nel vedere quel ragazzo contaminare con il fumo il suo "tempio sacro", lo cacciò in malo modo gesticolando e agitandosi; ma lui la ignorò semplicemente e se ne andò come se avesse deciso da solo di tornare in classe.

Dopo qualche secondo di riassestamento, ancora incerta se non mi fossi immaginata tutto, scesi dal letto e tornai in classe anche io, dopo aver rassicurato l'infermiera un centinaio di volte che mi sentivo bene e che era tutto passato.

 

 

  
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